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Musica

L’effetto popolarità di Sanremo colpisce anche Serena Brancale, dalla Puglia al palco (video)

La sua partecipazione con “Anema e core” ha rappresentato un momento cruciale nella sua carriera, mettendo in risalto il suo talento e la sua capacità di emozionare il pubblico attraverso la musica. Con una solida formazione alle spalle e una chiara visione artistica, Serena si prepara a nuove sfide e opportunità, pronta a lasciare un segno indelebile nel panorama musicale italiano.

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    Serena Brancale è un talento vero. Cantautrice e polistrumentista originaria di Bari, ha conquistato il pubblico del Festival di Sanremo 2025 con la sua emozionante interpretazione di “Anema e core”. Nata il 4 maggio 1989, Serena è cresciuta in una famiglia dove la musica era di casa: sua madre era una musicista e suo padre un ex calciatore. Fin da piccola, ha mostrato una forte inclinazione per le arti, dedicandosi allo studio del violino e conseguendo il diploma in canto jazz presso il Conservatorio Alfredo Casella de L’Aquila.

    Il suo è un mix virtuoso di generi

    La sua carriera artistica è iniziata precocemente, debuttando a soli 14 anni come attrice nel film Mio cognato di Alessandro Piva. Nel corso degli anni, Serena ha saputo fondere generi musicali come jazz, funk, rhythm and blues, neo soul e pop, creando un sound unico e riconoscibile. La sua partecipazione a Sanremo 2025 con il brano Anema e core ha rappresentato una tappa fondamentale nella sua carriera, mettendo in luce la sua versatilità e profondità artistica.

    Il duetto con Alessandra Amoroso

    Durante la serata delle cover del Festival, Serena ha condiviso il palco con Alessandra Amoroso, offrendo al pubblico una splendida versione di If I Ain’t Got You di Alicia Keys, performance che ha ulteriormente consolidato la sua posizione nel panorama musicale italiano. Un duetto se possibile anche più efficace di quello che poi ha vinto la serata: quello di Giorgia e Annalisa.

    Molto attiva nel Fantasanremo

    Oltre al successo sanremese, Serena Brancale è stata protagonista anche nel Fantasanremo, il gioco online parallelo al Festival che coinvolge artisti e fan in una competizione virtuale. La sua energia e interazione con il pubblico le hanno permesso di emergere come una delle leader in questa simpatica iniziativa, dimostrando il suo carisma e la capacità di coinvolgere gli spettatori.

    La sua Bari rappresenta un’ispirazione

    Attualmente, Serena risiede a Bari, la città che l’ha vista crescere e che continua a ispirare la sua musica. Per quanto riguarda i progetti futuri, dopo l’esperienza sanremese, l’artista ha annunciato l’intenzione di lavorare a un nuovo album, in cui esplorerà ulteriormente le contaminazioni tra i vari generi musicali che da sempre caratterizzano il suo stile. Inoltre, sono in programma una serie di concerti in tutta Italia, con l’obiettivo di portare la sua musica a un pubblico sempre più ampio e consolidare la sua presenza sulla scena musicale nazionale.

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      Musica

      Gino Paoli: “La mia polemica con le cantanti che mostrano il culo e con Elodie? Non sapevo chi fosse”

      “Non volevo offendere Elodie. Semplicemente il mio era un discorso generale. Poi mia moglie mi ha mostrato una sua foto. È una bella donna”.

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        Il vecchio Gino Paoli, novantuno anni portati come un pirata in pensione, apre il baule dei ricordi e ci infila dentro di tutto: bordelli viola, puttane innamorate, whisky, sigarette, tentativi di suicidio e polemiche pop. Intervistato da Aldo Cazzullo, il cantautore che ha scritto l’inno generazionale del desiderio, Il cielo in una stanza, spara senza filtro.

