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Televisione

I Cesaroni, pace fatta tra Rudy e Alice al funerale di Antonello Fassari

L’occasione è stata il funerale di Antonello Fassari, storico Cesare della serie tv. I due giovani protagonisti, che non si parlavano dal 2013, hanno seppellito l’ascia di guerra con una foto e un messaggio sui social. E i fan sognano un ritorno in grande stile.

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    Un momento di dolore può anche diventare un’occasione per chiudere vecchie ferite. È quello che è accaduto a Roma durante i funerali di Antonello Fassari, l’indimenticato Cesare de I Cesaroni, scomparso pochi giorni fa all’età di 72 anni. Tra i tantissimi presenti all’ultimo saluto all’attore – da Claudio Amendola a Max Tortora – c’erano anche due volti amatissimi della fiction: Micol Olivieri e Niccolò Centioni, ovvero Alice e Rudy. I fan più affezionati ricorderanno che i due, un tempo molto legati anche fuori dal set, erano ai ferri corti da oltre dieci anni. Ma qualcosa è cambiato.

    Nel 2013, dopo la partecipazione lampo a Pechino Express, l’amicizia tra i due giovani attori si era incrinata bruscamente. Accuse reciproche, interviste velenose, silenzi e frecciatine sui social avevano segnato il loro rapporto. Micol aveva accusato Niccolò di sfruttare il suo nome e la sua popolarità per farsi pubblicità, mentre lui aveva lamentato l’allontanamento e il gelo da parte dell’ex collega. Da allora, nessuna occasione aveva portato i due a un confronto pacifico.

    Fino a ieri. Al funerale di Fassari, il dolore e la commozione hanno fatto crollare quel muro. I due attori si sono rivisti, si sono parlati, si sono abbracciati. E non solo: poche ore dopo, entrambi hanno pubblicato sui propri profili Instagram una foto che li ritrae insieme, sorridenti e complici, accompagnata dalla didascalia “Pace fatta”. Un segnale chiaro, forte, commovente. Una riconciliazione vera, che ha riacceso l’entusiasmo dei fan.

    La coincidenza con l’inizio delle riprese della nuova stagione de I Cesaroni, già confermata e molto attesa, rende questa pace ancora più significativa. Chi ha amato la serie non può che sperare che anche Rudy e Alice tornino insieme sullo schermo, magari con quella stessa intesa che ha fatto sognare una generazione.

    Per una volta, il finale è quello che tutti volevano: il tempo guarisce, le storie belle sanno ricominciare.

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      Televisione

      40 anni di Quelli della Notte: la meglio gioventù della televisione che fu

      Renzo Arbore racconta la genesi dello show che cambiò per sempre la TV italiana, debuttando il 29 aprile 1985. Un programma irripetibile, fatto di voci sovrapposte, nonsense, provocazioni e cultura pop. Capace di diventare cult in appena 32 puntate.

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        «L’idea di questo esperimento mi venne pensando al caos delle riunioni di condominio, ma anche alle conversazioni scombiccherate di noi nottambuli», confessa Arbore. Nessuna sceneggiatura, solo intuizione, ritmo e improvvisazione. Una jam session della parola, come le jam session del jazz, dove tutto è lecito e ogni voce trova il suo spazio. Un salotto volutamente disordinato, che ironizzava sulla forma e sul contenuto.

        Personaggi iconici: da Ferrini a Catalano, da Marchini a D’Agostino

        La forza dello show stava nei suoi protagonisti, caricature geniali nate da esperienze reali. Maurizio Ferrini era il “comunista romagnolo” che s’inventò il muro di Ancona, una satira ante litteram sulla divisione Nord-Sud. Simona Marchini, con i suoi gossip telefonici, fu la prima a portare il pettegolezzo in TV. Roberto D’Agostino, invece, introdusse il pubblico all’edonismo reaganiano e alle letture di Milan Kundera, anticipando il trionfo della tuttologia.

        Poi c’era Nino Frassica, alias frate Antonino da Scasazza, con la sua comicità surreale e “swingata”. Massimo Catalano, filosofo dell’ovvio, incarnava il trionfo dell’aforisma banale. Riccardo Pazzaglia, invece, recitava il ruolo dell’intellettuale sconfitto, in un perenne confronto con la banalità dilagante. Marisa Laurito cercava Scrapizza, l’amore assente: una moderna Penelope della commedia televisiva.

