Speciale Festival di Sanremo 2025
“Non mi svendo”: Al Bano commenta il ritiro di Emis Killa da Sanremo
Dopo il ritiro di Emis Killa dal Festival di Sanremo 2025, Al Bano commenta la vicenda e spegne le voci su un suo possibile ingresso in gara come sostituto. Il cantante sottolinea di aver già presentato tre brani e che la sua partecipazione non sarebbe mai una soluzione di ripiego.

Sanremo 2025 non è ancora iniziato e già si trova al centro di polemiche, ritiri e dichiarazioni pungenti. L’ultima arriva da Al Bano Carrisi, che ha voluto dire la sua sul caso Emis Killa, il rapper che ha deciso di rinunciare alla gara dopo l’apertura di un’indagine per associazione a delinquere legata al mondo ultrà. Se la sua esclusione ha scatenato reazioni contrastanti, la domanda successiva è stata inevitabile: chi prenderà il suo posto?
Tra i nomi circolati, anche quello di Al Bano, ma il cantante di Cellino San Marco ha messo subito in chiaro la sua posizione. “Sanremo è un palcoscenico già difficile quando si va a cantare a cuor leggero. Figuriamoci con un peso mediatico del genere addosso”, ha dichiarato in un’intervista ad Adnkronos, riferendosi alle polemiche che hanno investito Emis Killa.
Quando poi gli è stato chiesto se sarebbe disposto a sostituire il rapper, la risposta è stata netta: “No. Avevo un mio piano con Sanremo quest’anno. Tornarci per dire: questo è il mio ultimo Sanremo da concorrente”. Un progetto chiaro, che prevedeva la presentazione di ben tre canzoni per provare a salire ancora una volta sul palco dell’Ariston. Ma il fatto che nessuna di queste sia stata selezionata non ha cambiato la sua idea: “Conosco il mio valore e non lo svendo, un valore che va oltre le Alpi e anche oltre gli Urali”.
Insomma, nessuna apertura a un ritorno come ripiego dell’ultimo minuto. “Se Conti mi chiamasse? Ne parleremmo, ma state sicuri che non lo farà. E comunque credo che non accetterei di sostituire qualcuno, non fa parte dei miei piani”, ha aggiunto Al Bano, chiudendo ogni speculazione.
La sua posizione è chiara e coerente con una carriera che lo ha visto protagonista assoluto della musica italiana per oltre cinquant’anni. Sanremo lo ha già ospitato molte volte, sia da concorrente che da ospite, e se dovesse tornarci sarebbe solo alle sue condizioni. Un’eventualità che, almeno per quest’anno, sembra essere definitivamente tramontata.
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Speciale Festival di Sanremo 2025
Brunori, applausi e ironia a Sanremo: «Per chi ha fatto la gavetta nelle piazzette, Sanremo è uno scherzo»
Dopo sedici anni di carriera, Brunori Sas debutta al Festival con L’albero delle noci. In sala stampa l’atmosfera è calorosa, tra flash e applausi. «Sanremo è un’esperienza fondamentale, anche per la mia terra. Sono fiero di portare qui una parte di me e di rappresentare il cantautorato. Certo, potrei anche andare all’Eurovision… con lo stylist di Achille Lauro!»

Brunori è attesissimo in sala stampa. Tutti i giornalisti italiani lo stanno aspettando e quando arriva si scatena un applauso liberatorio. Lui gigioneggia sotto i flash dei fotografi, si vede che non è abituato a tutto questo clamore. Fa una mossa, una posa, poi scherza. Ride. Si schermisce. Poi si siede al posto d’onore.
Prima a Sanremo, com’è andata?
