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Sport

Myriam Sylla, addio a Milano: «Mercenaria? Forse dovevo svegliarmi prima»

La schiacciatrice azzurra risponde alle critiche dopo il trasferimento al Galatasaray: “Ho trent’anni, posso cambiare. Ho dato tutto alla Serie A1”

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    Myriam Sylla ha deciso di voltare pagina. Dopo aver salutato Milano e il campionato italiano, la schiacciatrice della Nazionale si prepara a una nuova avventura con il Galatasaray Istanbul, firmando un ricco contratto con formula 2+1. Una svolta di carriera che segna la sua prima esperienza all’estero, dopo anni vissuti da protagonista tra Villa Cortese, Bergamo, Conegliano e appunto Milano. A Istanbul ritroverà Massimo Barbolini, oggi assistant coach di Julio Velasco in azzurro, che conosce bene il suo talento e la sua forza emotiva.

    Il trasferimento, però, ha scatenato reazioni contrastanti. In tanti l’hanno accusata di aver lasciato l’Italia solo per motivi economici. Sylla non si è nascosta e ha risposto con durezza. «Perché sono andata al Galatasaray? È una scelta personale. Si può cambiare, no? Ho trent’anni, sono grande. La gente dice “vai per i soldi”. Non mi interessa. E se anche fosse? Forse mi dovevo svegliare prima e fare la mercenaria, come mi chiamano ora. Credo sia il momento giusto. Ho dato il meglio di me al campionato italiano». Parole che rivelano orgoglio, ma anche una certa amarezza per le etichette che le sono state cucite addosso.

    Un chiarimento, la campionessa l’ha voluto fare anche sul rapporto con Stefano Lavarini, allenatore di Milano, che alcuni avevano tirato in ballo come causa della sua partenza. «Io e Lavarini abbiamo un rapporto incredibile. Il rispetto e il bene che provo per lui non possono essere messi in discussione. E poi, un’altra cosa: se un allenatore mi mettesse in panchina continuerei a sostenere la squadra senza prendermela. Per questo non deciderei mai di andarmene».

    Sylla, insomma, non cerca alibi. Rivendica il diritto di cambiare aria e di misurarsi con nuove sfide. Istanbul rappresenta un salto di livello anche economico, certo, ma soprattutto un’occasione per crescere fuori dai confini della Serie A1 che l’ha vista protagonista per oltre un decennio. «Ho dato tutto quello che avevo al campionato italiano», ripete. Ora la sua energia e il suo carisma li metterà a disposizione del Galatasaray, portando con sé l’esperienza accumulata in anni di battaglie sportive e un carattere che non ha mai avuto paura di dire le cose come stanno.

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      Calcio

      “Fui indagato ingiustamente, quell’episodio mi ha segnato”: Ciccio Cozza tra la Reggina, le ombre del passato e il futuro da allenatore

      Dalle pagine di sport a quelle di cronaca, fino alla fine del matrimonio con Manila Nazzaro: Cozza oggi guarda avanti, accanto alla nuova compagna e al figlio, senza rinnegare nulla ma con la ferita di quelle vicende.

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        Francesco “Ciccio” Cozza, 51 anni, a Reggio Calabria resta una leggenda. Durante l’evento “Operazione Nostalgia”, al Granillo, è stato accolto come un figlio tornato a casa. “Il Ciccio bambino sognava di giocare in Serie A e di diventare capitano della Reggina. Ho avuto la fortuna di realizzare entrambi i desideri. Mi sono divertito, quei sogni che avevo li ho realizzati”, racconta.

        Ma se il campo gli ha regalato la gloria, la vita extra sportiva gli ha imposto prove dure. In un’intervista alla Gazzetta dello Sport, Cozza ha parlato a cuore aperto dell’inchiesta giudiziaria che anni fa lo vide indagato per associazione a delinquere aggravata dal favoreggiamento alla ’ndrangheta. Un’accusa pesante, che lo segnò profondamente.

        “Quell’episodio mi ha fatto male – spiega – perché chi non ti conosce ti inquadra subito in una certa maniera. Purtroppo è stata una vicenda che mi ha segnato nel mondo dello sport: essere indagato, nonostante nelle carte non ci fosse mai nulla su di me, ti lascia un marchio. E non solo su di me, ma anche sulla mia famiglia. Sono esperienze che fanno soffrire”.

