Televisione
Stefano Accorsi non ha dubbi: al primo posto c’è la famiglia
L’ex ragazzotto di provincia di “tu gust is mei che uan” non lascia spazio ai dubbi: «La mia priorità è la famiglia. Sono un padre presente e ringrazio mia moglie Bianca per i suoi insegnamenti in amore».
Il suo ritorno sul piccolo schermo è avvenuto di recente con la seconda, acclamata stagione della serie The Bad Guy (da vedere su Prime Video, in attesa della terza serie, della quale già si parla con insistenza). L’abbiamo visto nei panni di un maggiore dei servizi segreti con manie tutte da ridere. In una recente intervista l’attore ha raccontato che «non ho mai trovato interessanti gli eroi senza macchia e senza paura. A me le macchie e le paure piacciono, sono quelle che ci fanno empatizzare e raccontano chi siamo».
Ogni ruolo contiene un elemento personale
L’attuale 53enne ha deciso di mettere un po’ della propria intima natura in ogni personaggio che interpreta. Il suo è un militare che ha dentro di sè un alto senso dello Stato, deciso a lottare contro la mafia: «E lo fa con una serie di abilità ma anche maniacalità inquietanti che fanno sorridere».
Conosciuto come famoso perfezionista sul set
Per Stefano esisteva l’ossessione del perfezionismo. «Un’ossessione che con l’età ho stemperato, prevalendo la voglia di raccontare storie divertendomi. Avevo un bisogno di approvazione con cui ho fatto i conti. Oggi ho capito l’importanza di lasciare andare».
Figli e moglie, le cose più importanti
La cosa che più conta per lui è la famiglia, lo ripete spesso. La sua priorità è rappresentata dai suoi quattro figli: due nati dalla relazione con l’attrice e modella Laetitia Casta, Orlando, 18 anni, e Athena, 15, mentre dalla moglie Bianca Vitali ha avuto Lorenzo, 7, e Alberto, 4. «Per me famiglia significa amore, senso di appartenenza e di casa. Non credo che la cosiddetta “famiglia tradizionale” abbia più ragione d’essere di qualsiasi altro tipo di famiglia, anzi».
Il rapporto con i figli
Sul suo ruolo di padre, l’unico che non lo vede recitare, si sente così: «Un padre presente, spero nel modo giusto. Mi piace alimentare le passioni dei miei figli e fare esperienze con loro, ma spingerli anche a esplorare da soli. Provo a persuaderli a non lasciarsi annichilire dallo schermo, senza giudicarli, anche io uso chat e vocali, e a scoprire il mondo esterno». Poi sottoliena che «lo stereotipo del macho ha fatto il suo tempo, non è né realistico né interessante, ma è ancora facile rimanerne influenzati. Tutto si può raccontare, ma c’è un maschilismo duro a morire che va combattuto anche al cinema».
L’importanza della moglie Bianca
In ambito familiare, il supporto della moglie risulta fondamentale: «Cerco sempre di guardare il mondo anche con occhi diversi, di imparare da loro, compresa mia moglie Bianca». E lei gli ha insegnato che «stare in famiglia non è solo starsene insieme davanti alla tv, è prendere, fare, andare, condividere. Bianca ha una grande capacità organizzativa e ci regala esperienze preziose».
Il significato dell’amore oggi? Non accentrare tutto su se stessi
«L’amore al giorno d’oggi è sapersi mettere in discussione. Quando ami e sei ricambiato, basta un “Eh, però tu…”. Spostare l’asse da sé aiuta a guardare le cose in un altro modo. Non che sia facile uscire dal proprio punto di vista, anche per uno come me abituato a mettersi nei panni degli altri».
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Televisione
Enzo Paolo Turchi: “Mi chiamavano gay perché ballavo. Succede ancora, ma molto meno. Il palco mi ha salvato dalla fame e dal dolore”
Ha danzato con Raffaella Carrà, fatto innamorare il pubblico di tutto il mondo e resistito a una vita che non gli ha risparmiato nulla. Enzo Paolo Turchi, oggi 74 anni, riceve il Premio Arte in Danza a Cava de’ Tirreni e si racconta senza filtri: “Questo riconoscimento vale doppio, perché viene dalla mia terra. È qui che ho iniziato a ballare, da scugnizzo dei Quartieri Spagnoli”.
