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Personaggi e interviste

Al Bano e la pace con vista sul Cremlino: quando il silenzio sarebbe stata l’opzione migliore

Durante un’intervista al Tg1, il cantante chiede: “Dove sono bombe e cannoni?”, ignorando il conflitto che da anni devasta l’Ucraina. Un’altra uscita infelice che alimenta le polemiche sulla sua partecipazione a un evento organizzato in Russia.

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Al Bano e la pace con vista sul Cremlino: quando il silenzio sarebbe stata l’opzione migliore

    La guerra in Ucraina è reale. Le bombe esistono. I morti pure. Eppure Al Bano Carrisi, volato in Russia per un concerto “per la pace” insieme a Iva Zanicchi, riesce a negare persino l’evidenza. Intervistato dal Tg1 durante il soggiorno a San Pietroburgo, ha candidamente chiesto alla giornalista: “Dicono che qui ci sono bombe e cannoni, tu li vedi?”. Come se la tragedia di un conflitto si misurasse a colpo d’occhio, affacciandosi dal balcone di un hotel di lusso.

    La giornalista, con professionalità e sangue freddo, gli ha risposto: “La guerra non è qui”. Sottinteso: ma esiste eccome. Solo che è dall’altra parte del confine. Dove, evidentemente, il cantante di Cellino San Marco non ha rivolto lo sguardo. Sarebbe bastata una lettura dei giornali. O un minimo di sensibilità.

    Il problema non è il concerto in sé – la musica può e deve unire. Il problema è la cecità, la superficialità, l’autoreferenzialità con cui certi artisti decidono di infilarsi in contesti delicatissimi, senza il minimo senso della misura. Andare a cantare per la pace in uno Stato che ha invaso un altro, che bombarda città, deporta bambini, reprime ogni voce interna contraria al regime, è già di per sé un’operazione quantomeno discutibile. Ma andarci e poi domandarsi dove siano le bombe, è un autogol clamoroso. Peggio: è una figuraccia planetaria.

    Non è la prima. Chi segue Al Bano sa che negli ultimi anni le sue esternazioni hanno fatto più notizia delle sue canzoni. Dall’elogio di Putin (“uomo di pace”) alla gaffe sulla spettatrice “troppo grassa” invitata a dimagrire durante un concerto, Carrisi sembra sempre più scollegato dalla realtà. Una realtà in cui la guerra c’è davvero, anche se non si vede dal palco di San Pietroburgo.

    “Ho accettato subito, cinque mesi fa, perché voglio invocare la pace”, ha detto. Ma la pace non si invoca solo a parole, soprattutto se nel frattempo si fa passerella nella nazione aggressore. In un’epoca in cui ogni gesto pubblico ha un peso politico, Al Bano sembra ancora convinto che basti cantare Felicità per sistemare tutto.

    E invece no. Ci sono momenti in cui sarebbe meglio restare in silenzio. Non per vigliaccheria, ma per rispetto. Verso chi una guerra la vive davvero. E non la osserva da un camerino riscaldato.

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      Personaggi e interviste

      Teo Mammucari contro i revival tv: “La Ruota della Fortuna è roba vecchia”, ma oggi gioca al Tabellone di Domenica In con Mara Venier

      Mesi fa Teo Mammucari aveva liquidato la scelta di riproporre La Ruota della Fortuna come un segno di scarsa innovazione televisiva. Oggi, ironia della sorte, affianca Mara Venier a Domenica In rilanciando il “Tabellone” di Gianni Boncompagni, un gioco nato nel 1980 e ripescato per conquistare il pubblico della domenica pomeriggio.

