Animali
Dopo la zanzara del West Nile ci mancava la mosca killer: ormai sembra di vivere in un film horror
Un nuovo incubo sembra uscito da un film horror: la Cochliomyia hominivorax, meglio conosciuta come Mosca Carnivora o verme del Nuovo Mondo, ha causato la sua prima vittima umana, una ragazza di 19 anni in Costa Rica.
Dopo gli oltre dieci morti provocati dal virus West Nile trasmesso dalle zanzare, ora nell’estate degli italiani arriva un altro mostro da film horror. C’è molta paura per questa mosca carnivora che sta diventando un nuovo incubo uscito dritto da un film horror. Si chiama la Cochliomyia hominivorax, meglio conosciuta come Mosca Carnivora o verme del Nuovo Mondo, ha causato la sua prima vittima umana, una ragazza di 19 anni in Costa Rica. Questo episodio ha suscitato grande preoccupazione tra le autorità sanitarie.
Che cos’è la mosca carnivora?
La Cochliomyia hominivorax è un parassita le cui larve si nutrono di tessuti vivi di animali a sangue caldo. Questa specie è originaria dei tropici del Nuovo Mondo, ma esiste una specie simile nel Vecchio Mondo. A differenza di altre mosche, le sue larve si insediano nei tessuti vivi e sani, causando gravi danni tramite un’infestazione chiamata “miasi”.
Ciclo vitale e infestazione
Le femmine di questa mosca depongono dalle 250 alle 500 uova nei tessuti degli ospiti. Le larve, una volta schiuse, si nutrono dei tessuti circostanti, penetrando sempre più in profondità. L’intero ciclo vitale della mosca dura circa 20 giorni, durante i quali le larve possono causare danni significativi, potenzialmente letali, ai tessuti dell’ospite. Sebbene gli animali siano le vittime principali, anche gli esseri umani possono essere colpiti.
Quali sono i sintomi del morso e come prevenire
L’infezione da Cochliomyia hominivorax provoca sintomi come dolore, prurito, eritema e noduli. È fondamentale riconoscere questi segnali per intervenire tempestivamente con farmaci appropriati. Rispetto ad altre specie carnivore, questa mosca può devastare anche i tessuti interni dell’ospite, causando danni di grave entità.
Autorità sanitarie in allerta
Nonostante non siano stati trovati esemplari di Cochliomyia hominivorax al di fuori delle aree endemiche, la globalizzazione e i cambiamenti climatici aumentano il rischio di diffusione di specie non native. Le autorità sanitarie sono in allerta per prevenire eventuali infestazioni sul nostro territorio.
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Animali
Dentro o fuori? Perché il gatto cambia idea davanti alla porta
Un comportamento che fa sorridere e disperare milioni di proprietari: il continuo avanti e indietro dei gatti tra casa e giardino ha spiegazioni precise.
Chi vive con un gatto lo conosce bene: graffia alla porta per uscire, poi miagola subito per rientrare. Una volta dentro, dopo pochi minuti, eccolo di nuovo davanti all’uscio, come se non avesse ancora deciso dove stare. Un atteggiamento che può sembrare un dispetto o un capriccio, ma che in realtà affonda le radici nella biologia e nel comportamento naturale del gatto domestico.
Il gatto è un animale territoriale (ma prudente)
A differenza del cane, il gatto è un animale fortemente territoriale. Anche se vive in appartamento, percepisce la casa come una parte del proprio dominio e l’esterno come un’area da controllare. Entrare e uscire non significa scegliere un luogo migliore, ma monitorare due ambienti diversi, verificando che tutto sia sotto controllo.
Quando è fuori, il gatto resta esposto a rumori, odori e potenziali minacce. Il rientro in casa rappresenta una zona sicura. Al contrario, una volta dentro, nuovi stimoli esterni — un rumore, un altro animale, un odore interessante — possono riattivare la curiosità e spingerlo di nuovo fuori.
Istinto di controllo e bisogno di sicurezza
Secondo gli etologi, il gatto tende a mantenere sempre una via di fuga. Sapere di poter entrare o uscire quando vuole riduce lo stress e gli dà un senso di controllo sull’ambiente. Questo comportamento è particolarmente evidente nei gatti che hanno accesso libero all’esterno o che vivono in zone con giardini e cortili.
Non si tratta di indecisione, ma di una strategia adattiva: il gatto valuta continuamente se l’ambiente in cui si trova è quello più vantaggioso in quel preciso momento, dal punto di vista termico, sensoriale o di sicurezza.
Temperatura, odori e stimoli cambiano tutto
Un altro fattore spesso sottovalutato è il microclima. I gatti sono molto sensibili alla temperatura: possono uscire per prendere aria fresca e rientrare pochi minuti dopo se percepiscono freddo, vento o umidità. Allo stesso modo, un odore nuovo — come il passaggio di un altro animale — può spingerli a esplorare, mentre un rumore improvviso li induce a cercare rifugio.