        Una ferita che, a distanza di anni, resta. Ma Cozza preferisce considerarla un capitolo chiuso. “Fa parte del passato – dice – e mi auguro che non succeda mai più nulla di simile. Perché sono cose che ti tolgono il sonno, che ti fanno male dentro e intorno. Però vado avanti, oggi sono felice e sereno”.

        La cronaca lo ha travolto anche sul fronte privato. La fine del matrimonio con Manila Nazzaro fece molto rumore, tra accuse reciproche e dichiarazioni avvelenate. “Con la mia ex moglie non ho più un rapporto – chiarisce – anche perché in passato ha detto cose assurde. Erano cose fuori luogo. C’erano tante bugie in quei racconti, ma ora è tutto chiuso. Lei si è fatta la sua vita e io la mia. L’importante era far crescere bene e tutelare i figli”.

        Una chiusura netta, anche se non priva di amarezze. “Ci siamo chiariti tramite gli avvocati – prosegue Cozza –. Non è stato semplice, ma adesso non se ne parla più. Io oggi sono un uomo felicissimo: ho una compagna, Celestina, che amo, e abbiamo un figlio insieme. Siamo innamorati e la mia vita è piena”.

        Alla Gazzetta Cozza ha voluto anche ribadire il legame con la città che lo ha consacrato: “Reggio per me è tutto. Lo spiego in due parole: Cozza è la Reggina e la Reggina è Cozza. Sono arrivato a dodici anni, poi il Milan mi prese a quindici, ma il cuore è rimasto sempre qui”.

        Sul futuro non ha dubbi: vuole allenare, magari lontano dall’Italia. “Vorrei trovare una squadra all’estero – spiega –. Per conoscere altri campionati, altre realtà. Il calcio italiano mi ha dato tanto e io ho dato tanto. Però da anni mi sembra che tutto si sia un po’ fermato: è più difficile scoprire talenti e portarli a grandi livelli. Lo abbiamo visto anche con le difficoltà della Nazionale. Ora confidiamo in Gattuso”.

        Intanto, l’ex regista amaranto si dedica alla crescita dei giovani. “Il mio obiettivo è divertirmi e far divertire i ragazzi che alleno. Il calcio è stato la mia vita e ora voglio restituire qualcosa. Non rinnego nulla di ciò che ho vissuto, nemmeno i momenti più duri. Ma oggi voglio guardare avanti”.

        Un passato da idolo, un presente segnato da resilienza e voglia di riscatto, un futuro che parla ancora di calcio. Cozza non smette di crederci: “Sono un uomo che ha sofferto, ma che non ha mai smesso di lottare”.

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          Calcio

          Lucio, ex dell’Inter: «Ricordo le fiamme sul volto, sulle braccia e sulle gambe. Dio mi ha dato un secondo tempo»

          L’ex difensore dell’Inter Lucio racconta il terribile incidente con un camino ecologico che gli ha lasciato il 18% del corpo ustionato e 20 giorni di ricovero. “È avvenuto all’improvviso: un amico ha gettato alcol sul fuoco e c’è stata l’esplosione. Il ricovero è stata la parte più dura”

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            Anche solo poter pronunciare quelle due parole, Juve-Inter, è già un segno di rinascita per Lucio. L’ex difensore brasiliano, colonna del Triplete nerazzurro del 2010, quattro mesi fa ha visto la morte da vicino. Un camino ecologico esploso in casa di amici lo ha investito con una fiammata improvvisa, ustionandogli il volto, le braccia e le gambe. Oggi, a 47 anni, racconta la sua storia con gratitudine e un filo di commozione: «Sono qua a parlarne, Dio mi ha dato un secondo tempo della partita».

            Era l’8 maggio, il giorno del suo compleanno. Lucio aveva appena spento le candeline quando il camino si è affievolito. «Un amico, nel tentativo di ravvivare il fuoco, ha gettato sopra un bidoncino di alcol e lì c’è stata l’esplosione. Io ricordo soltanto le fiamme che mi avvolgevano. Mia moglie, per fortuna, non è rimasta ferita. Mi sono buttato in piscina per spegnere il fuoco». La corsa in ospedale, le prime medicazioni, poi il trasferimento da Brasilia al Rio Grande do Sul per affrontare il lungo ricovero.

            «Sono stati venti giorni durissimi, tra terapia intensiva e interventi delicati per rimuovere tessuti danneggiati. Le ustioni sono un tipo di lesione molto difficile da sopportare, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Non avevo mai trascorso così tanto tempo in ospedale. Non riuscivo a dormire per il dolore, ogni ora sembrava infinita. Quella è stata la prova più grande».

