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Spettacolo

Ma davvero Mediaset ha superato la RAI? Ah, saperlo…

Ieri mattina il trambusto ai piani alti di Viale Mazzini si poteva sentire fino agli studi Rai di Saxa Rubra: tema del contendere il sorpasso, presunto, degli ascolto di Mediaset sulla tv di Stato. Uno scontro che potremmo definire ormai ‘secolare’.

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    Fiorello e Fabrizio Biggio a VivaRai2

    Il trambusto ai piani alti di Viale Mazzini si poteva sentire fino agli studi Rai di Saxa Rubra: tema del contendere il sorpasso, presunto, degli ascolti di Mediaset sulla tv di Stato. Uno scontro che potremmo definire ormai ‘secolare’. A innescare la polemica un articolo del quotidiano La Repubblica ripreso nella trasmissione VivaRai2, dal conduttore Fiorello. Ascoltata la notizia che dava Mediaset superare negli ascolti la Rai, l’amministratore delegato di quest’ ultima Roberto Sergio ha telefonato in diretta al conduttore: “Sorpasso Mediaset è fake news, siamo ancora primi”.

    Ma forse i dati lo smentiscono

    Non l’ha presa bene, l’Ad della Rai e nemmeno, così sembra dalle dichiarazioni, il premier Giorgia Meloni impegnata a Bruxelles. “Quello del 2023 è il nostro miglior bilancio degli ultimi anni e restiamo sempre leader negli ascolti“, ha ribadito Sergio. Ma ci sono alcuni ma. Da una parte la fuga di ‘cervelli’ verso altri emittenti, ovvero alcuni personaggi simbolo della tv di Stato che lentamente si stanno dirigendo verso altri leader di mercato, vedi la vicenda Amadeus. Il nervosismo aumenta quando a sostenere il calo negli ascolti entrano in campo anche considerazioni di natura politica. La svolta impressa nei palinsesti e nella gestione dell’informazione, forse non piace più tanto ai telespettatori.

    A questo punto è il premier a infuriarsi che tuona con frecciatine molto piccate. “Si parla di TeleMeloni, ma io non accetto lezioni di democrazia da nessuno. Ricostruzioni surreali. Come si fa a sostenere che oggi io voglia controllare la stampa coì come la tv e l’informazione in genere se il regolamento è rimasto quello che c’era prima?“. E aggiunge che la notizia è inventata “(…) per raccontare un’Italia nella quale, quasi quasi, c’è una qualche deriva. Non credo che come nazione ci facciamo una bella figura“.

    Quindi è solo una fake news?

    Il Cda fa diramare una velina in cui afferma che “il primato è certificato dai numeri”, senza ricordare però che il 37% di audience sulle 24 ore, riportato dal quotidiano La Repubblica (contro il 37,7 del Biscione), è quello inserito nel Bilancio 2023 e approvato dal Consiglio stesso. Ma aggiunge pure che “è scorretto paragonare perimetri diversi“. E già perché sembrerebbe che per fare i conti la Rai tenga conto solo dei dati delle tre principali reti RaiUno, RaiDue e Raitre confrontandole con le tre reti generaliste Mediaset.

    Effetto boomerang

    Ma ignora di sana pianta tutte le altre in loro possesso. Un conteggio strano visto che da quando è in funzione Auditel oltre alle singole reti tiene conto dei gruppi editoriali. Il principale dato su cui le aziende media si giocano l’appeal verso chi investe in pubblicità. L’ Ad di Rai Sergio quindi sceglie deliberatamente i canali dove sa che è in vantaggio? Una scelta che produce un effetto boomerang. I canali Rai sono in declino e hanno perso ascolto proprio nell’anno dei meloniani al comando.