        Andy Luotto e la censura Andreottiana

        Tra le storie più emblematiche, quella di Andy Luotto, l’arabo ispirato da un viaggio in Giordania. La sua interpretazione, amata da molti ma criticata da alcuni ambienti arabi, portò persino a un intervento diplomatico. «Un vicedirettore Rai mi telefonò e disse che era stato chiamato da Andreotti a nome del re di Giordania». E così il personaggio fu cancellato.

        L’eredità di Quelli della Notte e la TV di oggi

        Arbore osserva la TV contemporanea con un certo disincanto. «Guardo la televisione improvvisata nella sua versione seria: i talk politici, dove ognuno dice la sua». Ma la magia di Quelli della Notte resta unica, irripetibile: un laboratorio creativo che ha trasformato il linguaggio televisivo, anticipando i meme, le dirette social, l’ibridazione dei generi.

        Dopo 4 decenni è ancora un cult

        Quelli della Notte non è stato solo un programma: è stato uno specchio deformante del Paese, un circo della parola che ha saputo raccontare l’Italia con ironia e lucidità. Quarant’anni dopo, la sua lezione di libertà espressiva e improvvisazione rimane intatta. Una rivoluzione notturna che ha lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva.

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          Televisione

          Chef Cracco: lasciare Masterchef? E’ stata un’ottima scelta

          Basta con i talent, lo chef vicentino è tornato con grande entusiasmo a pieno regime in cucina. Unica disgressione su Prime Video con Dinner Club, che però è un programma di intrattenimento vero.

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            Quando si dice Carlo Cracco si pensa alla tv. Ancora meglio… a Masterchef, il talent show culinario di cui è stato giudice per le prime sei stagioni nell’edizione italiana. Poi, nel 2017, l’addio a sorpresa. Che oggi giudica positivamente: «È stata un’ottima scelta», ha confessato al podcast Passa dal Bsmt di Gianluca Gazzoli. «Sono tornato a quello che mi piace di più», cucinare.

            Ora al volante di Dinner Club

            Anche se il piccolo schermo è rimasto nel cuore del cuoco vicentino, che infatti dal 2021 è tornato sul piccolo schermo con Dinner Club, un programma di Prime Video in cui lo chef viaggia per tutta l’Italia alla riscoperta delle tradizioni più autentiche, in compagnia di ospiti vip: «La tv mi piace sempre. E Dinner Club non è un programma di cucina, ma intrattenimento».

            La genesi del suo personaggio da critico intransigente

            Come si diventa giudici di Masterchef? Il racconto di Carlo Cracco che risponde a questo questito è piuttosto singolare, anche perché ci svela l’origine del suo personaggio da giudice severo e intransigente. «Masterchef lo conoscevo già perché all’estero era molto conosciuto, però da noi nessuno ci credeva più di tanto», ha raccontato ricordando del suo provino nel 2011. «Mi misero davanti una ragazza, che era una segretaria, con un cannolo siciliano e mi dissero: prova a giudicare. In fondo alla stanza avevo gli autori e pochi altri. E io ho pensato: se faccio quello gentile forse mi prendono, per cui faccio l’opposto, faccio il maleducato. Comincio a essere duro, ci sono andato giù pesante». La reazione dei produttori è inaspettata: «Ho alzato gli occhi e ho visto la gente esultare. Alla fine sono uscito e mi hanno detto: “Preso”. Poi abbiamo iniziato».

            L’obiettivo era di lanciare qualche talento con Hell’s Kitchen

            Da lì il personaggio si cristallizza: «Cercavo di autogiustificarmi, nel senso che cercavo di essere corretto ma di tenere il punto». L’obiettivo, però, era chiaro: «Mi interessava che qualcuno venisse fuori». E in quest’ottica le maggiori soddisfazioni le ha ricevute da Hell’s Kitchen, altro talent culinario: «Il vincitore della prima edizione (Matteo Grandi, ndr), per esempio, possiede una stella Michelin. Ci sono tantissimi ragazzi di quelli che sono usciti da lì che hanno posizioni importanti», ha aggiunto con orgoglio.

