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Politica

Elezioni? Abbiamo il dovere di decidere!

Si vota fino alle 23: lo spoglio inizia subito dopo la chiusura delle urne. Tre milioni i diciottenni per la prima volta al voto

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    Oggi più di 51 milioni di italiani sono chiamati a eleggere i 76 componenti dell’Europarlamento spettanti all’Italia. Tra questi, tre milioni di diciottenni votano per la prima volta, con l’astensionismo che potrebbe giocare un ruolo chiave. Nel 2019, l’affluenza era al 54,4%, ma quest’anno potrebbe scendere sotto il 50%.

    La sfida tra i leader Questa campagna elettorale, concentrata su temi interni, vede in prima linea quasi tutti i leader politici, tranne Giuseppe Conte (5 Stelle), Matteo Salvini (Lega), e il duo Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli (Avs). Tra i candidati ci sono la premier Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia, Elly Schlein per il PD, Antonio Tajani per Forza Italia, Carlo Calenda per Azione, e Matteo Renzi ed Emma Bonino per Stati Uniti d’Europa. La Lega ha schierato il controverso generale Roberto Vannacci, mentre Avs presenta l’attivista Ilaria Salis, e il Movimento 5 Stelle punta su eurodeputati uscenti e nuovi volti come Giuseppe Antoci e Carolina Morace. Tra i nuovi candidati, Cateno De Luca con la lista Libertà e Michele Santoro con Pace, Terra e Dignità. Si vota fino alle 23, con lo spoglio che inizia subito dopo.

    Regole del voto Sulla scheda elettorale non è possibile esprimere il voto disgiunto: si può votare solo il partito con una X sul simbolo o esprimere preferenze rispettando l’alternanza di genere. Gli studenti fuori sede possono votare per le liste della propria circoscrizione d’origine, con 23.734 richieste per questa modalità.

    Elezioni Amministrative Contestualmente alle Europee, si vota anche per la Regione Piemonte e circa 3.700 Comuni. In Piemonte, la sfida è tra l’attuale presidente Alberto Cirio, Gianna Pentenero del centrosinistra, Sarah Disabato del Movimento 5 Stelle, Alberto Costanzo di Libertà e Federica Frediani di Piemonte Popolare.

    Elezione dei sindaci Inoltre, si eleggono 3.520 sindaci nelle Regioni a statuto ordinario, 114 in Friuli Venezia Giulia, 27 in Sardegna e 37 in Sicilia. I capoluoghi al voto sono 29, con particolare attenzione su Bari e Firenze per la riconferma del PD, ma anche sfide importanti a Cagliari, Campobasso, Perugia, Potenza, Ascoli Piceno, Avellino, Bergamo, Biella, Caltanissetta, Cesena, Cremona, Ferrara, Forlì, Lecce, Livorno, Modena, Pavia, Pesaro, Pescara, Prato, Reggio Emilia, Rovigo, Sassari, Urbino, Verbania, Vercelli e Vibo Valentia. L’eventuale ballottaggio per i Comuni con più di 15 mila abitanti si terrà il 23 e 24 giugno.

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      Politica

      Ma dove è finita Giorgia Meloni? In un trullo blindato di Locorotondo con Giambruno e Gemmato

      Secondo indiscrezioni, Giorgia Meloni avrebbe scelto il Leonardo Trulli Resort di Locorotondo per le sue vacanze estive. Con lei la figlia Ginevra, l’ex compagno Andrea Giambruno e il sottosegretario Marcello Gemmato con la famiglia. Una scelta dettata dal bisogno di privacy, ma anche dall’attrazione per una dimora che unisce lusso e tradizione pugliese.

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        Non più la masseria di Ceglie Messapica, che lo scorso anno l’aveva vista finire sotto i teleobiettivi dei paparazzi mentre si rilassava a bordo piscina. Quest’estate Giorgia Meloni ha deciso di cambiare scenario, pur restando fedele alla sua amata Valle d’Itria. Tutti gli indizi portano al Leonardo Trulli Resort di Locorotondo, struttura immersa nella campagna pugliese, avvolta da vigneti e muretti a secco, dove la riservatezza è la regola.

        Ad accompagnarla in Puglia ci sono la figlia Ginevra e l’ex compagno Andrea Giambruno, con cui ha scelto di mantenere un rapporto sereno per il bene della bambina. Con loro anche il sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato, farmacista di professione e in pole per la poltrona di ministro, arrivato in vacanza con la moglie Laura e le due figlie gemelle, grandi amiche di Ginevra.

        Il resort, aperto nel 2013 ma costruito attorno a un’antica dimora recuperata con cura, conta quattordici alloggi che oscillano dai 250 ai 900 euro a notte. Trulli in pietra, una piccola masseria liberty e una villa di campagna, tutti con arredi ricercati e giardini privati. La vera chicca è la stanza con piscina segreta ricavata da una cantina sotterranea, diventata virale sui social. Non mancano due ville indipendenti, tra cui villa Leonardo, ideale per famiglie in cerca di totale isolamento: la candidata più probabile per ospitare la premier e il suo entourage.

        La scelta non sarebbe casuale. Meloni conosce da tempo la famiglia Cardone, che ha trasformato la residenza in un rifugio esclusivo, a metà strada tra il fascino antico e il comfort moderno. Una dimora nata dalla visione romantica di Leonardo, il fondatore, e oggi curata dalla nipote Rosalba.

        Per la premier, quindi, un ritorno in Puglia, ma con una strategia diversa: più spazio, più sicurezza, meno possibilità di flash indesiderati. Perché anche quando la politica si ferma, la riservatezza resta un dovere.

