Mondo
Donald Trump, lo sparo perfetto: l’attentato di ieri e la santificazione sul campo
The Donald scampa a un attentato perfetto e assurge al ruolo di eroe americano. Un attentato, quello di Butler, che gli regala di fatto la Presidenza. A sparargli un giovane repubblicano del suo stesso partito che lo ha incredibilmente mancato sparando da breve distanza con un fucile da un tetto. E questo nonostante il fatto che quel ragazzo armato fosse stato segnalato alla polizia… che non ha fatto nulla. Una regia perfetta…

Neppure un regista di Hollywood avrebbe potuto creare un attentato così perfetto: l’ex Presidente Donald Trump se la cava con un graffietto e la Presidenza in tasca. E probabilmente ricorderà quel momento in cui ha sfiorato la morte come uno dei più perfetti della sua vita. Anche nei suoi sogni più proibiti mai avrebbe pensato che uno sparo, che lo ha mancato di pochi centimetri, avrebbe potuto santificarlo da vivo, facendo dimenticare a tutti i processi, le condanne, gli eccessi, le bugie a raffica.
La foto dell’ex presidente americano Donald Trump, con il pugno chiuso, sanguinante al volto per la ferita subita durante un comizio in Pennsylvania, in testa il cappello rosso “Make America Great Again”, entra a far parte della storia politica USA, muta il clima delle elezioni per la Casa Bianca 2024 e offre alla Convenzione repubblicana, che si apre lunedì a Milwaukee, un diverso e più profondo messaggio politico, costringendo i democratici del presidente Joe Biden a una drammatica linea difensiva.
Mentre scrivo, la dinamica dell’attacco ormai è chiara. E i complottisti avranno da scatenarsi visto che non si capisce come un ragazzo con un fucile, che era stato ripetutamente segnalato alla polizia, sia stato bellamente fare tutto quello che aveva in mente prima di essere ucciso per chiudergli la bocca per sempre.
Le immagini mostrano l’ex presidente accasciarsi, colpito all’orecchio, subito circondato dagli agenti del Secret Service. Mentre lo sorreggono, Trump alza gridando il braccio verso i militanti, in un gesto di sfida e unità che incendierà la platea della Convenzione e sta già mobilitando online milioni di seguaci, persuasi che “la sinistra vuole la guerra civile”.
La politica cambia faccia
L’America si avviava al voto del 5 di novembre in pessime condizioni, l’esausto presidente Biden circondato dalle richieste di passare la mano a un candidato più giovane, Trump a insultare lui e la vice Kamala Harris, gli estremisti conservatori di Project 2025 a stilare un manifesto per la svolta autoritaria a Washington. Ora i toni si alzeranno in peggio, al di là della solidarietà di facciata offerta dai democratici al Congresso, il web gronda odio, con i trumpiani a reclamare rappresaglie e i radicali di sinistra persuasi che si sia trattato solo di un “false flag”, finto attentato per far di Trump un martire ed eroe.
Per gli uni l’ex presidente è vittima di una persecuzione politica, prima legale e ora violenta, per gli altri è un trucco mal organizzato o un’occasione mancata per liberarsi del detestato rivale. La disinformazione infuria e le immagini vengono toccate e distorte.
Il confronto brutale
Di certo, la campagna 2024 perde ogni aggancio alle diverse filosofie politiche, per ridursi a brutale scontro di personalità e propaganda in cui ogni interesse nazionale comune viene smarrito e le due Americhe si confrontano irriducibili, ostili, estranee, sorde.
Ora lo scontro è ancora più impari: il Santo Trump, l’Eroe col pugno chiuso come un Che Guevara populista, il Sopravvissuto, contro il vecchio che perde colpi, il Signore delle Gaffe che chiama Selensky, Putin e sembra in preda alla follia senile più acuta. Ma non molla la corsa alla Presidenza, pronto ad andare a sbattere contro Trump a cento all’ora regalandogli la Casa Bianca.
Come non tornare alla memoria che torna a John Kennedy ucciso a Dallas e Ronald Reagan scampato per miracolo all’attentato di Washington? registi diversi, probabilmente. Se quelli sono stati drammi moderni degni di grandissimi registi da Oscar, qui sembra essere sceso in campo lo sceneggiatore di Walker Texas Ranger…
Ora la campagna del Grand Old Party repubblicano si indirizza su una strada ben marcata: Donald Trump, l’eroe ferito che non molla mai, fra condanne e sparatorie. Come i democratici sapranno replicare a questa nuova figura, incancellabile, non è semplice da immaginare e molti ormai, nello stesso partito, contano preoccupati i giorni della scelta imminente.
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Mondo
Khaby Lame espulso dagli USA. Invidia o sgarbo? L’influencer Maga rivendica il merito
Bo Loudon, amico di Barron Trump, afferma di aver orchestrato l’espulsione del tiktoker: “Nessuno è al di sopra della legge”.