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        La televisione, si sa, ha la memoria lunga. E a volte le dichiarazioni tornano indietro come boomerang. È quello che sta vivendo Teo Mammucari, volto storico della tv italiana, che solo qualche mese fa si era scagliato contro l’ennesimo ritorno del passato sul piccolo schermo. Nel mirino c’era La Ruota della Fortuna, tornata in onda su Canale 5 con Gerry Scotti e Samira Lui. «Quando sentii Pier Silvio Berlusconi dire che avrebbero fatto La Ruota della Fortuna, dentro di me ho detto: questo sta scherzando, dov’è la novità?», aveva dichiarato. E ancora: «Facciamo cose nuove, altrimenti la gente si ipnotizza sui social con altre cose».

        Parole nette, che avevano trovato consenso in chi vorrebbe una televisione più coraggiosa e innovativa, meno legata ai format di un tempo. Ma che oggi assumono un sapore ironico, se non paradossale. Perché Mammucari, che in passato non ha mai avuto paura di esprimere giudizi scomodi, ora è al centro di un revival altrettanto dichiarato: il Tabellone di Domenica In.

        Il gioco ideato da Gianni Boncompagni nel 1980 torna infatti nella storica trasmissione di Rai 1 e ad affiancare Mara Venier nella conduzione c’è proprio lui, il critico più feroce dei “ritorni al passato”. Una coincidenza che non è sfuggita al pubblico e che sui social ha già scatenato commenti ironici: dal «predicava bene e razzolava male» a «quando la nostalgia paga, le parole si dimenticano».

        Mammucari, abituato a vivere di contraddizioni e battute taglienti, non sembra però turbato dal cortocircuito. Anzi, si è mostrato a suo agio nello studio di Domenica In, pronto a giocare con i concorrenti e a riportare in vita quel pezzo di televisione che aveva fatto la storia degli anni ’80 e ’90.

        Il Tabellone, per chi non lo ricordasse, era un gioco di abilità e fortuna che mescolava cultura pop, memoria visiva e ritmo televisivo. Riproporlo oggi significa puntare sulla carta vincente della nostalgia, proprio come è avvenuto con La Ruota della Fortuna.

        Così, la parabola di Mammucari diventa un esempio perfetto delle dinamiche televisive: si critica la minestra riscaldata, ma quando la si ritrova sul proprio piatto, magari accompagnata da una conduttrice amatissima come Mara Venier, diventa improvvisamente digeribile. La coerenza, del resto, non ha mai fatto grandi ascolti.

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          Costantino Vitagliano, dalla gloria al dolore: “Posso morire in pochi secondi, ma la mia vita è stata piena”

          Dai guadagni milionari ai riflettori spenti, fino alla diagnosi che gli ha cambiato l’esistenza: Costantino Vitagliano si confessa da Monica Setta. “Ho avuto la fortuna di poter aiutare i miei genitori, vengo da una vita di sacrifici e questo mi ha reso pronto anche al dolore”.

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            Costantino Vitagliano, l’uomo che per primo trasformò il trono di “Uomini e Donne” in un fenomeno nazionale, oggi combatte con una malattia che lo accompagna come un’ombra costante. “Posso morire in pochi secondi”, ha rivelato con voce ferma a Monica Setta, spiegando che dovrà assumere farmaci a vita per tenere sotto controllo una condizione che definisce una vera spada di Damocle. Una confessione che ha spiazzato i fan, abituati a ricordarlo come il bello e dannato che negli anni Duemila faceva impazzire le platee televisive.

            Ma la malattia, per quanto dura, non ha tolto a Costantino la lucidità né la capacità di guardarsi indietro senza rimpianti. “Guadagnavo cifre da capogiro, ma non ho sofferto quando i tempi sono cambiati perché ho fatto tanti step, non sono esploso all’improvviso. Vengo da una vita di sacrifici. Ho avuto la fortuna di poter aiutare i miei genitori”, ha raccontato, mettendo a nudo l’uomo oltre il personaggio.

