Teatro
Paolo Ruffini e il nuovo spettacolo «Din Don Down»: ironia, diversità e ricerca di sé
Con «Din Don Down – Alla ricerca di (D)Io», Paolo Ruffini porta agli Arcimboldi di Milano uno spettacolo inclusivo e provocatorio. Una riflessione sulla diversità e la ricerca personale, accompagnata dagli attori della compagnia Mayor Von Frinzius, tra cui persone con disabilità.
Paolo Ruffini non è solo un attore o un comico: è un narratore di storie che attraversano l’umanità. Con Din Don Down – Alla ricerca di (D)Io, torna a teatro per offrire al pubblico un’esperienza che unisce leggerezza e profondità, irriverenza e sensibilità. Lo spettacolo, in scena agli Arcimboldi di Milano il 7 gennaio, rappresenta l’evoluzione di un progetto nato nel 2018 dalla collaborazione con la compagnia Mayor Von Frinzius.
Composta da attori normodotati e con disabilità, la compagnia è un laboratorio teatrale di inclusione, capace di trasformare il palco in un luogo di incontro e riflessione. Ruffini, che da anni lavora con la Mayor Von Frinzius, definisce il teatro come «uno strumento potente per raccontare la diversità e abbattere i pregiudizi».
Din Don Down si propone come una sfida al politicamente corretto, parlando della ricerca del divino e di sé stessi con il sorriso. «Il rapporto con Dio non dipende dall’abilità o dalla disabilità», afferma Ruffini, «e le cose più serie meritano di essere trattate con leggerezza, perché nella leggerezza c’è la meraviglia».
Lo spettacolo affronta temi universali attraverso il filtro dell’ironia, mostrando come la diversità possa diventare una forza creativa. Le battute pungenti, i momenti di emozione e l’energia travolgente degli attori offrono una riflessione su cosa significhi essere umani.
Per Ruffini, la diversità non è un limite, ma una risorsa: «Quello che facciamo sul palco non è solo teatro, è vita. È un modo per dire al pubblico che la felicità non è un obiettivo irraggiungibile, ma un viaggio che tutti possiamo intraprendere».
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Teatro
La Fura dels Baus torna a Milano: dopo Malaga, lo spettacolo Sons – Ser o No Ser alla Fabbrica del Vapore
Dal 28 novembre al 14 dicembre la Fabbrica del Vapore ospiterà Sons – Ser o No Ser, il nuovo spettacolo de La Fura dels Baus. Un ritorno attesissimo per il collettivo catalano che negli anni ’90 sconvolse Milano con performance al limite tra teatro, installazione e incubo sensoriale.
Decenni fa incendiarono Milano — non metaforicamente, ma nello spirito. Con motoseghe, fuoco, musica industriale e un erotismo disturbante, La Fura dels Baus trasformò la scena teatrale italiana in un rito tribale. Chi c’era ricorda ancora il terrore e la fascinazione di quegli spettacoli dove gli spettatori venivano inseguiti, spruzzati, travolti, catapultati in un delirio tra eros e thanatos.
Oggi, la compagnia catalana fondata a Barcellona negli anni ’80 torna nella città che contribuì a farne un mito. Dopo il debutto a Malaga, dal 28 novembre al 14 dicembre, La Fura sarà alla Fabbrica del Vapore con Sons – Ser o No Ser (Essere o non essere), una riflessione esplosiva e visionaria sull’identità e sul corpo contemporaneo.
Una rivoluzione teatrale che continua
Per chi li ha amati o temuti, La Fura dels Baus è sinonimo di trasgressione e libertà. Hanno scardinato i confini tra palco e platea, tra arte e vita, inventando un linguaggio che mescola teatro fisico, tecnologia, suono e immersione sensoriale.