        «Un anno e mezzo fa dissi che un tempo avevamo Mina e Vanoni, adesso emergono le cantanti che mostrano il culo», ricorda. «Non ce l’avevo con nessuna in particolare. Giuro che non sapevo chi fosse Elodie. Poi mia moglie mi ha mostrato una sua foto: è una bella donna».

        Il cantautore di Genova sorride, seduto a tavola con la moglie Paola, la figlia Amanda e la suocera Leda, 93 anni, che prepara ancora le tagliatelle come se il tempo fosse rimasto fermo. Padre e figlia hanno gli stessi occhi. Amanda racconta: «Tutte le volte che andavo da Maurizio Costanzo scoppiava a ridere: “Non ti offendere Amanda, ma sembri Gino Paoli con la parrucca”».

        Poi si apre la porta del bordello dei ricordi. «Sì, Il cielo in una stanza era proprio quella stanza. Ebbi un amoretto con una puttana. Mi piaceva tanto e io piacevo a lei. Andai in quella stanza due, tre, quattro volte. Fino a quando finii i soldi». E allora il giovane Gino si inventò ladro: «Rubai i libri a mio padre, una vecchia enciclopedia che rivendetti. Così potei rivederla ancora qualche volta. Poi le dissi: questa è l’ultima volta. E lei: “Ma no, vieni lo stesso!”. La prendevo al mattino e giravamo come due fidanzati. Poi arrivò la decisione: lei doveva lasciare Genova e mi chiese di seguirla. Ci pensai seriamente, ma prevalse il senso del dovere. Non l’ho mai più rivista».

        E l’orgasmo di quella canzone immortale? «È il momento in cui entra l’armonica», ride lui.

        L’uomo che voleva spararsi al cuore («Avevo tutto, il successo, le donne, e non sentivo più nulla. Volevo vedere cosa c’era dall’altra parte») non ha mai superato la morte del figlio Giovanni, e oggi si concede alla vita con un cinismo da sopravvissuto. Il segreto per arrivare a 90 anni in forma? «Con lo stile di vita più malsano possibile. Ho fumato per decenni due pacchetti di sigarette al giorno e bevuto una bottiglia di whisky. L’ho detto a un convegno di gerontologi e mi hanno applaudito dieci minuti. Il mio medico mi vuole rigare la macchina».

        Tra Elodie, i bordelli di Genova, le puttane dal cuore tenero e un cielo che ancora profuma di desiderio proibito, Gino Paoli resta fedele al suo personaggio: un vecchio ragazzo che non ha mai fatto pace con la vita, e per questo è ancora vivo.

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          Ozzy Osbourne, la morte assistita? Il biografo sgancia la bomba: “Ha scelto l’eutanasia per non soffrire”

          Ozzy è morto davvero per cause naturali? Nessuna indicazione sul luogo o sulla dinamica del decesso. Ora la biografia di Ken Paisli rilancia l’ipotesi della dolce morte: “Aveva paura della sofferenza, non della fine. E ha sempre detto che non voleva morire come suo padre”. Gli indizi ci sono.

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            Ozzy Osbourne è morto. Ma come è morto davvero il Principe delle tenebre? È questa la domanda che scuote oggi il mondo del rock. Perché, a pochi giorni dall’annuncio della famiglia, arriva una rivelazione che cambia tutto: Ozzy avrebbe scelto l’eutanasia per evitare la sofferenza.

            A insinuarlo è Ken Paisli, autore del libro Ozzy – La storia, in uscita il 6 agosto. Una bomba sganciata con fredda lucidità: “Non temeva la morte, ma il dolore. E credo che sia riuscito a evitarlo”, scrive Paisli, ricordando un’intervista del 2022 in cui Ozzy dichiarava: “Se hai una malattia terminale, è giusto poter decidere. Ho visto mio padre morire tra atroci dolori. Io non voglio finire così”.