C’è del clamore mediatico attorno alla recente espulsione dagli Stati Uniti di Khaby Lame. Il popolare tiktoker italo-senegalese, che con il suo stile minimalista ha conquistato oltre 162 milioni di follower, è stato preso di mira. Dietro il provvedimento della sua espulsione c’è un nome sorprendente: Bo Loudon. Il giovane influencer legato alla famiglia Trump, presunto migliore amico di Barron, figlio minore dell’ex presidente è noto per la sua vicinanza ai circoli conservatori americani. Loudon ha rivendicato apertamente di aver avuto un ruolo determinante nell’espulsione. In una serie di post su X, ha dichiarato di aver “preso personalmente provvedimenti” per far sì che il 25enne venisse fermato. Ha lavorato “con i patrioti dell’amministrazione Trump” per ottenere l’arresto del tiktoker all’aeroporto di Las Vegas.
Loudon vs. Lame. una rivalità tra Tiktoker?
Secondo le autorità, Lame sarebbe rimasto oltre la scadenza del suo visto temporaneo. Lame è entrato negli USA il 30 aprile per partecipare al Met Gala a New York il 5 maggio. E’ stato fermato dagli agenti dell’US Immigration and Customs Enforcement (ICE) il 6 giugno allo scalo Harry Reid. Gli è stata concessa la “partenza volontaria”, lasciando così il Paese senza ulteriori conseguenze legali. Loudon, da parte sua, esulta per l’operazione: “Nessuno lavora più velocemente dell’amministrazione Trump“, ha scritto, sottolineando il ruolo che lui e Barron Trump avrebbero avuto nel garantire l’applicazione della legge.
Dal comitato elettorale a poliziotto
L’influencer di Palm Beach, nonostante la giovane età, è stato reclutato ufficiosamente nel team elettorale di Donald Trump. Il suo compito è quello di intercettare il voto della Generazione Z e il cosiddetto “bro vote”, ovvero il consenso dei giovani uomini americani. Ma dietro questo attivismo politico, alcuni vedono anche un velato sentimento di invidia. Lame è una star internazionale, mentre Loudon, pur vicino ai circoli di potere, resta una figura controversa e di nicchia. Il sospetto che questa espulsione sia stata motivata più da personalismi che da una reale emergenza legale è stato sollevato da diversi osservatori, soprattutto in un momento in cui Trump è alla ricerca di consensi tra i giovani. E Lame che fa? Risponderà? Forse sceglierà il silenzio e un’espressione sarcastica per dire tutto senza dire nulla.
Mondo
“Mi sono alzato tra le fiamme e ho cominciato a correre”: il racconto dell’unico sopravvissuto alla strage di Ahmedabad
“Non so come sia possibile, ma sono uscito vivo da lì”. Si chiama Vishwash Kumar Ramesh, ha 40 anni, la cittadinanza britannica e una famiglia a Londra. È l’unico sopravvissuto al disastro del Boeing Air India precipitato ad Ahmedabad. Il volo, diretto nel Regno Unito, si è schiantato poco dopo il decollo, provocando 240 morti. Il suo racconto, tra dolore e incredulità, arriva da un letto d’ospedale, dove è ricoverato con ustioni al volto, al petto e agli arti.

Vishwash non riesce a darsi una spiegazione, e forse non la troverà mai. Il boato, le fiamme, il buio, poi il silenzio. “Si è capito che qualcosa non andava a pochissimi secondi dal decollo”, ha raccontato. Prima un forte rumore, poi lo scoppio, un tonfo improvviso. E in un attimo, tutto intorno a lui è stato fuoco. Non c’è stato il tempo per gridare. Né per pensare.
Era seduto al posto 11A, accanto al portellone di emergenza. Forse è stato questo a salvarlo. Quando ha riaperto gli occhi, era ancora vivo. Ustionato, confuso, ma vivo. “Mi sono alzato tra le fiamme e ho cominciato a correre, tra lamiere e corpi senza vita, cercando disperatamente un’uscita”. In tasca aveva ancora la carta d’imbarco. L’ha mostrata ai soccorritori come se fosse un talismano, una prova fisica di un passaggio rimasto inspiegabilmente aperto tra la vita e la morte.
Nelle sue parole, spezzate dalla fatica e dal dolore, c’è un’immagine che torna più volte: quella dei passeggeri davanti a lui. Un’hostess, una coppia di anziani, e suo fratello Ajay. “Sono morti tutti davanti ai miei occhi”, ha detto. Il fratello, 45 anni, era accanto a lui. Viaggiavano insieme, di ritorno da una breve visita ai parenti. Avevano preso quel volo per tornare a casa, in Gran Bretagna, dove vivono da vent’anni. Uno solo è sopravvissuto.
