Musica
Arisa: vivo con gioia ogni istante, alla faccia di chi mi vuole male
Un’Arisa serena e rilassata, incontrata in occasione del Marateale Film Festival al sole della sua Basilicata, con lei il suo fidanzato Walter Ricci. L’occasione di una piacevole chiacchierata, che spazia dalla sua passione per i film, ai ricordi d’infanzia e – soprattutto – al valore della diversità, un tema che le sta molto a cuore.

All’inizio si era presentata con un personaggio un po’ naif e dall’aspetto buffo: il suo esordio con Sincerità l’aveva comunque posta immediatamente sotto ai riflettori. Chi aveva esultato ci aveva visto lungo: nel giro di qualche anno Arisa si è trasformata da brutto anatroccolo in cigno, sia dal punto di vista artistico ma anche come donna.
Un’occasione per scambiare qualche chiacchiera
Durante il Marateale Film Festival l’avevamo incontrata in compagnia del fidanzato Walter Ricci, anche lui musicista. La cantante, apparsa serena e rilassata, aveva avuto modo di dire ai giornalisti qualcosa sulla sua regione d’appartenenza: «Questo è il cielo della mia vita, la Basilicata è casa per me: la mia mamma, il mio papà, la mia infanzia». Qualche battuta scambiata con lei a Pignola, paese dell’entroterra lucano dove è cresciuta.
In che cosa ti ha influenzato questa regione?
Sono rimasta legata a tutto ciò che ho imparato quando ero bambina, anche in senso negativo. Mi sento molto legata alla mentalità lucana, in termini di schiettezza e libertà. Noi siamo fatti così!
In queste zone è incominciato tutto anche dal punto di vista artistico, giusto?
Sì, è così. Da ragazzina ho iniziato col pianobar dove la gente va a prendere l’aperitivo, si diverte, in vacanza. Io cantavo per loro e devo dire che è stata una bella palestra.
Come hai capito che la musica sarebbe stato il tuo lavoro?
Quando ho realizzato che attraverso la mia voce e il canto ero in grado di esprimevo una parte di me che nella vita di tutti i giorni non riuscivo a tirare fuori. Il lato più femminile e più preponderante di me: come se l’anima sgorgasse da un rubinetto, raccontando qualcosa che non appartiene sonlo a me ma anche agli altri, a tutti. In questo modo mi trasformo in spettatrice di me stessa… e la cosa è entusiasmante.
La tua canzone Baciami stupido rappresenta un omaggio al film di Billy Wilder?
Io cinematograficamente sono cresciuta con le commedie. Anche co quelle teatrali di De Filippo su Rai2, ma quei film americani con Marilyn Monroe mi hanno segnata. Ho un ricordo molto vivido di quei pomeriggi d’estate dopo pranzo, quando si abbassavano le serrande e in tv si guardano le commedie anni ’50 e ’60. Erano film puliti, che insegnavano qualcosa e, cosa più importante, ti facevano ridere di cuore con una comicità pulità e alla portata di tutti.
Le tue però non sono solo canzoni leggere: per esempio Canta ancora è stata inserita nel film Il ragazzo dai pantaloni rosa su Andrea Spezzacatena, suicidatosi per cyberbullismo…
La sceneggiatura di quella pellicola mi ha fatto piangere tantissimo. Spesso mi chiedono canzoni per i film… ma i copioni sono spesso deludenti. È un’esperienza nella quale mi sono immedesimata: l’essere a scuola, scoprire che la fiducia che riponi in qualcuno viene tradita. Ho rivissuto le piccole cose che accadono in età adoloscenziale. Anche io ho subito episodi di bullismo. Purtroppo Andrea non ce l’ha fatta. Se con questo film tanti ragazzi, che si sentono in difficoltà in questa società, portanno sentirsi rappresentati e trovare la forza di andare avanti… sarà una cosa importante.
In epoca dove la vita ci vuuole tutti uguali e uniformati ad una linea comune, come ti poni nei confronti delle diversità?
Si tratta indubbiamente di un valore fondamentale… e mi dispiace se in passato qualche membro della comunità LGBTQ+ mi ha fraintesa. Perché, sinceramente, reputo la diversità – anche la mia – una forza fondamentale. E chi mi segue mi ha riconosciuta anche per questo. La vita non è infinita ed è giusto viverla in consapevolezza, con la libertà di essere sempre sé stessi, senza sentirci sbagliati.