Il nuovo spettacolo mantiene intatta questa energia: Sons – Ser o No Ser intreccia musica elettronica, coreografie ipnotiche e proiezioni digitali. Al centro, come sempre, il corpo umano — esposto, frammentato, amplificato — in un continuo gioco di dissoluzione e rinascita.
Un cast di nuove leve e vecchie anime furiose
La storica compagnia si rinnova con una generazione di giovani performer che raccolgono l’eredità dei fondatori. “Non volevamo ripeterci — spiegano i creatori — ma restare fedeli alla nostra essenza: spingere il pubblico oltre il comfort, farlo vibrare, farlo pensare con la pelle”.
Milano, la città della memoria e del rischio
Tornare a Milano non è un caso. Qui, negli anni d’oro, La Fura dels Baus costruì un rapporto di amore e paura con il pubblico. Oggi la città ritrova quella stessa compagnia, più matura ma ancora pericolosa, in un luogo simbolico come la Fabbrica del Vapore: spazio industriale, materico, perfetto per la loro poetica.
Chi li ha visti allora sa che non sarà uno spettacolo qualunque. Chi li scoprirà ora, capirà perché da oltre quarant’anni La Fura dels Baus non mette mai in scena una semplice performance, ma un’esperienza totale.
Teatro
Alessandro Haber: “La droga mi fece cilecca. Preferivo le donne che sballarmi. Il palco è la mia unica droga”
L’attore racconta la sua vita senza filtri: la dipendenza dagli eccessi, il rimpianto per aver detto no a De Sica, la telefonata a Moretti in pieno amplesso e la passione per il teatro come unica vera droga. “Sul palco mi ubriaco come in un amplesso: mi fa godere e mi salva dai miei pensieri”.
Ha 78 anni, ma la vitalità di un ragazzino ribelle. Alessandro Haber torna sul palco con Volevo essere Marlon Brando, pièce diretta da Giancarlo Nicoletti in scena alla Sala Umberto di Roma. Un racconto intimo, ironico e doloroso al tempo stesso, dove l’attore si mette a nudo: “Il palco è la mia droga – confessa – mi ubriaco di lui perché mi fa godere, alla stregua di un amplesso. Mi distoglie dai pensieri che mi turbano”.
Tra cadute e risalite
“Ho vissuto intensamente, sono caduto e mi sono rialzato – racconta –. Ho sempre cercato la crisi, perché è lì che cresci. L’imperfezione mi ha insegnato più della felicità”. E ammette di aver sacrificato molto alla carriera: “Ho dato tutto all’artista Haber, meno all’uomo. Ma non mi pento”.
“La droga mi fece cilecca”
Negli anni Ottanta la curiosità e la moda lo portarono a sperimentare: “Mi drogavo quando non ero sul palco, forse per autodistruzione. Buttai via tutto quando, a causa della droga, feci… cilecca. La droga rimpicciolisce tutto e io preferivo di gran lunga scopare che sballarmi”.
Rimpianti e amori
“Mi pento solo del no a Vittorio De Sica per Il giardino dei Finzi Contini”, rivela. “Rischiai di perdere anche Sogni d’oro: risposi a Nanni Moretti mentre stavo facendo sesso e si offese. Non mi pento invece di aver rifiutato Striscia la Notizia: il cinema, allora, era chiuso ai volti televisivi”. Poi un sorriso malinconico: “Giuliana De Sio è stato il mio amore più grande. Ma dopo tre anni finivano tutti i miei amori: il lavoro veniva prima”.
Sguardo sul mondo
Non crede in Dio, ma nella vita: “È un mistero affascinante. Ci aggrappiamo al lavoro o all’amore per non impazzire”. Sulla guerra a Gaza non ha dubbi: “Devastante. Vorrei che il Papa non si limitasse a invocare la pace, ma facesse uno sciopero della fame, a costo di morire. Solo così il mondo si fermerebbe”.
Un artista irriverente e fragile, che si definisce “in lista d’attesa” ma che continua a vivere come ha sempre fatto: sul palco, con la vita addosso e nessun filtro.
