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Teatro

Alessandro Haber: “La droga mi fece cilecca. Preferivo le donne che sballarmi. Il palco è la mia unica droga”

L’attore racconta la sua vita senza filtri: la dipendenza dagli eccessi, il rimpianto per aver detto no a De Sica, la telefonata a Moretti in pieno amplesso e la passione per il teatro come unica vera droga. “Sul palco mi ubriaco come in un amplesso: mi fa godere e mi salva dai miei pensieri”.

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    Ha 78 anni, ma la vitalità di un ragazzino ribelle. Alessandro Haber torna sul palco con Volevo essere Marlon Brando, pièce diretta da Giancarlo Nicoletti in scena alla Sala Umberto di Roma. Un racconto intimo, ironico e doloroso al tempo stesso, dove l’attore si mette a nudo: “Il palco è la mia droga – confessa – mi ubriaco di lui perché mi fa godere, alla stregua di un amplesso. Mi distoglie dai pensieri che mi turbano”.

    Tra cadute e risalite

    “Ho vissuto intensamente, sono caduto e mi sono rialzato – racconta –. Ho sempre cercato la crisi, perché è lì che cresci. L’imperfezione mi ha insegnato più della felicità”. E ammette di aver sacrificato molto alla carriera: “Ho dato tutto all’artista Haber, meno all’uomo. Ma non mi pento”.

    “La droga mi fece cilecca”

    Negli anni Ottanta la curiosità e la moda lo portarono a sperimentare: “Mi drogavo quando non ero sul palco, forse per autodistruzione. Buttai via tutto quando, a causa della droga, feci… cilecca. La droga rimpicciolisce tutto e io preferivo di gran lunga scopare che sballarmi”.

    Rimpianti e amori

    “Mi pento solo del no a Vittorio De Sica per Il giardino dei Finzi Contini”, rivela. “Rischiai di perdere anche Sogni d’oro: risposi a Nanni Moretti mentre stavo facendo sesso e si offese. Non mi pento invece di aver rifiutato Striscia la Notizia: il cinema, allora, era chiuso ai volti televisivi”. Poi un sorriso malinconico: “Giuliana De Sio è stato il mio amore più grande. Ma dopo tre anni finivano tutti i miei amori: il lavoro veniva prima”.

    Sguardo sul mondo

    Non crede in Dio, ma nella vita: “È un mistero affascinante. Ci aggrappiamo al lavoro o all’amore per non impazzire”. Sulla guerra a Gaza non ha dubbi: “Devastante. Vorrei che il Papa non si limitasse a invocare la pace, ma facesse uno sciopero della fame, a costo di morire. Solo così il mondo si fermerebbe”.

    Un artista irriverente e fragile, che si definisce “in lista d’attesa” ma che continua a vivere come ha sempre fatto: sul palco, con la vita addosso e nessun filtro.

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      Teatro

      Joe Bastianich porta a teatro la sua vita tra soldi, musica e sogni

      Dall’infanzia povera nel Queens al successo internazionale, l’imprenditore e volto tv debutta a teatro con Money – Il bilancio di una vita, uno spettacolo che unisce ricordi personali e riflessioni universali.

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      Joe Bastianich

        Joe Bastianich, 57 anni, non è soltanto il giudice severo e ironico visto in televisione o l’imprenditore della ristorazione di successo. È anche un musicista, un narratore e adesso – per la prima volta – un attore teatrale. Con Money – Il bilancio di una vita, scritto insieme a Tobia Rossi e Massimo Navone (che ne cura anche la regia), debutta sul palcoscenico con uno spettacolo che mescola autobiografia, musica dal vivo e riflessioni universali sul significato del denaro e delle scelte che compiamo.

        La prima è fissata per il 24 ottobre al Teatro Rossetti di Trieste. Poi lo show viaggerà verso Milano, Torino e Bologna, in un tour che promette di sorprendere non solo i fan del personaggio televisivo, ma anche chi è curioso di scoprire un lato più intimo e creativo del ristoratore italoamericano.

        Non un semplice monologo

        “Non è un classico monologo autobiografico”, racconta Bastianich. Money è costruito come una vera narrazione teatrale, con scene, costumi e dialoghi. Sul palco con lui quattro musicisti-attori che interpretano camerieri e cuochi: la vicenda parte dal retro di un ristorante, luogo simbolo della sua vita, per trasformarsi presto in un viaggio tra memorie, confessioni e domande universali.