            Ozzy lottava da anni con il Parkinson, e da mesi era visibilmente peggiorato. Ma lunedì, poco prima dell’annuncio, sui suoi social è apparsa un’immagine che ora suona come un addio: una foto davanti al camerino del suo ultimo concerto a Birmingham, sotto una scritta chiara: “The final show”. Lo show finale.

            Poi, il buio. Il comunicato diffuso dalla famiglia parla solo di “morte avvenuta circondato dall’amore”, nessun dettaglio su dove sia avvenuta, nessun accenno alle cause. Nessun ospedale, nessun testamento artistico. Solo silenzio.

            Un silenzio che pesa. E alimenta la tesi del biografo: una scelta consapevole, intima, lucida. Non una fuga, ma un atto di controllo. Ozzy, che ha sempre vissuto al limite, potrebbe aver deciso di chiudere la partita a modo suo, evitando la tragedia del lento decadimento fisico.

            Un gesto estremo. Ma profondamente coerente con la sua leggenda.

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              Dimmi che canzone ascolti d’estate e ti dirò chi sei (spoiler: se canti “Vamos a la playa” sei irrimediabilmente vintage)

              Dall’invasione reggaeton ai nostalgici degli anni ’80, passando per chi ascolta Battisti come se fosse un mantra zen, la musica estiva disegna profili psicologici più precisi di un test della personalità. E sì, c’è una ragione scientifica se il cervello ama i tormentoni ripetitivi (anche quando tu fingi di odiarli).

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                Che estate sarebbe senza una canzone da canticchiare – o subire – fino allo sfinimento? Che ti piaccia o no, la tua colonna sonora balneare dice molto di te. Non è solo questione di gusti musicali: è proprio un identikit psicologico da playlist. Perché in fondo, dimmi cosa ascolti sotto l’ombrellone e ti dirò chi sei. E quanto sei disposto a farti compatire.

                Cominciamo da quelli che mettono “Vamos a la playa” appena poggiano l’asciugamano. Sono i nostalgici incalliti. Cresciuti a Festivalbar e cocomeri in spiaggia, indossano con orgoglio infradito fluo e credono ancora che Righeira sia uno stato mentale. Li riconosci perché sorridono da soli mentre aprono l’ombrellone: stanno già ascoltando la loro hit nel cervello.

                Poi ci sono i devoti del reggaeton. Per loro ogni estate ha un solo suono: quello della cassa dritta che batte come un cuore impazzito. Ascoltano Bad Bunny, Peso Pluma o chiunque abbia una vocale accentata nel nome. Ballano anche se stanno facendo la fila per un ghiacciolo. E hanno una convinzione incrollabile: se la canzone non ti fa venire voglia di muovere il bacino, non è estate.

                All’opposto ci sono gli indie-snob del lettino, cuffie grandi, sguardo assorto, e playlist che spazia tra artisti islandesi e remix ambient di canzoni che nessuno conosce. D’estate, fingono di odiare i tormentoni. Ma poi li becchi, a settembre, che canticchiano “Italodisco” sotto la doccia.

                E che dire dei battistiani da spiaggia? Sguardo nostalgico verso il mare, leggono Pavese mentre “La canzone del sole” fa da sottofondo. Non cercano il tormentone, cercano l’assoluto. Ma se gli parte “E penso a te”, non rispondono più di loro stessi.

                Infine ci sei tu, che ti sei detto “quest’anno cambio playlist” e poi ti sei ritrovato per l’ottava estate di fila a battere il piede con “Despacito”. Perché sì, la colpa è del cervello: in estate la corteccia uditiva si “rilassa” e preferisce suoni semplici, ripetitivi, prevedibili. Il caldo appanna le sinapsi, e i tormentoni sono come granite musicali: dolci, freddi, sempre uguali. E dannatamente irresistibili.

                Quindi la prossima volta che senti partire l’ennesimo “oh oh oh” sulla spiaggia, non arrabbiarti. È la tua amigdala che balla.

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