Teatro
Joe Bastianich porta a teatro la sua vita tra soldi, musica e sogni
Dall’infanzia povera nel Queens al successo internazionale, l’imprenditore e volto tv debutta a teatro con Money – Il bilancio di una vita, uno spettacolo che unisce ricordi personali e riflessioni universali.
Joe Bastianich, 57 anni, non è soltanto il giudice severo e ironico visto in televisione o l’imprenditore della ristorazione di successo. È anche un musicista, un narratore e adesso – per la prima volta – un attore teatrale. Con Money – Il bilancio di una vita, scritto insieme a Tobia Rossi e Massimo Navone (che ne cura anche la regia), debutta sul palcoscenico con uno spettacolo che mescola autobiografia, musica dal vivo e riflessioni universali sul significato del denaro e delle scelte che compiamo.
La prima è fissata per il 24 ottobre al Teatro Rossetti di Trieste. Poi lo show viaggerà verso Milano, Torino e Bologna, in un tour che promette di sorprendere non solo i fan del personaggio televisivo, ma anche chi è curioso di scoprire un lato più intimo e creativo del ristoratore italoamericano.
Non un semplice monologo
“Non è un classico monologo autobiografico”, racconta Bastianich. Money è costruito come una vera narrazione teatrale, con scene, costumi e dialoghi. Sul palco con lui quattro musicisti-attori che interpretano camerieri e cuochi: la vicenda parte dal retro di un ristorante, luogo simbolo della sua vita, per trasformarsi presto in un viaggio tra memorie, confessioni e domande universali.
Il ristorante diventa metafora del teatro: entrambi vendono esperienze, entrambi cercano di trasformare passione in impresa. “Con il cibo nutri il corpo, con il teatro nutri l’anima”, spiega l’imprenditore.
Soldi, disuguaglianze e riscatto
Il filo conduttore è il denaro. “I soldi sono un tema che riguarda tutti. Io li ho guadagnati e li ho persi. Sono potere, paura, specchio delle nostre scelte”, riflette Bastianich. Attraverso episodi della sua vita, il racconto si allarga a temi come le disuguaglianze sociali, la ricerca di riscatto, la responsabilità individuale.
Figlio di immigrati istriani cresciuto nel Queens di New York, ricorda un’infanzia difficile: “Eravamo poveri, i miei lavoravano senza sosta ma non bastava mai. Quella rabbia può distruggerti o darti la forza per andare avanti. Per me è stata uno stimolo”. Durante gli studi a Boston, racconta, si è persino avvicinato a Marx per comprendere le radici delle ingiustizie che aveva vissuto.
La musica come ancora di salvezza
Un altro elemento centrale è la musica, da sempre parte della vita di Bastianich. In scena non solo recita, ma canta e suona brani originali, compreso un rap. “La musica mi ha salvato. Da ragazzo mi faceva sentire americano. Ricordo la chitarra che mia nonna mi regalò, sacrificando i suoi risparmi: da allora non ho più smesso”.
Dal piccolo schermo al palcoscenico
Dopo libri, dischi e programmi televisivi, il teatro rappresenta una nuova sfida: “È combustione pura di emozioni: ridi, rifletti, ti commuovi. È una grande responsabilità, ma voglio esserne all’altezza”.
E guarda già oltre: “Mi piacerebbe realizzare un documentario sull’emigrazione istriana, magari anche un film. A 57 anni sento di avere il privilegio di dedicarmi alla mia parte creativa. Voglio essere il regista del tempo che mi resta”.
Con Money – Il bilancio di una vita, Joe Bastianich porta sul palco un racconto che parla di lui, ma in cui ciascuno può riconoscere frammenti della propria esperienza: il valore dei soldi, la lotta contro i pregiudizi, i sacrifici dei genitori, i sogni che ci spingono a cambiare strada.
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