«Sono molto felice di essere arrivato qui dopo sedici anni di carriera, perché credo sia giusto avere una possibilità diversa: è bello che Sanremo abbia più voci, più stili, più linguaggi musicali. È una cosa molto forte, anche il corpo ne risente e reagisce. Da domenica siamo stati qui in attesa di esibirci, ora c’è lo scarico naturale della tensione. Ho vissuto l’esperienza come se fossi in teatro, mi sono sentito a mio agio sul palco: è stato molto bello. Per uno come me che ha fatto la gavetta nelle piazzette dei piccoli paesi, dove la gente si porta la sedia e ti maledice se non fai uno spettacolo che gli piace, Sanremo è uno scherzo»
Si parla tanto del cantautorato e quando si nomina questo termine si parla di te e di Lucio Corsi…
Sono contento di rappresentare i cantautori, ce ne sono tantissimi molto validi. Sono contento che questa categoria della canzone sia rappresentata. Il fatto che mi vedano e dicano ‘ma allora esiste anche quella musica lì’, mi riempie d’orgoglio. Anche perché quando parlo ai miei nipoti non è che sappiano tanto chi è De André. Ma io sono pronto a tutto, anche all’Eurovision. Ho già contattato lo stylist di Achille Lauro, cambio look e cambio stile musicale… Scherzi a parte, questa è un’esperienza fondamentale. Per me, per la Calabria.
Proprio la Calabria è al tuo fianco in maniera compatta…
Sento questa presenza, il tifo di una regione non in senso campanilistico me per far vedere quanto questa terra vale. Sono fiero che mi ascoltino nella mia terra, così come sono felice di arrivare a Roma, a Milano…
La sua carriera musicale è iniziata quasi per caso. Come è stato il passaggio dalla vita di parcheggiatore a quella di cantautore?
«A trent’anni non avevo la minima idea di dove stessi andando. Mi ero laureato a Siena in Economia, producevo musiche per cartoni animati locali e, per mantenermi, facevo il parcheggiatore. Mi piaceva l’idea di passare le notti a contatto con un’umanità varia, quasi romantica. Vivevo ogni giornata rimandando l’appuntamento con la realtà, fino alla morte di mio padre, che ha rappresentato uno choc e un motore insieme. Mi ha costretto a pormi la domanda che evitavo: “Vuoi fare davvero il cantante?” La risposta è stata un “sì” immediato e da lì non ho più perso tempo.»
La scomparsa di suo padre ha segnato profondamente la sua vita e la sua musica. Che tipo di figura era per lei?
«Era un uomo forte, apparentemente immortale. Fumava come un pazzo, amava la tavola e non si risparmiava mai, nonostante i medici gli avessero imposto di rallentare. Per me era un mito incrollabile. Quando è morto, ho capito quanto fosse radicata in me l’illusione della sua invincibilità. È stata una perdita enorme, ma paradossalmente anche una scossa che mi ha portato nel mondo reale. Da quel momento, mi sono sentito obbligato a non rimandare più nulla. Mi ha dato la spinta per scrivere le mie prime canzoni e prendere in mano il mio futuro.»
La canzone “L’albero delle noci” racconta molto di lei. Parla di paternità e di Calabria. Cosa c’è di personale in questo brano?
«Mia figlia ha cambiato gerarchia delle mie cose, ti devi occupare e preoccupare del futuro di questa creatura. Mi ha fatto anche venire dubbi e rimpianti. C’è tutta la mia vita in Calabria, più che nei brani precedenti. Vivere nella natura mi ha aiutato a riscoprire un mondo che va oltre le dinamiche umane, a riconnettermi con me stesso. C’è più serenità, più accettazione rispetto al passato. È un brano pacificato, meno amaro. In fondo, è la mia personale pace fatta con il tempo e con certe cose che prima mi infastidivano. Non è rassegnazione, ma una consapevolezza diversa.»
Ha sempre voluto fare il musicista?
«Da ragazzino sognavo di diventare un chitarrista. Mia madre insegnava musica, quindi le note in casa non mancavano mai, ma nella Calabria degli anni ’80 pensare di fare il musicista era una follia. Internet non c’era, per trovare i dischi dovevo fare viaggi a Cosenza o a Paola. È stato complicato far accettare ai miei questa mia passione: la carriera musicale era sinonimo di precarietà, e loro, pragmatici, mi avevano convinto a un compromesso. “Ti laurei e poi vediamo.” Così ho fatto. Però, appena ho potuto, sono tornato alla musica.»
Quali sono stati i primi passi nel mondo della musica?
