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Sport

Chepngetich: sfida le leggi della fisiologia e ridisegna il futuro dell’atletica

La kenyana ha stabilito il primato mondiale con un tempo migliore di quello dei maschi.

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    La straordinaria impresa di Ruth Chepngetich alla maratona di Chicago ha scosso il mondo dell’atletica, mettendo in discussione le nostre conoscenze sulla fisiologia umana e aprendo nuovi orizzonti per le prestazioni sportive femminili.

    Con un tempo di 2h09’56”, la keniana non solo ha infranto il precedente record mondiale, ma ha anche stabilito un nuovo benchmark per le donne, avvicinandosi alle prestazioni maschili. Questo risultato ha innescato un dibattito acceso tra esperti e appassionati, che cercano di comprendere le ragioni di una simile performance e le sue potenziali implicazioni.

    Un gap che non è più gap

    Il divario tra le prestazioni maschili e femminili nelle lunghe distanze è sempre stato considerato un dato di fatto, attribuito a differenze fisiologiche intrinseche tra i due sessi. Tuttavia, il record di Chepngetich suggerisce che questo gap potrebbe essere più fluido e soggetto a cambiamenti inaspettati.

    Le possibili spiegazioni

    Per riuscire in questa impresa concorrono diversi fattori. Ad iniziare dal tipo di allenamento e dall’ambiente in cui ci si muove. L’allenamento in un gruppo di atleti maschi di alto livello, come quello che segue normalmente la Chepngetich, potrebbe averla esposta a stimoli e carichi di lavoro più elevati, accelerando il suo adattamento fisiologico.
    Bisogna tenere conto anche di fattori genetici. È possibile che Chepngetich possegga una combinazione unica di geni che le conferiscono un vantaggio competitivo in termini di resistenza, economia di corsa e recupero. E infine, sarebbe pure auspicabile, ci potremmo trovare difronte a una vera e propria evoluzione fisiologica. Alcuni esperti ipotizzano che le donne stiano subendo un’evoluzione fisiologica che le rende sempre più competitive nelle discipline di endurance, grazie a cambiamenti nello stile di vita e nell’alimentazione.

    Implicazioni scientifiche e future prospettive

    La prestazione di Chepngetich solleva anche una serie di interrogativi che richiedono ulteriori approfondimenti scientifici. Per esempio fino a che punto le donne possono migliorare le loro prestazioni nelle lunghe distanze? Quali sono i limiti imposti dalla fisiologia umana?
    Quali sono le strategie di allenamento più efficaci per massimizzare il potenziale delle atlete di alto livello? In che misura fattori ambientali, come l’altitudine e la temperatura, possono influenzare le prestazioni? Tutte domande che attendono ricerche specifiche.
    Risposte che potrebbero rivoluzionare il modo in cui pensiamo generalmente all’allenamento, alla nutrizione e alla preparazione atletica, sia per le donne che per gli uomini. Inoltre, potrebbero aprire nuove prospettive per la ricerca biomedica, con potenziali applicazioni in campo clinico.

    Un futuro incerto

    Nonostante l’entusiasmo suscitato dal record di Chepngetich, è importante sottolineare che la scienza dello sport è un campo complesso e in continua evoluzione. Saranno necessari ulteriori studi e analisi per comprendere appieno le ragioni di questa straordinaria prestazione e per prevedere l’evoluzione futura delle prestazioni femminili nelle lunghe distanze.

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      Calcio

      Roberto Baggio una carriera con il Buddha nel cuore

      Roberto Baggio è uno dei pochissimi calciatori che nel corso della sua carriera ha unito tutti i tifosi, di qualunque squadra. Talento, classe, lealtà, correttezza e sincerità lo hanno accompagnato nel corso di tutta la sua vita dentro e fuori dai campi di calcio. Valori che a volte lo hanno aiutato, altre volte lo hanno penalizzato. Ma la vita va presa così.