    Quei decimali che pesano negli introiti pubblicitari

    Con il sistema di valutazione adottato da Sergio, invece, il servizio pubblico manterrebbe il primato sui concorrenti. E per sostenere questo, sciolina altri dati secondo cui la Rai sarebbe leader nell’intera giornata con uno share del 31% e una media di 2 milioni 527mila spettatori. A differenza di Mediaset che registra uno share del 26.8 con 2 milioni 184 mila di ascoltatori. Non solo. Nel prime time Rai denuncia uno share del 32% e 6 milioni 12mila spettatori (contro il 26.7 e 5 milioni 8mila della concorrenza). Ma se il confronto abbraccia tutta la gamma delle proposte editoriali, come forse sarebbe più corretto fare, la Tv di Stato si piazza per la prima volta seconda, battuta per uno 0,7% dal gruppo di Mediaset. I dati Auditel sugli spettatori complessivi parlano chiaro. Nel 2023 Viale Mazzini ha perso l’1%, mentre il Biscione ha guadagnato lo 0,7%. Chi avrà ragione?

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      Personaggi e interviste

      Influencer in fuga. Andrea Pinna, da Pechino Express alle borse tarocche: 45 donne gabbate e 25mila euro evaporati

      Dalle chat “Oche Spennate” alle sparizioni strategiche, la parabola di Pinna sembra scritta da uno sceneggiatore di dark comedy: promesse di Chanel e Gucci, soldi incassati e solo silenzi in cambio. Ora le vittime parlano di truffa e il web lo cerca invano.

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        Un tempo Andrea Pinna faceva ridere il web e trionfava a Pechino Express. Oggi fa piangere le sue ex fan. Perché, stando alle accuse, l’influencer avrebbe trasformato la sua popolarità in un minimarket di lusso… fasullo. Il metodo? Chat segrete su WhatsApp e Telegram dal nome già premonitore, “Oche Spennate”, dove proponeva borse e gioielli griffati a prezzi da saldo di fine mondo.

        Le clienti – donne tra i trenta e i sessant’anni – credevano di aver trovato il colpaccio: Chanel a metà prezzo, Gucci a un terzo del valore, qualche Cartier “con un piccolo difetto”. La realtà era meno glamour: pacchi con paccottiglia di dubbio gusto o, nella migliore delle ipotesi, il vuoto cosmico.

        Quando le prime “oche” hanno iniziato a starnazzare, Pinna ha sfoderato una collezione di scuse da manuale: problemi di salute, ricoveri lampo, persino hacker misteriosi pronti a cancellare commenti e messaggi sgraditi dai suoi profili. Nel frattempo, i pagamenti arrivavano puntuali: bonifici e PayPal “amici e parenti”, cioè la modalità preferita da chi non vuole rimborsare nessuno.

        Poi il colpo di teatro: sparito dai radar. Niente Instagram, niente risposte alle chat, telefoni muti. Dalle note vocali rimaste in circolazione, il tono è quasi da commedia tragica: «Io non ho soldi, non possiedo nulla… Se continuo a lavorare magari vi restituisco qualcosa». Tradotto: meglio non trattenere il fiato.

        Perfino un fornitore cinese che avrebbe collaborato con lui si sarebbe detto ingannato e pronto a chiudere ogni rapporto. Nel frattempo, le ex clienti organizzano raccolte di prove, chat salvate e screenshot, mentre il web si divide tra chi si indigna e chi ride amaro: dalle frasi geniali agli scontrini fantasma, la parabola di Pinna sembra una black comedy in tempo reale.

        Ad oggi, dell’influencer non c’è traccia. Solo borse finte, 25mila euro che ballano e un insegnamento non richiesto: se la chat si chiama “Oche Spennate”, forse conviene drizzare le antenne prima di aprire il portafoglio.

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          Televisione

          Sanremo, ultimatum Rai: o il Comune abbassa le pretese o il Festival trasloca a Torino (con rischio flop pubblicitario)

          Il cda di Viale Mazzini è spaccato, il Comune di Sanremo non molla sulle richieste economiche e il rischio di perdere il marchio storico preoccupa anche gli inserzionisti: un “piano B” fuori dalla Riviera potrebbe ridurre appeal e incassi.