Il racconto prosegue come un sogno spezzato. “Mi muovevo quasi senza capire. C’erano pezzi dell’aereo ovunque, fumo, odore di carburante. A un certo punto ho visto qualcuno venirmi incontro. Poi l’ambulanza”. L’aereo, carico di cherosene per il lungo viaggio, ha preso fuoco subito dopo l’impatto con un edificio nei pressi dell’aeroporto. Era un ostello per studenti di medicina: tra le vittime, almeno cinque giovani che dormivano nelle stanze investite dalle lamiere.
Vishwash ha provato a ricostruire quei secondi prima dello schianto. Secondo lui, qualcosa è andato storto appena dopo il decollo. “Sembrava che l’aereo si fosse fermato a mezz’aria. Poi ho visto accendersi luci verdi e bianche. I piloti hanno cercato di riprendere quota, ma non c’è stato niente da fare. È andato giù di colpo, a tutta velocità”. Quando l’aereo si è inclinato, il caos ha preso il sopravvento. I passeggeri si sono stretti ai sedili, molti hanno urlato. Lui ha stretto la cintura, poi il resto è venuto da sé.
Dall’ospedale civile di Asarwa, dove è ricoverato, Vishwash ha parlato con un cronista del quotidiano Hindustan Times, ma anche con i giornalisti di NDTV. Ha raccontato tutto, senza cercare un senso. “La morte di mio fratello spezzerà il cuore alla nostra famiglia. Io ringrazio gli dei per il miracolo che mi ha salvato, ma porterò per sempre nel cuore questa tragedia”.
Il posto 11A, accanto alla porta d’emergenza, è diventato un simbolo. Lo citano i medici, i cronisti, i soccorritori. È lì che sedeva l’unico sopravvissuto di un volo che non doveva finire così. È lì che, tra fumo, fuoco e lamiere, si è aperto un varco impossibile tra la fine e la vita.
Mondo
Trump umiliato da un giudice: la Guardia Nazionale deve tornare alla California
Gavin Newsom vince in tribunale: Trump ha superato i limiti costituzionali nel dispiegare la Guardia Nazionale. Il presidente dovrà restituire il controllo delle truppe allo Stato. La Casa Bianca grida all’abuso giudiziario, ma il danno politico è fatto.

Un altro schiaffone per Donald Trump. Non dalle urne, non dai democratici, ma direttamente da una corte federale. Il giudice Charles Breyer, togato di lungo corso a San Francisco, ha deciso che l’ex presidente ha agito in violazione della Costituzione quando ha ordinato il dispiegamento della Guardia Nazionale in California.
In particolare a Los Angeles, dove ha inviato le truppe per presidiare edifici federali e reprimere le proteste, scavalcando il governo statale.
La sentenza – 36 pagine fitte e giuridicamente inappellabili – è una vittoria fragorosa per Gavin Newsom, governatore democratico della California, che aveva citato in giudizio l’ex presidente all’inizio della settimana.
Un atto che sembrava solo politico, e invece ha trovato pieno accoglimento in tribunale. Breyer ha scritto nero su bianco che Trump ha oltrepassato i limiti del suo potere e violato il decimo emendamento, quello che garantisce agli Stati l’autonomia su tutto ciò che non è espressamente demandato al governo federale.
La sentenza è destinata a far rumore. Anche perché Trump, da comandante in capo, ha sempre rivendicato il diritto assoluto di impiegare la Guardia Nazionale come strumento d’ordine pubblico, anche contro il parere degli Stati. L’amministrazione ha già annunciato ricorso, parlando di “straordinaria intrusione nei poteri presidenziali”.
Il Dipartimento di Giustizia ha chiesto la sospensione della sentenza, sostenendo che il presidente ha il diritto, quando lo ritiene necessario, di mobilitare le truppe statali per proteggere i funzionari e gli edifici federali.
Ma il danno d’immagine è fatto. L’ex presidente si ritrova ancora una volta nell’angolo, accusato di autoritarismo, di scavalcare la democrazia locale per piegarla a fini di propaganda. Gavin Newsom lo ha scritto chiaramente su X: “Un tribunale ha confermato ciò che tutti sappiamo: l’esercito non appartiene alle strade delle nostre città. Trump deve porre fine all’inutile militarizzazione di Los Angeles. Se non lo farà, confermerà le sue tendenze autoritarie”.
Il caso politico è tutt’altro che chiuso. Trump continua a riproporsi come uomo forte, deciso, pronto a usare ogni leva del potere per mostrare muscoli e disciplina, anche se in violazione delle regole. Ma il giudice Breyer gli ha ricordato che negli Stati Uniti il potere ha un limite, e quel limite si chiama Costituzione.
Newsom, da parte sua, cavalca l’onda della vittoria: non è più solo il governatore glamour della California progressista, ma il volto di una resistenza istituzionale all’ex presidente. La sua stoccata finale: “Se Trump vuole usare i soldati, lo faccia nelle fiction di Hollywood, non nella realtà democratica americana”.
E stavolta, il giudice lo ha detto chiaro: quel potere non gli appartiene.
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