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        Roberto Baggio è uno dei pochissimi calciatori che nel corso della sua carriera ha unito tutti i tifosi, di qualunque squadra. Talento, classe, lealtà, correttezza e sincerità lo hanno accompagnato nel corso di tutta la sua vita dentro e fuori dai campi di calcio. Valori che a volte lo hanno aiutato, altre volte lo hanno penalizzato. Ma la vita va presa così. Come l’ha presa lui ormai 33 anni fa, quando ha incontrato il Buddismo. Oggi vive una vita lontano dai riflettori, nella sua Caldogno circondato da persone e cose semplici che riempiono con cuore e anima le sue giornate.

        Una vita in compagnia di Buddha

        Come si manifesta il buddismo nella vita del ‘divin codino’ il suo soprannome in campo per il lungo codino che lo ha accompagnato nel corso della sua carriera?
        Si manifesta in mille diversi modi e ovunque: nei miei rapporti con gli altri, nei miei pensieri, il buddismo c’è sempre. E mi aiuta moltissimo. La vita è una sfida e il buddismo mi ha fatto capire quali sono le cose importanti, quelle vere. Chiunque inizi qualunque percorso deve inevitabilmente prepararsi alle sfide. Alzarsi la mattina è una sfida, praticare la preghiera è una sfida, incoraggiare le persone, fare qualunque attività. All’inizio è tutta una sfida. Le sfide ci insegnano che quella è l’unica maniera in cui possiamo trovare terreno fertile per crescere. L’unico modo per diventare più grandi, per imparare a ricercare dentro di noi quelle capacità che sono lì dormienti“.

        In che cosa è di aiuto essere buddista?

        Il Buddismo è veramente qualcosa di straordinario. Sono più di 33 anni che pratico e non ho mai smesso un giorno. Il Buddismo mi ha regalato la possibilità di ampliare la mia vita, di espandere gli orizzonti, di vedere che ci sono potenzialità infinite. Ogni mattina leggendo una guida di Sensei trovo sempre una verità. Ho sempre trovato un incoraggiamento per seguire la mia fede. La fede è un grande supporto soprattutto nei momenti difficili. Io credo che tutto dipenda da noi, quello che si manifesta nel nostro ambiente dipende da ciò che emaniamo.

        Il calcio le interessa ancora?

        Lo seguo sempre con piacere e attenzione. Il Ct Spalletti sa come lavorare con i ragazzi. Basta che gli venga dato modo e tempo per farlo. In famiglia abbiamo una calciatrice che è mia nipote. Non vado a vedere le sue partite, anche se il calcio femminile è quello che seguo di più in questo momento. Mi piacerebbe andare ma non lo faccio perché sono certo che le creerebbe troppi problemi. Non porta il mio cognome, ma tutti scoprirebbero subito che sono suo zio. E quindi… sai i confronti!?

        Ai giovani, oggi sempre più frastornati, cosa si sente di consigliare?

        Mi sentirei di dire che senza passione non si va da nessuna parte. Il talento è un dono, però per realizzare un sogno servono anche abnegazione, voglia, lavoro, sacrifici e tanto altro. Se mi fermo a pensare quanta vita è già trascorsa a volte mi sorprendo. Gli anni sono volati e mi sembra di averne vissuti la metà. Bisogna godersi ogni istante della vita, perché il valore del tempo è inestimabile. E soprattutto bisogna usare sempre il cuore e donarlo agli altri senza voler niente in cambio, ma solo per il gusto di donare, di condividere.

        Quel rigore sbagliato a Pasadena cosa le ha insegnato?