            Tutta finzione

            «A Hell’s Kitchen era divertente, era completamente finto. Delle volte ridevo della mia cattiveria». Infatti, come ha ben spiegato, in cucina alla fine non c’è mai cattiveria: «Si può essere severi al massimo, ci può essere durante della tensione durante il servizio. Ma poi pensi a recuperare e cerchi di aiutare. Magari il linguaggio è duro ma ci si ferma lì».

            La fama difficile da gestire

            Da Masterchef e dalla cucina è arrivata la fama, una brutta bestia «difficile da gestire»: «Cerchi di venirne fuori, ci ho messo un po’». Ma dalle stelle si può sempre cadere, come ha fatto lo stesso Cracco che nel 2021 quando ha perso una stella Michelin: «Perderla fa parte dell’esperienza, è sempre formazione. Però non è che abbandoni il tuo lavoro, anzi, lo fai ancora meglio». Il segreto è «essere convinto di quello che fai. Se viene bene, se non viene è uguale». Anche perché Masterchef ormai è un ricordo lontano: «Ormai per me non è più una gara. Tu devi lavorare perché sai lavorare bene e puoi servire come esempio per i ragazzi che lavorano con noi»

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              Televisione

              Il capitolo conclusivo di Squid Game 3 chiude nel segno del sacrificio

              Squid Game 3 segna il punto di arrivo di una delle narrazioni più sconvolgenti e innovative della TV contemporanea. La terza e ultima stagione della serie coreana creata da Hwang Dong-hyuk è un concentrato di tensione, violenza simbolica e dramma etico. Sei episodi intensi, ambientati in un’arena sempre più spietata, che chiudono la trilogia con coraggio e profondità, portando il pubblico davanti a una domanda cruciale: fin dove siamo disposti a spingerci per sopravvivere, e a quale costo?

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                La narrazione riparte da dove si era interrotta: Gi-hun (Lee Jung-jae), il protagonista assoluto della saga, è di nuovo nel gioco. Ma non è più lo stesso uomo. Non cerca la vittoria: cerca vendetta, redenzione, giustizia. I giochi si fanno più crudeli e simbolici, mentre nuove figure – tra cui la determinata Jun-hee (Jo Yu-ri) e l’enigmatica Geum-ja (Kang Ae-shim) – portano il peso di drammi personali e morali. Il Front Man (Lee Byung-hun), sempre più figura tragica, si scontra con la determinazione di chi ha perso tutto. Il risultato è una tensione crescente che esplode in un epilogo dal sapore agrodolce.

                Il cuore della stagione? Le scelte morali

                In Squid Game 3 non ci sono eroi, né cattivi assoluti. Solo esseri umani spinti al limite. La terza stagione rinuncia all’effetto sorpresa per concentrarsi sull’interiorità dei personaggi: ogni prova, ogni dialogo, ogni morte serve a esplorare la fragilità della dignità umana. Il regista abbandona la pura spettacolarizzazione della violenza per mettere in scena una riflessione disturbante sulla libertà, il potere e la colpa. Un messaggio chiaro: quando il gioco si fa mortale, la vera sfida è non perdere se stessi.

                Interpretazioni potenti e personaggi finalmente sfaccettati

                Tra i maggiori punti di forza della stagione finale c’è la qualità delle interpretazioni. Jo Yu-ri offre un’intensa performance nei panni di Jun-hee, trasformando il suo personaggio in una figura di resilienza e coraggio. Ma è Kang Ae-shim, nei panni di una madre in cerca di perdono, a regalare il momento più toccante dell’intera trilogia. Anche i personaggi più ambigui, come Myung-gi (Im Si-wan) e Nam-gyu (Roh Jae-won), ricevono un trattamento narrativo maturo, che li rende verosimili, imperfetti, dolorosamente umani.

                Un’eredità difficile da dimenticare

                Con questa terza stagione, Squid Game si conferma come una delle opere più coraggiose mai prodotte da Netflix. La serie chiude il suo arco narrativo senza cedere alla facile spettacolarizzazione e scegliendo invece una conclusione etica e coerente. La trilogia si trasforma così in una parabola tragica sulla natura umana, destinata a lasciare il segno nel pubblico e nella cultura pop.

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