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Musica
Gino Paoli: “La mia polemica con le cantanti che mostrano il culo e con Elodie? Non sapevo chi fosse”
“Non volevo offendere Elodie. Semplicemente il mio era un discorso generale. Poi mia moglie mi ha mostrato una sua foto. È una bella donna”.

Il vecchio Gino Paoli, novantuno anni portati come un pirata in pensione, apre il baule dei ricordi e ci infila dentro di tutto: bordelli viola, puttane innamorate, whisky, sigarette, tentativi di suicidio e polemiche pop. Intervistato da Aldo Cazzullo, il cantautore che ha scritto l’inno generazionale del desiderio, Il cielo in una stanza, spara senza filtro.
«Un anno e mezzo fa dissi che un tempo avevamo Mina e Vanoni, adesso emergono le cantanti che mostrano il culo», ricorda. «Non ce l’avevo con nessuna in particolare. Giuro che non sapevo chi fosse Elodie. Poi mia moglie mi ha mostrato una sua foto: è una bella donna».
Il cantautore di Genova sorride, seduto a tavola con la moglie Paola, la figlia Amanda e la suocera Leda, 93 anni, che prepara ancora le tagliatelle come se il tempo fosse rimasto fermo. Padre e figlia hanno gli stessi occhi. Amanda racconta: «Tutte le volte che andavo da Maurizio Costanzo scoppiava a ridere: “Non ti offendere Amanda, ma sembri Gino Paoli con la parrucca”».
Poi si apre la porta del bordello dei ricordi. «Sì, Il cielo in una stanza era proprio quella stanza. Ebbi un amoretto con una puttana. Mi piaceva tanto e io piacevo a lei. Andai in quella stanza due, tre, quattro volte. Fino a quando finii i soldi». E allora il giovane Gino si inventò ladro: «Rubai i libri a mio padre, una vecchia enciclopedia che rivendetti. Così potei rivederla ancora qualche volta. Poi le dissi: questa è l’ultima volta. E lei: “Ma no, vieni lo stesso!”. La prendevo al mattino e giravamo come due fidanzati. Poi arrivò la decisione: lei doveva lasciare Genova e mi chiese di seguirla. Ci pensai seriamente, ma prevalse il senso del dovere. Non l’ho mai più rivista».
E l’orgasmo di quella canzone immortale? «È il momento in cui entra l’armonica», ride lui.
L’uomo che voleva spararsi al cuore («Avevo tutto, il successo, le donne, e non sentivo più nulla. Volevo vedere cosa c’era dall’altra parte») non ha mai superato la morte del figlio Giovanni, e oggi si concede alla vita con un cinismo da sopravvissuto. Il segreto per arrivare a 90 anni in forma? «Con lo stile di vita più malsano possibile. Ho fumato per decenni due pacchetti di sigarette al giorno e bevuto una bottiglia di whisky. L’ho detto a un convegno di gerontologi e mi hanno applaudito dieci minuti. Il mio medico mi vuole rigare la macchina».
Tra Elodie, i bordelli di Genova, le puttane dal cuore tenero e un cielo che ancora profuma di desiderio proibito, Gino Paoli resta fedele al suo personaggio: un vecchio ragazzo che non ha mai fatto pace con la vita, e per questo è ancora vivo.
Musica
Ozzy Osbourne, la morte assistita? Il biografo sgancia la bomba: “Ha scelto l’eutanasia per non soffrire”
Ozzy è morto davvero per cause naturali? Nessuna indicazione sul luogo o sulla dinamica del decesso. Ora la biografia di Ken Paisli rilancia l’ipotesi della dolce morte: “Aveva paura della sofferenza, non della fine. E ha sempre detto che non voleva morire come suo padre”. Gli indizi ci sono.

Ozzy Osbourne è morto. Ma come è morto davvero il Principe delle tenebre? È questa la domanda che scuote oggi il mondo del rock. Perché, a pochi giorni dall’annuncio della famiglia, arriva una rivelazione che cambia tutto: Ozzy avrebbe scelto l’eutanasia per evitare la sofferenza.
