Sic transit gloria mundi
Migranti in Albania: il caro flop del governo Meloni. Un miliardo speso per 24 trasferimenti respinti dal tribunale
Con 42.466 euro per migrante e quasi 600 mila euro in spese logistiche, l’operazione voluta dal governo Meloni appare come una spesa spropositata e inefficace, sotto il fuoco delle critiche italiane ed europee.

Il “modello Albania”, sbandierato come il fiore all’occhiello della politica migratoria del governo Meloni, sembra essersi rivelato un costosissimo boomerang. Il protocollo siglato con il premier albanese Edi Rama prometteva un’efficace gestione dei migranti irregolari, ma i numeri parlano chiaro: a fronte di una previsione di spesa che sfiora il miliardo di euro, solo 24 persone sono state effettivamente trasferite. Per poi essere riportate indietro dopo lo stop del tribunale alla loro “detenzione” oltremare. Non solo, i costi per ogni singolo migrante si aggirano intorno agli 85 mila euro, una cifra che difficilmente trova giustificazione se non nel caos e nell’inefficacia.
Un flop milionario tra Shengjin e Gjader: costi alle stelle e giudici sul piede di guerra
Secondo le stime, quasi 600 mila euro sono stati bruciati solo per vitto, alloggio e diarie delle forze di polizia coinvolte nel progetto. Se aggiungiamo il trasporto e i costi di mantenimento dei migranti, il conto è astronomico. Per i 24 migranti trasferiti, l’Italia ha speso 42.466 euro a testa solo per il viaggio, rendendo ogni operazione più simile a un lussuoso tour organizzato che a un’efficace politica migratoria. Ma i conti non finiscono qui: il governo è ora di fronte a una realtà amarissima, aggravata dalla recente decisione dei giudici italiani e dalla Corte di giustizia europea, che hanno respinto la convalida dei trattenimenti in Albania per sette migranti egiziani e bengalesi. Insomma, un intervento destinato, di fatto, al fallimento.
“Un miliardo buttato via”: l’attacco di Alfonso Colucci e le critiche di Laura Boldrini
Mentre l’Italia è impegnata nei sacrifici previsti dalla nuova legge di bilancio, questo progetto migratorio sembra un pozzo senza fondo. Alfonso Colucci, deputato del Movimento 5 Stelle, non ha risparmiato critiche al governo, puntando il dito contro «il miliardo di euro speso per una partita propagandistica che si è rivelata un clamoroso flop». Allo stesso modo, Laura Boldrini, giunta in Albania per ispezionare i centri di accoglienza, ha sottolineato come i migranti, molti dei quali sono stati intercettati in acque internazionali, non siano né clandestini né criminali: «Sono persone fatte rimbalzare come palline da ping pong in un gioco che è solo politico», ha dichiarato l’ex presidente della Camera, accusando il governo di voler usare i migranti come pedine in una strategia che, piuttosto che modello, è un esempio di cattiva gestione.
Tanzariello (CIR): «Migranti stressati e disorientati, iter di trasferimento traumatico»
Donatella Tanzariello, del Consiglio italiano per i rifugiati, ha espresso preoccupazione per l’impatto psicologico di questi trasferimenti, che sottopongono i migranti a iter stressanti e procedure accelerate subito dopo il trauma del viaggio in mare. “Gli ospiti del centro di Gjader – ha spiegato – si trovano in condizioni di forte disagio, lontani dalle loro aspettative e spaesati in un contesto nuovo e ostile”. Parole che dipingono un quadro preoccupante di un progetto costoso e mal pianificato, che finora ha portato più tensione che risultati.
Una politica che mortifica e spreca: chi pagherà il conto?
Mentre migliaia di migranti continuano a sbarcare a Lampedusa e nei porti italiani, l’operazione in Albania rischia di diventare un simbolo dello spreco e dell’inadeguatezza. Un miliardo di euro per un progetto che è riuscito a trasferire appena 24 persone è un prezzo altissimo per una propaganda vuota, e a pagarlo saranno gli italiani. Intanto, a Roma, il governo attende con ansia la decisione del Tribunale sulla convalida dei trattenimenti, ma la strada sembra ormai tracciata: l’Italia ha speso cifre esorbitanti per un piano che, dati alla mano, ha fallito.
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Sic transit gloria mundi
Santa Rita De Crescenzo vergine e martire (del trash televisivo e dei suoi stessi followers)

Ogni epoca ha i suoi santi. Noi, che non ci facciamo mancare nulla, abbiamo Rita De Crescenzo: patrona delle punturine di acido ialuronico, del silicone spacciato per estetica e dei monologhi social che neppure alla recita dell’asilo. «Ho paura, basta odio, basta violenza mediatica», piagnucola oggi la tiktoker partenopea, appena il sindaco di Castel Volturno le ha cancellato uno show. Una Madonna del trash che si immola sull’altare della visibilità, con tanto di rosario fatto di stories Instagram.