Anche la luce gioca un ruolo importante: l’alba e il tramonto sono i momenti in cui i gatti sono naturalmente più attivi, perché coincidono con i picchi di attività delle prede in natura.
È un comportamento normale?
Sì. Gli esperti di comportamento felino concordano sul fatto che questo atteggiamento rientra nella normalità assoluta, soprattutto nei gatti adulti non sterilizzati o in quelli particolarmente curiosi e vigili. Diventa invece un campanello d’allarme solo se accompagnato da segnali di stress, vocalizzazioni eccessive o cambiamenti improvvisi delle abitudini.
Come gestire la situazione senza stress
Per ridurre il continuo avanti e indietro, i veterinari consigliano di arricchire l’ambiente domestico con giochi, tiragraffi e punti di osservazione, come mensole o finestre sicure. Se possibile, una gattaiola consente all’animale di gestire autonomamente i propri spostamenti, diminuendo la frustrazione — la sua e quella del proprietario.
In definitiva, il gatto che vuole uscire quando è dentro e rientrare quando è fuori non è confuso né viziato. Sta semplicemente facendo ciò che la sua natura gli impone: controllare il territorio, valutare gli stimoli e scegliere, momento per momento, dove sentirsi più al sicuro. Un piccolo promemoria quotidiano di quanto l’istinto resti vivo anche nei felini più domestici.
Animali
Cani, molto più che compagni: la scienza riscrive i confini della loro intelligenza
Le ricerche degli ultimi anni mostrano che i nostri amici a quattro zampe sono capaci di riconoscere centinaia di parole, comprendere gesti complessi e perfino prendere decisioni autonome.
Per lungo tempo i cani sono stati considerati animali intelligenti, sì, ma entro confini relativamente semplici: fedeli esecutori di comandi, abili nell’interpretare il tono della voce e il linguaggio del corpo umano. Le ricerche contemporanee, però, stanno completamente ridisegnando questo quadro, mostrando una complessità cognitiva che avvicina i cani a primati e bambini piccoli in diverse abilità.
Uno dei casi più noti è quello di Chaser, un Border Collie studiato dalla Wofford College negli Stati Uniti, che nel corso di anni di addestramento ha memorizzato più di 1.000 nomi di oggetti. Chaser non solo sapeva riconoscerli, ma era capace di distinguerli in base alla categoria e comprendere nuovi termini tramite esclusione, una competenza che negli umani compare attorno ai 2-3 anni di età.
Questo caso non è isolato. Studi condotti alla Eötvös Loránd University di Budapest — tra i principali centri mondiali per la cognizione canina — hanno mostrato che molti cani riescono a distinguere fino a 200-250 parole, tra nomi, comandi e semplici frasi. Si tratta di numeri paragonabili a quelli osservati in alcune specie di pappagalli e primati.
Il linguaggio umano? I cani lo ascoltano davvero
Le neuroscienze hanno confermato ciò che i proprietari sospettano: i cani non reagiscono solo alla voce del loro umano, ma elaborano i suoni in modo simile a noi. Una ricerca apparsa su Science ha dimostrato che il cervello dei cani processa intonazione e significato attraverso aree simili a quelle della nostra corteccia uditiva. In altre parole, non si limitano a riconoscere un suono: provano a capirlo.
Inoltre sanno leggere con precisione i gesti, molto più dei primati. Puntare il dito verso un oggetto è un comportamento che scimpanzé e gorilla interpretano solo in presenza di addestramento intensivo, mentre i cani lo comprendono spontaneamente fin da cuccioli: una conseguenza probabilmente del loro lungo percorso evolutivo accanto all’uomo.
Problem solving, memoria e decisioni autonome
L’intelligenza canina non si limita al linguaggio. Diversi studi indicano che:
- dispongono di memoria episodica, cioè la capacità di ricordare eventi specifici, come dimostrato da esperimenti della ricercatrice Claudia Fugazza;
- adottano strategie di problem solving, imparando a risolvere piccoli rompicapo e adattando il comportamento se la ricompensa cambia;
- mostrano forme di empatia e prosocialità, come il tentativo di consolare un umano in difficoltà.
Non sono abilità isolate: emergono in molte razze e incroci, segno che l’intelligenza del cane non è un talento esclusivo dei Border Collie o dei cani da lavoro, ma una caratteristica diffusa.
Un legame che ha plasmato due specie
Gli etologi concordano sul fatto che una parte significativa dell’intelligenza canina derivi dalla co-evoluzione con l’uomo. Per almeno 15.000 anni cani e umani hanno condiviso ambienti, attività, necessità emotive. Questo rapporto ha favorito lo sviluppo di abilità sociali raffinate, come l’interpretazione delle espressioni facciali e la capacità di collaborare in modo naturale.