A insinuarlo è Ken Paisli, autore del libro Ozzy – La storia, in uscita il 6 agosto. Una bomba sganciata con fredda lucidità: “Non temeva la morte, ma il dolore. E credo che sia riuscito a evitarlo”, scrive Paisli, ricordando un’intervista del 2022 in cui Ozzy dichiarava: “Se hai una malattia terminale, è giusto poter decidere. Ho visto mio padre morire tra atroci dolori. Io non voglio finire così”.
Ozzy lottava da anni con il Parkinson, e da mesi era visibilmente peggiorato. Ma lunedì, poco prima dell’annuncio, sui suoi social è apparsa un’immagine che ora suona come un addio: una foto davanti al camerino del suo ultimo concerto a Birmingham, sotto una scritta chiara: “The final show”. Lo show finale.
Poi, il buio. Il comunicato diffuso dalla famiglia parla solo di “morte avvenuta circondato dall’amore”, nessun dettaglio su dove sia avvenuta, nessun accenno alle cause. Nessun ospedale, nessun testamento artistico. Solo silenzio.
Un silenzio che pesa. E alimenta la tesi del biografo: una scelta consapevole, intima, lucida. Non una fuga, ma un atto di controllo. Ozzy, che ha sempre vissuto al limite, potrebbe aver deciso di chiudere la partita a modo suo, evitando la tragedia del lento decadimento fisico.
Un gesto estremo. Ma profondamente coerente con la sua leggenda.
Musica
Dimmi che canzone ascolti d’estate e ti dirò chi sei (spoiler: se canti “Vamos a la playa” sei irrimediabilmente vintage)
Dall’invasione reggaeton ai nostalgici degli anni ’80, passando per chi ascolta Battisti come se fosse un mantra zen, la musica estiva disegna profili psicologici più precisi di un test della personalità. E sì, c’è una ragione scientifica se il cervello ama i tormentoni ripetitivi (anche quando tu fingi di odiarli).

Che estate sarebbe senza una canzone da canticchiare – o subire – fino allo sfinimento? Che ti piaccia o no, la tua colonna sonora balneare dice molto di te. Non è solo questione di gusti musicali: è proprio un identikit psicologico da playlist. Perché in fondo, dimmi cosa ascolti sotto l’ombrellone e ti dirò chi sei. E quanto sei disposto a farti compatire.
Cominciamo da quelli che mettono “Vamos a la playa” appena poggiano l’asciugamano. Sono i nostalgici incalliti. Cresciuti a Festivalbar e cocomeri in spiaggia, indossano con orgoglio infradito fluo e credono ancora che Righeira sia uno stato mentale. Li riconosci perché sorridono da soli mentre aprono l’ombrellone: stanno già ascoltando la loro hit nel cervello.
Poi ci sono i devoti del reggaeton. Per loro ogni estate ha un solo suono: quello della cassa dritta che batte come un cuore impazzito. Ascoltano Bad Bunny, Peso Pluma o chiunque abbia una vocale accentata nel nome. Ballano anche se stanno facendo la fila per un ghiacciolo. E hanno una convinzione incrollabile: se la canzone non ti fa venire voglia di muovere il bacino, non è estate.
All’opposto ci sono gli indie-snob del lettino, cuffie grandi, sguardo assorto, e playlist che spazia tra artisti islandesi e remix ambient di canzoni che nessuno conosce. D’estate, fingono di odiare i tormentoni. Ma poi li becchi, a settembre, che canticchiano “Italodisco” sotto la doccia.
E che dire dei battistiani da spiaggia? Sguardo nostalgico verso il mare, leggono Pavese mentre “La canzone del sole” fa da sottofondo. Non cercano il tormentone, cercano l’assoluto. Ma se gli parte “E penso a te”, non rispondono più di loro stessi.
Infine ci sei tu, che ti sei detto “quest’anno cambio playlist” e poi ti sei ritrovato per l’ottava estate di fila a battere il piede con “Despacito”. Perché sì, la colpa è del cervello: in estate la corteccia uditiva si “rilassa” e preferisce suoni semplici, ripetitivi, prevedibili. Il caldo appanna le sinapsi, e i tormentoni sono come granite musicali: dolci, freddi, sempre uguali. E dannatamente irresistibili.
Quindi la prossima volta che senti partire l’ennesimo “oh oh oh” sulla spiaggia, non arrabbiarti. È la tua amigdala che balla.
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