Il problema, però, non è lei. È la folla che l’applaude. Migliaia di followers che la venerano nonostante accuse di spaccio per conto del clan Elia, minacce a un deputato («Devo essere il tuo incubo, è arrivata l’ora che ti distrugga io»), video dove la cultura del nulla diventa linguaggio quotidiano. Santa Rita del degrado non canta, non balla, non recita. Non sa fare assolutamente niente, eppure è riuscita a trasformare l’ignoranza in un titolo di studio, il pressapochismo in curriculum, l’urlato in vangelo.

La sua difesa? «Sono una donna, una madre, una persona come tutte le altre». Tutte le altre chi? Quelle che fanno dei filtri TikTok un manifesto politico? Quelle che credono che il talento consista nel mettersi una minigonna fluorescente e ripetere frasi sconnesse in diretta?
Il miracolo è che funziona: più la criticano, più sale. Più le istituzioni le chiudono le porte, più diventa martire. È la beatificazione trash: non serve saper cantare, scrivere, pensare. Serve piangere davanti a una telecamera, gonfiare le labbra fino a sembrare canotti e agitare le mani in aria come se fossero ali d’angelo caduto.




Chi la segue, in fondo, non cerca un’artista. Cerca un’icona dell’idiozia elevata a forma d’arte, un simbolo che rassicura: “se ce l’ha fatta lei, posso farcela anch’io”. E infatti ce l’ha fatta. A diventare il monumento vivente di un Paese che si inchina al nulla e lo incorona.
Meritiamo l’estinzione? Sicuramente. Ma tranquilli: prima dell’apocalisse ci sarà la sua prossima diretta online di Santa Rita, e sarà sold out.

Sic transit gloria mundi
Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”
Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.
Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.
Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.
Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.
Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.
Sic transit gloria mundi
Il Senato salva Sangiuliano dal processo per la “chiave di Pompei”: 112 voti bastano a fermare l’accusa di peculato
Il caso ruotava attorno al simbolico omaggio di Pompei finito in un regalo privato. La Giunta per le immunità ha riconosciuto l’atto come compiuto nell’interesse pubblico e non come reato ordinario. I legali dell’ex ministro ricordano che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che la chiave era stata acquistata e pagata, diventando sua proprietà.

Palazzo Madama ha fatto scudo all’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, bloccando il processo per peculato che rischiava di aprirsi attorno alla “chiave d’onore” di Pompei. Con 112 voti favorevoli e 57 contrari, l’aula del Senato ha respinto l’autorizzazione a procedere, accogliendo la linea della Giunta per le immunità: il gesto di donare la chiave a Maria Rosaria Boccia non costituirebbe reato ordinario, ma un atto riconducibile all’esercizio della funzione di governo e al perseguimento di un interesse pubblico preminente.
La vicenda aveva incuriosito l’opinione pubblica nei mesi scorsi, trasformandosi in un caso mediatico: la chiave, simbolo del legame con la città archeologica, era stata regalata dall’ex ministro a una conoscente, scatenando polemiche e sospetti di appropriazione indebita. I difensori di Sangiuliano hanno sempre sostenuto la piena legittimità dell’operazione, ricordando che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che, tramite la procedura prevista dalla legge, l’ex ministro aveva acquistato e pagato l’oggetto, diventandone il proprietario a tutti gli effetti.
Il voto in aula è arrivato dopo una giornata di interventi accesi, tra ironie e schermaglie politiche. Il leghista Gian Marco Centinaio ha scherzato in diretta: «Lasciamo i colleghi nella suspense… Sim Salabim!», strappando un sorriso in un dibattito altrimenti teso.
Non solo Sangiuliano: nella stessa seduta, Palazzo Madama ha affrontato altre questioni di immunità parlamentare. Maurizio Gasparri ha incassato il via libera dell’aula sulla sua insindacabilità per le frasi rivolte al magistrato Luca Tescaroli nel 2023, giudicate collegate ad atti parlamentari come interrogazioni e interventi in aula. A favore hanno votato 117 senatori, mentre 23 – tra M5s e Avs – hanno detto no.
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