“Mi chiamavano ricchione perché ballavo”
L’infanzia è stata un campo di battaglia: “Mi chiamavano ‘ricchione’ quando scendevo in strada. Succede ancora oggi, ma molto meno. A volte è colpa di messaggi sbagliati: la danza non è femminile, è forza, disciplina e sacrificio.” A otto anni lavorava in una bisca per venti lire al giorno, “per potermi comprare un panino”. Poi la tragedia: “Le mie due sorelline, Flora e Fausta, morirono schiacciate da un carrarmato. Dopo, mia madre impazzì. Io rimasi solo e piangevo ogni notte. Ancora oggi non riesco a stare senza la mia famiglia accanto.”
Carrà, Falana e la gelosia
La consacrazione arriva con Raffaella Carrà e il mitico Tuca Tuca: “Nacque per scherzo a casa di Raffaella. Durante le prove i dirigenti Rai dissero che era osceno. Alla fine ci concessero una puntata e fu un trionfo. Quando Sordi chiese di ballarlo con lei, lo portammo in tutto il mondo.” Sulla loro intesa, Turchi resta vago: “Sono affari nostri. Ma sì, quando mi fidanzai con Lola Falana, Raffaella non mi parlò più. Poi mi richiamò e ripartimmo insieme per una tournée.”
Il mestiere e la polemica
Ancora oggi non risparmia critiche al piccolo schermo: “A Ballando con le Stelle non potrei fare il giudice, lì sono opinionisti. La danza è una cosa seria, servono dieci anni di studio, non tre mesi di prove.”
Una vita da romanzo
Nel suo lungo percorso, Turchi ha lavorato con Sinatra, Liza Minnelli, Julio Iglesias e Barry White: “Dovevo ballare su una sua base, invece lo trovai lì al pianoforte. Mi tremavano le gambe.” Oggi vive con Carmen Russo, la loro figlia Maria e una pensione da 900 euro: “Quando lo dissi non parlavo per me, ma per tutti i ballerini. È un mestiere che ti toglie tutto, ma ti regala l’eternità di un applauso.”
Ha danzato con Raffaella Carrà, fatto innamorare il pubblico di tutto il mondo e resistito a una vita che non gli ha risparmiato nulla. Enzo Paolo Turchi, oggi 74 anni, riceve il Premio Arte in Danza a Cava de’ Tirreni e si racconta senza filtri: “Questo riconoscimento vale doppio, perché viene dalla mia terra. È qui che ho iniziato a ballare, da scugnizzo dei Quartieri Spagnoli”.
“Mi chiamavano ricchione perché ballavo”
L’infanzia è stata un campo di battaglia: “Mi chiamavano ‘ricchione’ quando scendevo in strada. Succede ancora oggi, ma molto meno. A volte è colpa di messaggi sbagliati: la danza non è femminile, è forza, disciplina e sacrificio.” A otto anni lavorava in una bisca per venti lire al giorno, “per potermi comprare un panino”. Poi la tragedia: “Le mie due sorelline, Flora e Fausta, morirono schiacciate da un carrarmato. Dopo, mia madre impazzì. Io rimasi solo e piangevo ogni notte. Ancora oggi non riesco a stare senza la mia famiglia accanto.”
Carrà, Falana e la gelosia
La consacrazione arriva con Raffaella Carrà e il mitico Tuca Tuca: “Nacque per scherzo a casa di Raffaella. Durante le prove i dirigenti Rai dissero che era osceno. Alla fine ci concessero una puntata e fu un trionfo. Quando Sordi chiese di ballarlo con lei, lo portammo in tutto il mondo.” Sulla loro intesa, Turchi resta vago: “Sono affari nostri. Ma sì, quando mi fidanzai con Lola Falana, Raffaella non mi parlò più. Poi mi richiamò e ripartimmo insieme per una tournée.”
Il mestiere e la polemica
Ancora oggi non risparmia critiche al piccolo schermo: “A Ballando con le Stelle non potrei fare il giudice, lì sono opinionisti. La danza è una cosa seria, servono dieci anni di studio, non tre mesi di prove.”