        Il ristorante diventa metafora del teatro: entrambi vendono esperienze, entrambi cercano di trasformare passione in impresa. “Con il cibo nutri il corpo, con il teatro nutri l’anima”, spiega l’imprenditore.

        Soldi, disuguaglianze e riscatto

        Il filo conduttore è il denaro. “I soldi sono un tema che riguarda tutti. Io li ho guadagnati e li ho persi. Sono potere, paura, specchio delle nostre scelte”, riflette Bastianich. Attraverso episodi della sua vita, il racconto si allarga a temi come le disuguaglianze sociali, la ricerca di riscatto, la responsabilità individuale.

        Figlio di immigrati istriani cresciuto nel Queens di New York, ricorda un’infanzia difficile: “Eravamo poveri, i miei lavoravano senza sosta ma non bastava mai. Quella rabbia può distruggerti o darti la forza per andare avanti. Per me è stata uno stimolo”. Durante gli studi a Boston, racconta, si è persino avvicinato a Marx per comprendere le radici delle ingiustizie che aveva vissuto.

        La musica come ancora di salvezza

        Un altro elemento centrale è la musica, da sempre parte della vita di Bastianich. In scena non solo recita, ma canta e suona brani originali, compreso un rap. “La musica mi ha salvato. Da ragazzo mi faceva sentire americano. Ricordo la chitarra che mia nonna mi regalò, sacrificando i suoi risparmi: da allora non ho più smesso”.

        Dal piccolo schermo al palcoscenico

        Dopo libri, dischi e programmi televisivi, il teatro rappresenta una nuova sfida: “È combustione pura di emozioni: ridi, rifletti, ti commuovi. È una grande responsabilità, ma voglio esserne all’altezza”.

        E guarda già oltre: “Mi piacerebbe realizzare un documentario sull’emigrazione istriana, magari anche un film. A 57 anni sento di avere il privilegio di dedicarmi alla mia parte creativa. Voglio essere il regista del tempo che mi resta”.

        Con Money – Il bilancio di una vita, Joe Bastianich porta sul palco un racconto che parla di lui, ma in cui ciascuno può riconoscere frammenti della propria esperienza: il valore dei soldi, la lotta contro i pregiudizi, i sacrifici dei genitori, i sogni che ci spingono a cambiare strada.

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          Teatro

          Alessandro Cattelan tra ironia e incertezze: “Sto antipatico persino a Fabio Fazio”

          Dopo mesi lontano dal piccolo schermo, Cattelan torna a far parlare di sé con il suo spettacolo teatrale. Tra ironia e verità non dette, il conduttore riflette sul lavoro, sui colleghi e sul difficile rapporto con la televisione di oggi.

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          Alessandro Cattelan

            Alessandro Cattelan è uno dei volti più noti della tv italiana, ma da qualche mese è lontano dagli schermi. La Rai non ha rinnovato il suo contratto e le trattative con Mediaset si sono interrotte prima ancora di concretizzarsi. Una doppia frenata che ha sorpreso molti spettatori, abituati a vederlo protagonista con Stasera c’è Cattelan e con la sua partecipazione al Festival di Sanremo.

            In attesa di capire quale sarà la prossima tappa del suo percorso televisivo, Cattelan ha deciso di tornare davanti al pubblico in un’altra veste: quella teatrale. Sul palco del Teatro degli Arcimboldi di Milano ha debuttato con lo show Benvenuto nell’AI, un mix di comicità e riflessioni personali.

            L’ironia sul palco

            Come riportato da Il Fatto Quotidiano, durante lo spettacolo il conduttore non ha risparmiato frecciate. Con il suo stile diretto ha dichiarato:
            «Io sto sul c*** a un sacco di persone, ma non a quelle facili, come Selvaggia Lucarelli o Fabrizio Corona. Risulto antipatico al più buono di tutti: Fabio Fazio».

            Una battuta che ha strappato risate, ma che allo stesso tempo ha lasciato intravedere un pizzico di verità: la sensazione di sentirsi spesso fuori posto nel mondo della televisione, nonostante la popolarità e i riconoscimenti.