        In quel momento pensavo di fare la cosa giusta. Il mio sogno da bambino era proprio quello di vincere il mondiale con il Brasile… di fare gol all’ultimo minuto e di far contenti tutti gli italiani in mille modi diversi. Ma erano sogni. E come è finita? Nel modo in cui non avrei mai pensato! Questa è la vita. Cosa mi ha insegnato? Diverse cose. La prima volta che ho incontrato il mio maestro Ikeda, nel 1994 si accosto al mio orecchio e mi disse “vincerai o perderai all’ultimo secondo… “. Mi ha fatto comprendere che è necessario andare fino in fondo, al di là del risultato. Perché è il percorso la cosa più importante. Il fatto di continuare a sfidarsi ad affrontare le difficoltà. Ai giovani suggerisco di continuare a farlo. Perché se non affrontiamo le difficoltà non sapremo mai qual è la nostra potenzialità, il nostro vero valore. Quella è la nostra fortuna, continuare a sfidarsi perché so che domani avrò imparato qualcosa di più.

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          Sport

          Ci vediamo… dopati! A Las Vegas debutta la prima Olimpiade con steroidi liberi

          Gli organizzatori promettono record mondiali e un nuovo approccio “scientifico” al doping: test medici, protocolli clinici e uno studio di monitoraggio a cinque anni. Ma per il mondo dello sport è una follia: “Si rischia di normalizzare l’abuso di sostanze pericolose, anche tra i giovani”

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            Ci sarà chi correrà più veloce, chi solleverà più chili e chi nuoterà come un siluro. Ma non sarà per merito dell’allenamento, del talento o della grinta: ai primi “Enhanced Games” in programma nel maggio 2026 a Las Vegas, saranno benvenute – anzi, incoraggiate – le sostanze dopanti. Dimenticate il fair play, le medaglie al merito, la lealtà sportiva: qui si gareggia con steroidi, testosterone, EPO e ormone della crescita. Tutto dichiarato, tutto “monitorato”. E ovviamente tutto pagato profumatamente, come nel caso del nuotatore bulgaro Kristian Gkolomeev, che ha incassato un milione di dollari per aver battuto il record mondiale dei 50 metri stile libero. Con tanto di tuta vietata e protocollo “potenziato”.

            L’evento è ufficiale e ha già una sede prestigiosa: il Resorts World di Las Vegas. Il progetto – che promette di far discutere per anni – è stato svelato dal presidente della competizione, l’avvocato australiano Aron D’Souza, che ha definito gli Enhanced Games “la vera evoluzione dello sport moderno”. Altro che Olimpiadi: qui si punta a riscrivere la storia dell’atletica con la spinta della chimica.

            Nel programma: atletica leggera, nuoto e sollevamento pesi. Attesi 60-100 atleti, alcuni dei quali “puliti”, altri invece potenziati secondo i protocolli messi a punto dalla commissione scientifica e medica indipendente, presieduta dal cardiologo Guido Pieles. Le sostanze utilizzate? Testosterone (in quattro esteri diversi), steroidi anabolizzanti, ormone della crescita ed EPO, tutte vietate nelle competizioni ufficiali e universalmente considerate pericolose in caso di abuso.

            Ma Pieles frena: “Le dosi saranno controllate, leggermente superiori a quelle terapeutiche e lontane dagli abusi da palestra. Gli atleti saranno seguiti, monitorati clinicamente, e dovranno sottoporsi a test per valutare il loro stato fisico, cognitivo e psicologico”.

            Non solo: ogni partecipante sarà monitorato per cinque anni dopo l’evento, in quella che gli organizzatori definiscono “una sperimentazione clinica di fase uno sulla sicurezza dei PED (Performance Enhancing Drugs)”. Una sorta di grande esperimento umano travestito da evento sportivo, che ambisce a scardinare le regole imposte da enti come il Comitato Olimpico Internazionale e la WADA (Agenzia Mondiale Antidoping), che hanno già bollato i giochi come “pericolosi, irresponsabili e dannosi per il futuro dello sport”.

            Il Comitato Olimpico parla chiaro: “Lo spirito olimpico è fondato sulla salute, sull’etica e sull’uguaglianza. Questo evento calpesta ogni principio”. Ma D’Souza risponde con cinismo e realismo: “L’ipocrisia dello sport ufficiale è che i campioni si dopano già, lo fanno in segreto, senza controlli medici. Noi, almeno, lo facciamo alla luce del sole e in sicurezza”.