            Un racconto di resilienza che parte dalle periferie, dove è cresciuto tra sacrifici e sogni semplici, fino ad arrivare agli anni d’oro della sua carriera, quando ogni suo gesto finiva sui giornali e i cachet salivano vertiginosamente. Poi, inevitabilmente, la parabola del successo ha rallentato, e Vitagliano ha saputo affrontare anche quel momento: “Non ho mai vissuto crolli traumatici, perché non mi sono mai illuso che potesse durare per sempre. La vita è fatta di cicli”.

            Oggi la sua sfida non è più davanti alle telecamere, ma nella quotidianità scandita dalle cure. “Non ho paura di raccontarmi – ha spiegato – perché la malattia fa parte di me. È un compagno scomodo, ma mi ricorda ogni giorno che la vita è preziosa”.

            L’ex tronista non rinnega nulla: dagli amori da copertina alla fama improvvisa, fino ai momenti difficili. Con la consapevolezza di chi ha visto entrambe le facce della medaglia, Vitagliano affronta il futuro con la forza di chi non vuole smettere di vivere, anche sapendo di avere accanto una minaccia silenziosa.

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              Dalle fiction di successo alle accuse: Garko e De Sio rompono il silenzio sull’era Ares, tra compromessi e pressioni

              A distanza di anni, il mito dorato delle serie Ares mostra crepe profonde: Gabriel Garko parla di una “gabbia” da cui non poteva uscire, mentre Giuliana De Sio rivela pressioni inquietanti, dal finto rapimento chiesto per promuovere una fiction fino al diktat su relazioni pilotate.

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              Gabriel Garko

                Le fiction Ares hanno segnato un’epoca. Per anni, titoli come L’Onore e il Rispetto, Il peccato e la vergogna, Pupetta e tante altre hanno catalizzato milioni di spettatori davanti alla tv, costruendo divi e consacrando personaggi. Ma a distanza di tempo, i racconti di chi quel mondo lo ha vissuto da protagonista svelano il rovescio della medaglia: compromessi, pressioni e minacce che oggi, forse, aiutano a leggere sotto una luce diversa quell’impero.

                Il primo a riaprire il vaso di Pandora è stato Gabriel Garko. Ospite di Da Noi… a Ruota Libera su Rai 1, l’attore ha parlato senza mezzi termini di una “gabbia” in cui è rimasto rinchiuso per anni. «Sono dovuto scendere a compromessi», ha ammesso, con la voce incrinata dal peso dei ricordi. Un riferimento nemmeno troppo velato al sistema che lo aveva trasformato in sex symbol nazionale, imprigionandolo però in un’immagine costruita a tavolino, difficile da scalfire.

                Parole che hanno trovato eco pochi giorni dopo in un’altra testimonianza dirompente. Giuliana De Sio, intervistata da Peter Gomez a La Confessione, ha raccontato un episodio che ancora oggi definisce “allucinante”. L’attrice ha ricordato una richiesta assurda che le sarebbe stata fatta da Alberto Tarallo, il produttore al centro della galassia Ares: «Mi chiese di fingere un rapimento per promuovere una fiction. E quando dissi no, arrivarono altre pressioni: “Ti devi fidanzare con questa persona”. Non era più lavoro, era manipolazione».

                Le sue parole non si fermano lì. «C’era chi minacciava di distruggere chiunque osasse ribellarsi. Quando decisi di andare via, mi dissero che la mia carriera sarebbe finita. E infatti, da quel momento, ho lavorato quasi solo in teatro».

                Un racconto amaro, che stride con l’immagine patinata delle fiction Ares, veri fenomeni di costume negli anni d’oro delle generaliste. Sullo sfondo resta la figura di Tarallo, regista occulto di dinamiche che oggi emergono dai ricordi dei protagonisti.

                Due voci diverse, ma unite da una comune sensazione di oppressione: quella di essere stati ingabbiati in un sistema che prometteva fama e popolarità, ma a caro prezzo. E che oggi, a distanza di anni, lascia dietro di sé più di un’ombra.

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