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            Sanremo, capitale della canzone italiana, rischia di perdere il suo Festival. Nelle ultime ore, la tensione tra il Comune e la Rai è salita alle stelle. Sul tavolo, una trattativa complicata e logorante per l’edizione 2026, con l’ultimatum di Viale Mazzini che scadrà la prossima settimana. Se non si troverà un accordo, il Festival della Canzone Italiana è pronto a fare le valigie. E la destinazione più probabile, ormai non è più un mistero, si chiama Torino: città già collaudata con l’Eurovision Song Contest, con infrastrutture moderne e studi televisivi pronti a ospitare la macchina più complessa della tv italiana.

            Dietro le quinte, la partita è politica, economica e di immagine. Ieri sera l’amministratore delegato della Rai, Giampaolo Rossi, ha aggiornato il cda spiegando lo stato della trattativa con il Comune ligure. La fotografia è impietosa: richiesta economica giudicata “elevata” da Viale Mazzini, cda spaccato, consiglieri che contestano persino la decisione di partecipare al bando pubblico indetto da Sanremo. «Se si partecipa – mormorano alcuni – si accettano le condizioni». E quelle condizioni, oggi, sono considerate indigeste.

            L’errore, secondo i falchi interni, è stato proprio quello di cedere alla paura che qualche altro competitor – magari un gruppo privato – si presentasse al bando. Ma il risultato è stato l’opposto di quello sperato: la procedura ha irrigidito il Comune e complicato i margini di trattativa. Da Palazzo Bellevue trapela fastidio: «Avete partecipato, ora rispettate le regole», è il sottotesto che filtra dalle stanze del sindaco Alessandro Mager.

            Per Mager, perdere il Festival non sarebbe solo uno smacco politico: significherebbe scatenare la furia di albergatori, commercianti e affittuari, già in allarme per un possibile trasloco. Un colpo diretto a quell’indotto che, in una settimana di Festival, fa girare milioni tra hotel, ristoranti e case vacanza. Eppure, anche per la Rai, l’ipotesi di un addio alla città dei fiori rischia di trasformarsi in un autogol di proporzioni storiche.

            Il brand “Sanremo” non è solo una location: è il cuore dell’evento. Traslocare a Torino – per quanto logisticamente efficiente – significherebbe rompere un legame che dura da oltre settant’anni. E, soprattutto, lanciare un messaggio rischioso agli inserzionisti. L’ombra che aleggia nei corridoi di Viale Mazzini è chiara: un “piano B” potrebbe essere percepito come un ridimensionamento del Festival, con un impatto diretto sulle vendite pubblicitarie. E i numeri in ballo non sono uno scherzo: 67 milioni di euro di ricavi lo scorso anno, record assoluto.

            Gli sponsor comprano Sanremo per quello che rappresenta, non solo per i milioni di spettatori. Cambiare città potrebbe spostare equilibri, ridurre la magia e, di conseguenza, lo spazio percepito per i messaggi commerciali. Ed è proprio su questa incognita che il cda Rai si divide: meglio cedere alle richieste del Comune, pur salate, o rischiare di scalfire il mito pur di risparmiare quei 3,5 milioni di differenza tra bando, percentuale su pubblicità ed eventi collaterali?

            Il paradosso è tutto qui: la Rai cerca di tagliare i costi rispetto alle edizioni precedenti, mentre il Comune di Sanremo, forte della sua unicità, rilancia sulle cifre e non arretra. Nel frattempo, si ragiona già sul cronoprogramma: ultimatum in scadenza, ipotesi Torino pronta, ma la sensazione è che la resa dei conti si giocherà tutta nella prossima settimana.

            Nella città dei fiori, intanto, cresce la tensione politica. Se la trattativa saltasse, per il sindaco Mager la poltrona vacillerebbe. E mentre gli hotel temono cancellazioni e i commercianti vedono sfumare l’oro di febbraio, a Roma il cda Rai prepara il piano d’emergenza. Il messaggio che filtra è chiaro: o Sanremo si piega, o Sanremo si perde.