Una vita da romanzo
Nel suo lungo percorso, Turchi ha lavorato con Sinatra, Liza Minnelli, Julio Iglesias e Barry White: “Dovevo ballare su una sua base, invece lo trovai lì al pianoforte. Mi tremavano le gambe.” Oggi vive con Carmen Russo, la loro figlia Maria e una pensione da 900 euro: “Quando lo dissi non parlavo per me, ma per tutti i ballerini. È un mestiere che ti toglie tutto, ma ti regala l’eternità di un applauso.”
Televisione
Adelina Tattilo, la Hugh Hefner de’ noantri: la donna che con “Playmen” liberò l’Italia dal tabù del sesso
Editrice visionaria, giornalista e provocatrice, Adelina Tattilo portò in edicola un erotismo elegante, unendo nudo e cultura. Con Playmen batté Playboy e fece scandalo con lo scoop di Jacqueline Kennedy nuda. Poi il declino, ma la sua lezione resta: la libertà può essere un’impresa editoriale.
Quando nel 1967 Adelina Tattilo lanciò Playmen, l’Italia bigotta e cattolica scoprì che anche l’erotismo poteva essere cultura. Nata a Manfredonia nel 1928, la Tattilo fu una pioniera: una donna sola contro i pregiudizi, capace di costruire un impero editoriale partendo da una rivista che mescolava sensualità, ironia e impegno civile. Sessant’anni dopo, Netflix le dedica la serie Mrs Playmen, interpretata da Carolina Crescentini, in uscita il 12 novembre.


La rivoluzione del porno-chic
Playmen non era solo una rivista “per uomini”. Tra le sue pagine, accanto alle modelle in pose audaci, comparivano disegni di Jacovitti, articoli di Luciano Bianciardi e interviste a giganti come Fred Astaire, Umberto Eco, Leonardo Sciascia e Fellini. Tattilo spiegava così il suo progetto: “Volevo combattere i bigottismi e affermare una cultura libertaria e socialista. Il sesso è parte della vita, non un peccato”.



Lo scandalo e il successo
Nel 1969 Playmen pubblicò la foto di Jacqueline Kennedy nuda nella piscina di Onassis a Skorpios, uno scoop che fece il giro del mondo. Ma anche tante dive italiane – da Ornella Muti a Patty Pravo, da Brigitte Bardot ad Amanda Lear – scelsero di posare per la rivista, contribuendo a farne un simbolo di emancipazione. Negli anni Settanta Tattilo toccò il record di 400.000 copie vendute a settimana e sfidò persino Playboy, che le intentò una causa per il nome, vinta solo nel 1982 negli Stati Uniti.
Dall’erotismo alla cultura pop
Quando arrivarono le videocassette hard e poi Internet, Playmen perse terreno. Ma Adelina non si arrese: convertì la sua casa editrice a nuovi settori – tecnologia, fotografia, bricolage – continuando a pubblicare con lo stesso spirito di curiosità.
Oggi, a distanza di decenni, la sua eredità è quella di una donna che seppe portare il sesso in edicola senza volgarità, anticipando le battaglie femministe e libertarie. In un Paese che ancora arrossiva davanti a un bikini, Adelina Tattilo inventò la rivoluzione più difficile di tutte: quella della libertà di guardare, pensare e desiderare.
Televisione
Charlie Hunnam, l’uomo che guarda nell’abisso: “Interpretare Ed Gein mi ha terrorizzato”
Tra trasformazioni fisiche estreme, introspezione psicologica e la sfida di umanizzare il male: il ritorno di Hunnam segna una delle prove più intense della sua carriera.
Non è facile spaventare Charlie Hunnam. Eppure, lo stesso attore che per anni ha incarnato il carisma ribelle di Sons of Anarchy ammette che il suo ultimo ruolo lo ha «terrorizzato». Il motivo è semplice: per la terza stagione della serie antologica di Netflix Monster, ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, Hunnam è chiamato a vestire i panni di Ed Gein, il serial killer del Wisconsin la cui storia ha ispirato capolavori come Psycho, Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti.
L’interpretazione ha richiesto all’attore britannico un’immersione profonda e disturbante nei meandri della mente umana. «Questo ruolo mi ha costretto a guardare il lato più oscuro dell’uomo — ha raccontato in un’intervista —. Non volevo che diventasse una caricatura del male. Dovevo capire come un essere umano possa arrivare a tanto».