            Il bilancio parla di ustioni sul 18% del corpo, ma oggi il peggio è alle spalle. «Continuo il trattamento sulla pelle, il percorso è lungo, ma sto migliorando. Ci vorranno ancora mesi prima di poter dire di essere tornato al 100%, però la cosa più importante è che sono vivo. Questo incidente mi ha fatto capire quanto la vita possa cambiare in un istante».

            Lucio non perde l’occasione per lanciare un messaggio: «Quello che mi è accaduto deve servire da monito. A volte basta poco per evitare una tragedia: un attimo di attenzione, un gesto diverso, un po’ di prudenza. Proteggete voi stessi e chi vi sta accanto. Ne vale la pena».

            Dal dramma, il calciatore ha tratto una nuova consapevolezza. «Ho imparato ad avere più cura di me stesso e a godermi i momenti semplici. Prima davo tante cose per scontate. Ora no, ogni giorno è un dono». E poi c’è sempre il calcio, la sua grande passione: «Oggi posso parlare ancora di Juve-Inter. E questo per me significa tutto. La vita mi ha dato un secondo tempo: adesso sta a me giocarlo bene».

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              Tennis

              Djokovic lascia la Serbia, porta il torneo ATP in Grecia e viene bollato come traditore dai media di Vucic

              Novak Djokovic ha sostenuto gli studenti che protestavano contro la corruzione dopo la tragedia di Novi Sad e per questo è stato preso di mira dai tabloid filo-Vucic. Ora si trasferisce in Grecia, iscrivendo i figli a scuola ad Atene e portandosi dietro il torneo ATP di Belgrado. Intanto c’è chi lo celebra come nuovo volto del liberalismo filo-europeo, ma le sue radici restano nazionaliste.

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                Da eroe nazionale a “traditore” della patria, il passo è stato breve. Novak Djokovic, 24 volte vincitore Slam e simbolo del tennis mondiale, ha scelto di lasciare la Serbia e trasferirsi in Grecia, portando con sé moglie, figli e perfino il torneo ATP di Belgrado, di proprietà della sua famiglia. Una decisione che ha il sapore della rottura definitiva con il presidente Aleksandar Vucic e con i media che ne sostengono il governo.

                Il peccato originale? Aver preso posizione. Dopo il crollo della pensilina ferroviaria di Novi Sad, che a dicembre ha provocato 16 morti e acceso la protesta degli studenti contro la corruzione, Djokovic si è schierato apertamente con i ragazzi. Prima con un post sui social: «Credo profondamente nel potere dei giovani e nella loro voglia di futuro. Le loro voci vanno ascoltate». Poi con gesti simbolici: la dedica di una vittoria agli Australian Open a uno studente ferito, la felpa con la scritta “Gli studenti sono campioni”, le immagini condivise delle piazze in rivolta.

                Apriti cielo. I tabloid filogovernativi lo hanno definito “falso patriota”, accusandolo di sostenere la “rivoluzione colorata”. Un affronto per un Paese che fino a ieri voleva dedicargli addirittura un museo a Belgrado in vista dell’Expo 2027.

                Le contraddizioni sono tutte lì. Lo stesso Djokovic che nel 2023 aveva scritto sulla telecamera del Roland Garros «Il Kosovo è il cuore della Serbia», lo stesso che si è fatto fotografare accanto a nazionalisti compromessi con il genocidio di Srebrenica, oggi si ritrova al fianco di studenti che denunciano corruzione e appalti truccati. Un fervente nazionalista che si scontra col presidente nazionalista.

                Intanto la famiglia ha già messo radici ad Atene: i figli sono stati iscritti a una scuola privata e Nole sembra pronto a una nuova vita, lontano da Belgrado. Sullo sfondo, il futuro in politica: c’è chi lo immagina come un nuovo leader populista, chi lo vede come volto del liberalismo filo-UE.

                Giuliano Ferrara, su X, lo ha già celebrato come il “GOAT del liberalismo europeo”. Ma la verità è che Djokovic resta un uomo diviso, complesso, figlio di un Paese che porta ancora addosso le cicatrici delle guerre balcaniche. Per ora ha messo la racchetta tra sé e il potere serbo. Domani, chissà, potrebbe usarla come clava in politica.

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