            La verità, però, è che per entrambe le parti la posta in gioco è altissima. Il Festival è molto più di uno show: è un generatore di immagine, economia e identità nazionale. Perderlo o spostarlo significherebbe cambiare la storia della tv italiana. E a oggi, la certezza è una sola: sul futuro del palco più famoso d’Italia, la musica è tutt’altro che scritta.

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              Cinema

              Hollywood riscopre il passato: boom dei “legacy sequel” al cinema

              Non sono semplici continuazioni né veri remake. I “legacy sequel” rilanciano vecchi franchise con nuovi personaggi, accanto ai volti storici. Un’operazione nostalgica… ma con una logica ben precisa.

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                Negli ultimi dodici mesi, le sale cinematografiche hanno visto una vera e propria invasione di legacy sequel: pellicole che riprendono la storia di un film cult a distanza di almeno dieci anni, spesso anche venti o trenta. Solo nel 2024 sono arrivati sugli schermi Final Destination: Bloodlines, 28 anni dopo, Il Gladiatore 2, Beetlejuice Beetlejuice, Twisters, Un tipo imprevedibile 2, Karate Kid: Legends e So cosa hai fatto. Entro fine anno arriveranno anche Quel pazzo venerdì, sempre più pazzo e Tron: Ares. Persino in Italia, Un altro Ferragosto di Paolo Virzì ha raccolto l’eredità di Ferie d’agosto, uscito nel 1996.

                Ma cosa sono davvero i legacy sequel? Non esattamente sequel tradizionali, perché spesso si svolgono molti anni dopo gli eventi del primo film e introducono nuovi protagonisti. E nemmeno remake, perché tengono conto della storia originale e riportano in scena i personaggi iconici, con gli stessi attori quando possibile. Sono un modo intelligente per sfruttare il potenziale emotivo e commerciale di un brand, rivolgendosi sia ai fan storici che a un pubblico più giovane.

                Il caso che ha definito questo filone è stato Star Wars: Il risveglio della Forza (2015), primo episodio della nuova trilogia targata Disney. Ha stabilito un modello replicato poi in decine di produzioni: l’arco temporale della narrazione corrisponde a quello reale, le vecchie glorie fungono da mentori, i temi sono ripresi ma aggiornati, e le colonne sonore iconiche vengono rielaborate in chiave più sottile.

                Negli anni successivi, il mercato ha visto proliferare titoli di questo tipo: Creed, spin-off di Rocky, Blade Runner 2049, Ghostbusters: Legacy, Matrix Resurrections, Doctor Sleep (erede di Shining), Top Gun: Maverick e tanti altri. Questi film si presentano come grandi eventi, alimentati dalla nostalgia ma anche da un forte senso di continuità narrativa.

                A differenza di un classico sequel come Bridget Jones – Un amore di ragazzo, uscito nel 2024 e ambientato pochi anni dopo Bridget Jones’s Baby, i legacy sequel puntano tutto sul fattore tempo e sul passaggio di testimone tra generazioni.

                In televisione il fenomeno è meno diffuso, anche perché la natura della serialità richiede un altro tipo di fruizione. Tuttavia, ci sono eccezioni significative come Twin Peaks – Il ritorno (2017), arrivato ben 26 anni dopo la seconda stagione, e And Just Like That…, seguito diretto di Sex and the City.

                Il precursore di questo formato è però molto più lontano: Il colore dei soldi (1986), con Paul Newman che riprendeva il ruolo de Lo spaccone (1961) accanto a un giovane Tom Cruise. Anche Il grande inganno (1990), con Jack Nicholson, continuava il racconto di Chinatown del 1974. All’epoca però il pubblico e la distribuzione non erano pronti a valorizzare quella che oggi è diventata una strategia narrativa e commerciale di grande successo.

                Oggi, tra revival nostalgici e rinnovati slanci creativi, i legacy sequel sono il ponte perfetto tra il cinema che fu e quello che verrà.

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