«Ho iniziato suonando in un gruppo decisamente alternativo e scrivendo melodie per cartoni animati delle TV locali. Poi, dopo la morte di mio padre, ho cominciato a scrivere le mie prime vere canzoni. Le notti erano il mio rifugio creativo: tornando dal lavoro, mi fermavo a ripercorrere il mio passato, sfogliavo vecchie foto, rievocavo ricordi sepolti. È stato un viaggio dentro me stesso, una personale ricerca del tempo perduto.»
Come mai ha deciso di tornare in Calabria dopo tanti anni fuori?
«Non è stata una scelta pianificata, ma alla fine mi sono reso conto che San Fili, con le sue tremila anime, è il posto perfetto per me. Mi dà la serenità giusta per concentrarmi. Qui mi annoio, e paradossalmente è una benedizione: la noia mi ha aiutato tantissimo a creare. In un grande centro urbano, mi sarei perso tra gli stimoli infiniti. Invece, qui c’è silenzio, la montagna alle spalle, un tempo diverso, più lento. È una dimensione che mi appartiene.»
Il rapporto con la montagna non è sempre stato sereno. Che ricordi ha di Aspromonte da bambino?
«Per me la montagna era sinonimo di paura: Aspromonte evocava immagini di sequestri di persona, catene, prigionie nei boschi. Da bambino ero molto pauroso e la montagna, nelle cronache nere dell’epoca, era un simbolo di terrore. Oggi la vedo in modo completamente diverso. È viva, quasi respira, ed è una presenza immutabile che mi dà una prospettiva più ampia sulla vita.»
La sua educazione è stata un mix tra Nord e Sud. Come ha influenzato il suo modo di essere?
«A casa mia non si parlava dialetto, solo italiano. Questo mi ha sempre posto in una posizione un po’ particolare: al paese, quando non usavo il dialetto, mi prendevano in giro dicendomi “Brunori, non fare il filosofo”. Era un modo per mettermi in guardia dal prendermi troppo sul serio, per restare con i piedi per terra. In famiglia c’era una mescolanza interessante: mio nonno era di Imola e si era trasferito in Calabria per lavoro alla fine degli anni ’50. La mia storia personale è un intreccio di Nord e Sud, pragmatismo e passione.»
La canzone popolare ha ancora un senso oggi?
«Secondo me sì. Mi piace l’idea di giocare nel campionato del pop, soprattutto oggi, in un momento in cui la frattura tra musica “intellettuale” e popolare è più marcata che mai. In L’albero delle Noci ho voluto riprendere la mia anima nazionalpopolare senza vergogna. Avere successo con una canzone che tocca tutti, dal critico musicale all’ascoltatore casuale, è ancora il massimo a cui posso ambire.»
La sua musica è spesso definita disincantata. Come vive questo aspetto?
«Il disincanto è un bivio: puoi trasformarlo in lamentela o in luce. Per me, il disincanto non è mai stato cinismo. Il cinico è solo un deluso che non accetta il crollo delle sue illusioni. Il disincanto, invece, può essere un punto di partenza per trovare una nuova bellezza. Quando scrivo una canzone, nasce sempre da un momento in cui qualcosa si spezza dentro di me. È una forma di testamento personale, un modo per rimettere insieme i pezzi.»
Speciale Festival di Sanremo 2025
Chi sono i genitori di Carlo Conti: la storia di Lolette e Giuseppe
Giuseppe Conti è morto di tumore quando Carlo aveva appena un anno e mezzo. La madre, Lolette, lo ha cresciuto da sola, con forza e disciplina, diventando per lui un vero “generale tedesco”.

Carlo Conti, uno dei conduttori più amati della televisione italiana, ha parlato in più occasioni dei suoi genitori, Lolette e Giuseppe Conti. Dietro il suo sorriso inconfondibile e la sua carriera costellata di successi c’è una storia familiare segnata da una grande perdita.
Carlo è nato il 13 marzo 1961 a Firenze, sotto il segno dei Pesci. Quando aveva solo 18 mesi, il padre Giuseppe è morto a causa di un tumore. Una tragedia che ha lasciato un vuoto immenso nella sua vita.
Nonostante la giovane età, la madre Lolette ha affrontato il dolore con grande forza, prendendo in mano le redini della famiglia e crescendo Carlo da sola. «Non ho conosciuto mio padre — ha raccontato Conti durante un’intervista — infatti, quando è nato mio figlio, per me è stato tutto nuovo. Ho una mamma molto forte, che più che una mamma era un “generale tedesco”, severissima. Non mi ha fatto mai sentire la mancanza del babbo».