            Le polemiche non mancano, ma nemmeno l’interesse mediatico. Gli Enhanced Games sembrano destinati a diventare un circo ipertecnologico, un reality ad alto rischio con promesse di record mondiali e la certezza di attirare sponsor e spettatori. Ma anche – denunciano sociologi e medici – il rischio di generare un effetto a cascata tra i più giovani, pronti a seguire i loro nuovi “eroi” caricandosi di ormoni.

            “Quando spareranno il primo colpo di pistola – scrive The Economist – il mondo intero starà a guardare. Ma la domanda resta: fino a che punto possiamo spingerci in nome dello spettacolo?

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              Sport

              “Sono italiana, punto.” Sara Curtis risponde agli insulti razzisti: “Il mio mix culturale è una ricchezza, non una colpa”

              Nuova star del nuoto italiano, Sara Curtis ha battuto lo storico primato nei 100 stile e scelto gli USA per crescere come atleta e come donna. Ma sui social c’è chi la insulta per il colore della pelle. “Essere mulatta non mi rende meno italiana. Mi fanno ribrezzo, dovrebbero rileggere la Costituzione”

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                Non si diventa un simbolo per caso. E Sara Curtis, 18 anni, piemontese di Savigliano, lo sta diventando. Per il talento cristallino, certo, ma anche per la dignità con cui affronta la parte più squallida della notorietà: l’odio. Soprattutto quello razzista.

                Ha appena cancellato un pezzo di storia del nuoto italiano: 53″01 nei 100 metri stile libero, nuovo record nazionale agli Assoluti di Riccione, meglio di quel 53″18 che Federica Pellegrini aveva stampato nel 2016. Ma mentre tutti dovrebbero celebrarla, c’è chi preferisce insultarla. Perché “non sembra italiana”.

                «Sentirmi dire che non sono italiana perché sono mulatta è ripugnante», ha detto al Corriere della Sera Sara, con la lucidità di chi ha già imparato a convivere con certi attacchi. Sua madre è nigeriana, suo padre italiano. E per chi ancora non ha letto la Costituzione, la cittadinanza non si assegna in base al colore della pelle. «Gente ignorante, dovrebbero sapere che tra i requisiti per avere la cittadinanza c’è quello di avere almeno un genitore italiano. Il mio è italiano. E comunque io sono orgogliosa di portare dentro di me due culture diverse. È il mio arricchimento, non certo un limite».

                I commenti più odiosi – nemmeno a dirlo – arrivano dai social. Dove il coraggio spesso coincide con l’anonimato e l’ignoranza galoppa libera: “Quello non è un record italiano, ma nigeriano”, scrivono alcuni. «Frasi che mi fanno ribrezzo, ma per fortuna so farmi scivolare addosso certe cattiverie. Uso l’ironia, non mi faccio avvelenare», replica lei. E con una classe che certi adulti non avranno mai, aggiunge: «Nel mio istituto siamo nove in classe, e solo una ha entrambi i genitori italiani. L’Italia è cambiata, chi la insulta vive fuori dal tempo».

                A far discutere è anche la sua scelta di vita: andrà a studiare e nuotare in America, alla University of Virginia, allenata da Todd DeSorbo, il coach della nazionale USA. Ma chi ha provato a leggere in questa decisione una rinuncia all’italianità ha sbagliato completamente mira. «Non sto andando negli Usa per smettere di essere italiana – chiarisce – ma per migliorarmi. Come persona e come atleta. Il tricolore lo vestirò per sempre, perché sono e resto italiana».

                E non è un addio, ma un salto in avanti. Uno di quelli che ti cambia la vita. «Ci pensavo da settembre. Poi ho capito che i treni passano per un motivo. E se hai il coraggio di salirci, può iniziare qualcosa di straordinario».

                Sara Curtis non ha ancora vent’anni ma ha già battuto record, ricevuto minacce e dato lezioni. Non solo di stile libero, ma di stile, e basta.

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