            Il ricordo di Sanremo

            Cattelan ha poi parlato della sua esperienza più intensa dell’ultimo anno: il Festival di Sanremo 2024. Lì ha avuto diversi ruoli, dalla presentazione delle nuove proposte al DopoFestival, fino a co-condurre la finale insieme a Carlo Conti.

            «È un bagno di sangue. Quei cinque giorni sono le mestruazioni della televisione, mi distruggono. Va così veloce che se ti scappa una parola fuori posto, ti butta giù dal palco», ha raccontato con la sua consueta ironia. Una metafora forte ma efficace per rendere l’idea dello stress e della pressione legati alla kermesse musicale più seguita d’Italia.

            Un futuro ancora da scrivere

            Il presente di Alessandro Cattelan sembra fatto soprattutto di palcoscenici teatrali e meno di televisione. Nonostante le voci di un suo possibile approdo a Mediaset, con uno show serale su Italia 1, le trattative si sono arenate. Pier Silvio Berlusconi aveva accennato a un possibile contratto, ma al momento nulla si è concretizzato.

            Intanto circolano indiscrezioni su chi prenderà il posto di Cattelan a Sanremo: tra i nomi più chiacchierati quello di Stefano De Martino, che potrebbe esordire come direttore artistico e conduttore.

            L’immagine di un conduttore libero

            Tra una battuta e una confessione, lo spettacolo teatrale di Cattelan offre l’immagine di un professionista che non ha paura di esporsi e di prendersi in giro. La sua forza resta la capacità di giocare con l’ironia anche nei momenti più complessi della carriera.

            Che si tratti di un periodo di pausa o di una svolta definitiva, Cattelan sembra voler affrontare tutto con leggerezza. «Io sto antipatico a tutti», dice sorridendo. Ma il pubblico, a giudicare dagli applausi in teatro, continua a seguirlo con affetto.

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              Teatro

              Rocky Horror Picture Show, 50 anni di scandali e culto globale: il mito che non tramonta mai

              Il film cult del 1975 continua a riempire sale e teatri in tutto il mondo. Travestimenti, mezzanotte e libertà sessuale: la favola rock di Frank-N-Furter e dei suoi seguaci è diventata un rito collettivo.

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                Cinquant’anni e non sentirli. The Rocky Horror Picture Show resta l’unico film capace di trasformare il cinema in un rito pagano collettivo, tra piume di struzzo, corsetti e rossetto rosso fuoco. Uscito nel 1975, accolto con diffidenza dall’America puritana, il musical creato da Richard O’Brien è diventato in mezzo secolo un fenomeno di culto che non conosce confini.

                Su RockyHorror.com c’è ancora la mappa delle proiezioni, segnalate dalle celebri labbra che si mordono: decine di sale in cui ogni settimana, di notte, si replica la magia. Non solo schermo: il pubblico si veste da Brad, Janet, Magenta o Riff Raff, canta a squarciagola, balla il “Time Warp” e inscena battute e movenze sul palco. Un carnevale libertino che anticipò di decenni il dibattito sull’identità fluida e che ancora oggi, per molti, resta il primo manifesto queer mai proiettato al cinema.

                Non è un caso se il cinquantenario si celebra con un ritorno massiccio nelle sale e nei teatri. A Roma e Milano, in autunno, arriveranno nuove versioni live del musical, mentre lo storico cinema Mexico di Milano – che per anni è stato la “casa” italiana del Rocky Horror con le sue leggendarie proiezioni del venerdì notte – valuta di riprendere le maratone settimanali.

                Il mito torna anche grazie a un documentario, Strange Journey: The Story of Rocky Horror, firmato da Linus O’Brien, figlio di Richard. Intervistato da il Venerdì, confessa un’amara verità: «È un po’ deprimente constatare quanto i temi di allora siano ancora rilevanti. Dopo tutti questi anni ci saremmo aspettati più tolleranza. E invece…».

                Eppure il fascino del Rocky Horror sta proprio nella sua eterna attualità. In un mondo che ancora discute di genere, libertà sessuale e diritti, Frank-N-Furter e la sua corte rimangono simboli di ribellione giocosa e liberatoria. A cinquant’anni di distanza, il rito continua: basta un cinema buio, un gruppo di fan e una canzone che dice “It’s just a jump to the left”.

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