La madre di Carlo, Lolette, lo ha educato con grande rigore, fissando regole precise anche nella quotidianità. «Anche se eravamo soltanto io e lei, a pranzo e a cena la tavola doveva essere sempre apparecchiata. Era il momento in cui ci incontravamo per parlare e stare insieme».
Nel corso degli anni, Conti ha spesso ricordato la sua mamma, mostrandola con affetto sui social. In un post su Instagram l’ha definita «la mamma più forte del mondo», insieme alla moglie Francesca Vaccaro, in occasione della festa della mamma.
Carlo Conti ha raccontato di aver preso pienamente coscienza della mancanza del padre solo a 20 anni, durante una partita a tennis con l’amico Leonardo Pieraccioni. «Il babbo di Leonardo si è messo dalla sua parte a guardare la partita e lo incitava. Mi sono reso conto che quella figura, dietro la mia parte della rete, non c’era. È stata la prima volta che ho capito davvero che non c’era mai stata».
Un ricordo che, ancora oggi, resta vivo nel cuore del conduttore, insieme alla gratitudine infinita per quella mamma severa e amorevole che lo ha accompagnato fino al successo.
Speciale Festival di Sanremo 2025
Sanremo 2025, “Si’ ‘na preta”: l’urlo a Rose Villain che diventa il primo tormentone del Festival
Un urlo dalla platea, un’espressione dialettale e un Festival che ha già il suo primo tormentone. «Si’ ‘na preta», gridato a Rose Villain durante la sua esibizione, diventa virale: sui social impazzano i meme, mentre la cantante risponde con ironia e trasforma tutto in un fenomeno social.

Sanremo 2025 ha già trovato il suo primo tormentone, e a sorpresa la protagonista è Rose Villain. Durante la sua esibizione sulle note di Fuorilegge, un urlo ha attraversato l’Ariston: «Si’ ‘na preta», catturato chiaramente dai microfoni Rai e subito diventato virale sui social.
Elegantissima in abito rosso e capelli blu raccolti, la cantante era pronta a calcare il palco con la consueta grinta, quando dalla platea qualcuno ha gridato l’espressione in dialetto napoletano. Subito, il pubblico ha cercato di decifrare il significato della frase, tra chi la prendeva come un esempio di catcalling e chi provava a coglierne il vero senso.
Ma cosa vuol dire davvero «Si’ ‘na preta»?
Un complimento… di pietra
Nel dialetto napoletano, «preta» significa letteralmente pietra. Tuttavia, in senso figurato, è un complimento che esalta la forza e la bellezza di una persona, come a dire: sei solida, statuaria, quasi una roccia. Insomma, niente insulti o volgarità, ma un’uscita teatrale, verace, come spesso accade nel linguaggio partenopeo. Certo, sentirlo urlare in mondovisione ha spiazzato molti, ma chi conosce il dialetto l’ha colto per quello che era: un sincero tributo.
Chi è l’autore dell’urlo?
A rivelare l’identità dell’autore è stato il Corriere del Mezzogiorno: si tratta di un trentenne di Salerno, imprenditore con la passione per la musica. «È stato un gesto spontaneo, un modo per dire che Rose Villain è incredibile. Non pensavo diventasse virale», ha spiegato. Per una notte, è stato protagonista suo malgrado del Festival, anche se ha assicurato che stasera tornerà all’Ariston mantenendo un profilo più basso.
La reazione di Rose Villain
Nessuna polemica da parte della cantante, anzi. Rose Villain ha preso la cosa con ironia, postando il video sul suo profilo Instagram e aggiungendo l’emoji di una pietra. Un colpo di social media perfettamente riuscito, che ha trasformato l’episodio in un fenomeno virale.
Nel giro di poche ore, «Si’ ‘na preta» è diventato un tormentone: meme ovunque, la frase tra le più cercate su Google e qualcuno ha già pensato di farne un jingle remixato. Insomma, da Sanremo 2025 ci aspettavamo una hit… ma forse non proprio questa.
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