Non è un caso che molte competenze cognitive dei cani emergano soprattutto in contesti cooperativi, quando comunicano, lavorano o giocano con noi.
Più intelligenti di quanto immaginiamo
La ricerca scientifica continua ad ampliare ciò che sappiamo sulla mente canina: ogni anno emergono nuovi studi su linguaggio, memoria e capacità sociali. L’immagine che ne ricaviamo è chiara: i cani non sono semplici esecutori di comandi, ma animali cognitivamente complessi, capaci di costruire significati, ricordare, imparare e — soprattutto — di comprendere noi umani con una sensibilità sorprendente.
E forse è proprio questo a renderli così speciali: la loro intelligenza non è solo misurabile in numeri o parole riconosciute, ma vive nel legame unico che sanno creare.
Animali
Microchip per animali domestici: come funziona e perché è indispensabile
Un dispositivo grande come un chicco di riso garantisce identità, sicurezza e tutela. Eppure molti proprietari non sanno davvero cosa contiene, come si installa e perché è obbligatorio.
Il microchip è un dispositivo elettronico minuscolo, delle dimensioni di un chicco di riso, inserito sottopelle dagli ambulatori veterinari. Per gli animali domestici rappresenta la “carta d’identità” che li accompagna per tutta la vita. In Italia è obbligatorio per i cani, mentre per i gatti l’obbligo è in costante crescita: molte Regioni lo hanno già introdotto per legge, altre stanno seguendo questa direzione per contrastare abbandoni e smarrimenti.
Come funziona il microchip
Il microchip non è un GPS, non invia segnali e non permette di localizzare l’animale in tempo reale. È un transponder passivo: contiene un codice numerico unico, composto da 15 cifre, che viene letto con uno scanner dai veterinari, dalla polizia locale e dalle associazioni di recupero animali.
Una volta letto il codice, gli operatori accedono alla banca dati dell’Anagrafe Animali d’Affezione per risalire al proprietario registrato.
L’inserimento: una procedura rapida e indolore
L’applicazione del microchip viene eseguita dal veterinario mediante una siringa sterile a uso singolo. L’impianto avviene nella zona del collo e dura pochi secondi. Non richiede anestesia e provoca un fastidio minimo, spesso paragonabile a una semplice vaccinazione.
Il dispositivo non necessita di manutenzione, non deve essere cambiato e rimane attivo per tutta la vita dell’animale.
Gli obblighi di legge
In Italia il microchip per i cani è obbligatorio dal 2004 e deve essere applicato entro 60 giorni dalla nascita o entro 30 giorni dal momento dell’adozione. L’animale viene automaticamente iscritto all’Anagrafe regionale.
Il proprietario è tenuto ad aggiornare i dati in caso di:
- cambio di indirizzo
- trasferimento in un’altra Regione
- cessione a un nuovo proprietario
- decesso dell’animale
Anche per molti gatti le Regioni hanno già introdotto l’obbligo (per esempio Lazio, Lombardia e Campania). La tendenza normativa nazionale punta verso una microchippatura generalizzata per contrastare il randagismo, un problema che ogni anno coinvolge migliaia di animali.
Perché il microchip salva vite
Quando un animale si perde, il microchip è lo strumento più efficace per riportarlo a casa. Secondo i dati delle principali ASL veterinarie, oltre il 70% dei cani microchippati viene restituito ai proprietari entro poche ore dal ritrovamento, mentre la percentuale crolla per gli animali privi di identificazione.
Il dispositivo è fondamentale anche in caso di furto, maltrattamenti o incidenti: permette di identificare il responsabile e garantire all’animale le cure necessarie.
I falsi miti più diffusi
Ancora oggi circolano molti pregiudizi. Tra i più comuni:
- “Il microchip fa male o provoca tumori”: gli studi scientifici disponibili indicano che i casi di reazioni avverse sono estremamente rari e non esiste evidenza di correlazione con tumori nei cani e gatti domestici.
- “Serve a localizzare l’animale via satellite”: in realtà non è un sistema di tracciamento.
- “Si può disattivare o togliere facilmente”: rimuoverlo è complesso e contro la legge.
- “È costoso”: l’impianto ha un prezzo accessibile e spesso è incluso nei programmi di adozione dei canili.
Una responsabilità verso chi non parla
Microchippare un animale non è solo un obbligo, ma un atto di responsabilità. Significa garantirgli identità, tutela e un futuro più sicuro. Chi sceglie di convivere con un pet decide di proteggerlo — e questo piccolo dispositivo è il primo passo per farlo davvero.
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