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          Politica

          Trump confonde la Crimea col Texas e inventa guerre: il presidente che inciampa nelle sue stesse gaffe

          Donald Trump continua a ripetere che nei primi sette mesi alla Casa Bianca ha risolto sei guerre. Poi, senza battere ciglio, ne annuncia sette, salvo non chiarire quale sia l’ultima. L’exploit radiofonico ha però regalato un doppio scivolone: la Crimea trasformata in un Texas affacciato sull’oceano e il conflitto inesistente tra Azerbaigian e Albania. Un cortocircuito che riaccende i dubbi sullo stato di lucidità del presidente.

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            Era stato lui, ai tempi della campagna elettorale, a prendersi gioco della presunta fragilità mentale di Joe Biden, ribattezzato con scherno “Sleepy Joe”. Ma ascoltando Donald Trump al microfono del Mark Levin Show, viene da pensare che, a confronto, il rivale democratico fosse davvero un giovanotto fresco come un pischello. Il presidente ha inanellato una sequenza di strafalcioni che hanno lasciato di stucco perfino i suoi sostenitori più accaniti.

            Prima la geografia creativa: «La Crimea è grande quanto il Texas e affacciata sull’oceano». In realtà è una penisola che si tuffa nel Mar Nero, e non in un oceano. Poi la diplomazia da avanspettacolo: «Ho risolto la guerra tra Aberbaijan e Albania». Due colpi in un solo colpo: storpiare il nome di un Paese e infilarne dentro un altro che con quel conflitto non ha nulla a che fare.

            Eppure, Trump ci crede. Rivendica di aver chiuso sette guerre in sette mesi: India-Pakistan, Israele-Iran, Ruanda-Congo, Thailandia-Cambogia, Armenia-Azerbaigian, Egitto-Etiopia. Più una settima, indefinita, che il presidente evoca con aria misteriosa, parlando di Serbia e Kosovo come se avesse bloccato una guerra che in realtà non è mai iniziata. Il risultato è un elenco confuso, già messo in dubbio dagli stessi protagonisti, che spesso hanno ridimensionato il ruolo americano.

            La scena più surreale resta quella con i leader armeno e azero nello Studio Ovale, che Trump descrive come due ragazzi imbronciati convinti all’abbraccio dopo una ramanzina sui commerci. Ma la sua versione cozza con i fatti: la tregua è fragile e gli scontri non si sono fermati.

            Un presidente che si vanta di «aver risolto guerre che nessuno pensava risolvibili» e che, allo stesso tempo, trasforma la geopolitica in un pasticcio di geografia e fantasia. Per molti, la vera notizia non è l’ennesimo Nobel che si auto-candida, ma il dubbio che, più che a fermare i conflitti, Trump sia diventato maestro nell’inventarli.

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              Politica

              Dal Leoncavallo ad “afuera”: Salvini dimentica il suo passato da frequentatore del centro sociale che oggi rivendica di aver fatto sgomberare

              Matteo Salvini, a 21 anni, raccontava che dai 16 ai 19 il suo ritrovo era il Leoncavallo, centro sociale milanese sgomberato ieri. All’epoca lo difese a spada tratta, parlando di “idee e bisogni condivisi” e ricevendo applausi dal Pds. Trentun anni dopo, da ministro, ha brindato allo sfratto citando Milei: “Afuera!”. Intanto a Roma resta intoccata l’occupazione di Casapound, e crescono le accuse di doppiopesismo.

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                “Dai 16 ai 19 anni il mio ritrovo era il Leoncavallo. Mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni”. Correva il 1994 e un giovane consigliere comunale, Matteo Salvini, difendeva in aula quello che oggi celebra come il trionfo della legalità calata dall’alto. Il verbale dell’epoca è chiaro: per il futuro leader della Lega, i centri sociali erano luoghi di incontro, discussione, perfino divertimento. “Ci si trova per confrontarsi, bere una birra e divertirsi” disse allora, ricevendo l’approvazione persino del capogruppo del Pds, Stefano Draghi, che definì il suo intervento “lucido ed equilibrato”.

                Trentun anni dopo, la scena è ribaltata. All’indomani dello sgombero dello storico centro sociale di via Watteau, Salvini ha esultato sui social: “Decenni di illegalità tollerata: afuera!”. Una citazione del presidente argentino Milei che ha fatto il giro delle bacheche, non senza imbarazzo per i ricordi che riaffiorano. Perché Salvini, prima di vestire i panni del “capitano”, è stato un giovane comunista padano che al Leonka, come lo chiamano a Milano, ci andava davvero.

                Lo sfratto ha riaperto ferite storiche. Il sindaco Giuseppe Sala ha denunciato di non essere stato avvisato dell’operazione, nonostante il comitato per l’ordine e la sicurezza si fosse riunito il giorno prima. “Un valore storico e sociale della città” ha ribadito Sala, convinto che il Leoncavallo debba continuare a produrre cultura “in un contesto di legalità”.

                Ma la polemica politica si allarga. Luca Casarini parla di “sgombero con sotterfugio”, Angelo Bonelli denuncia il doppio standard: “Si chiude il Leoncavallo e si lascia intatto il palazzo occupato da Casapound nel cuore di Roma”. Giorgia Meloni, invece, plaude: “In uno Stato di diritto non possono esistere zone franche”.

                Così lo spirito del Leonka torna al centro della contesa politica, sospeso tra la memoria di chi lo visse come spazio di socialità e la narrazione di chi oggi lo liquida come simbolo di illegalità. In mezzo resta la contraddizione di Salvini: da giovane lo difendeva, da ministro lo caccia via.

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