Un viaggio nella follia americana
Ambientata negli anni Cinquanta, Monster: La storia di Ed Gein ricostruisce la vicenda del “macellaio di Plainfield”, noto per i suoi crimini che scioccarono l’America rurale. Dopo il successo mondiale delle precedenti stagioni dedicate a Jeffrey Dahmer e John Wayne Gacy, la nuova serie ha debuttato in vetta al catalogo Netflix, generando al contempo entusiasmo e polemiche per il modo crudo e realistico con cui rappresenta la violenza.
Hunnam, 45 anni, ha dovuto affrontare un intenso lavoro di preparazione: ha perso circa 14 chili per riprodurre la corporatura esile del vero Gein, ha studiato ore di registrazioni dell’interrogatorio e ha visitato la sua cittadina natale. «La parte più difficile non è stata la trasformazione fisica, ma la comprensione psicologica», ha spiegato. «Dietro le sue azioni c’erano traumi, isolamento e una malattia mentale mai curata. L’obiettivo era mostrare l’uomo prima del mostro».
Da Newcastle a Hollywood: la parabola di un ribelle
Nato nel 1980 a Newcastle upon Tyne, Hunnam è cresciuto nel nord industriale dell’Inghilterra, tra pub, campi da calcio e una famiglia segnata da difficoltà economiche. Dopo un’infanzia turbolenta e un trasferimento forzato nella tranquilla Cumbria, trova nella recitazione la sua via di fuga. Scoperto quasi per caso da un talent scout della BBC, debutta a 17 anni nella serie Byker Grove e poco dopo conquista l’attenzione del pubblico in Queer as Folk, dove interpreta un adolescente alla scoperta della propria identità.
Il salto internazionale arriva con Sons of Anarchy (2008–2014), in cui dà vita a Jax Teller, il tormentato leader di una gang di motociclisti. Quel ruolo lo consacra come icona maschile e simbolo del ribelle moderno. Da allora, alterna cinema e tv in produzioni di prestigio come Pacific Rim di Guillermo del Toro, Civiltà perduta di James Gray, King Arthur e The Gentlemen di Guy Ritchie.
Il metodo Hunnam: tra dedizione e tormento
Per affrontare il ruolo di Gein, l’attore ha adottato un metodo quasi ascetico. «Ho vissuto da solo per settimane, limitando i contatti con il mondo esterno», ha rivelato. Durante le riprese, ha evitato ogni distrazione, immergendosi completamente nella parte. «Più studiavo la sua vita, più capivo che interpretarlo significava affrontare le paure più profonde, le mie e quelle di chiunque».
Al termine delle riprese, Hunnam ha compiuto un gesto simbolico: ha visitato la tomba di Ed Gein, lasciandosi alle spalle il personaggio. «Ho voluto salutarlo — ha detto —. Gli ho promesso che avrei raccontato la sua storia con rispetto, ma che non l’avrei portato con me».
Critiche e riflessioni: chi è il vero mostro?
Come spesso accade con le opere di Ryan Murphy, anche questa stagione ha sollevato dibattiti sull’etica della rappresentazione del male. Hunnam, però, difende la scelta artistica: «Non stiamo glorificando la violenza. La nostra intenzione è capire. Mostrare il male per ciò che è: un fallimento umano e sociale».
E lancia una provocazione: «Gein era il mostro della storia, ma chi è il mostro oggi? Hitchcock, che ha trasformato la sua vicenda in intrattenimento? O noi spettatori, che guardiamo queste storie per sentirci al sicuro di fronte all’orrore degli altri?».
Un attore, due vite
Lontano dai set, Hunnam conduce un’esistenza sorprendentemente riservata. Da quasi vent’anni è legato alla designer di gioielli Morgana McNelis, con cui vive in California, tra natura e discrezione. «Sono con lei da metà della mia vita», ha raccontato. «Non ho bisogno di un certificato per sapere che è la persona giusta».
Nel 2025, con Monster: La storia di Ed Gein, Hunnam dimostra di essere più di un sex symbol o di un eroe da action movie: è un attore che non teme di sporcarsi le mani con l’oscurità. E forse è proprio questa vulnerabilità, questa capacità di guardare dentro l’abisso senza arretrare, che lo rende — ancora oggi — una delle figure più complesse e affascinanti di Hollywood.
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