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Sic transit gloria mundi

Dai “vaffa” al bon ton: Grillo, bye bye, il Movimento 5 Stelle si trasforma nell’era di Giuseppi

Addio barricate e regole auree: il garante viene rottamato, il limite dei mandati cancellato e l’antipolitica
accantonata. Il blu pastello sostituisce il giallo acceso, mentre il Movimento si riscopre partito d’ordine.
La rivoluzione? Ora si fa con la pochette, educata e progressista.

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    Ecco fatto, il dado è tratto: il Movimento 5 Stelle non è più quello di una volta, ma forse non lo era già da
    un pezzo. Con l’assemblea costituente voluta da Giuseppe Conte, gli iscritti hanno deciso: Beppe Grillo
    può tranquillamente farsi da parte. Il fondatore, il visionario, il profeta dei “Vaffa” è stato silenziosamente
    archiviato, e al suo posto è nato un Movimento più sobrio, educato e, diciamocelo, incredibilmente
    noioso. L’era del “Grillo parlante” ha lasciato spazio all’era Giuseppi, dove la parola d’ordine non è più
    “rivoluzione”, ma “integrazione”. Addio barricate, benvenute alleanze.
    Non è un’epurazione ufficiale, ovvio: è tutto molto elegante, persino istituzionale. Ma non serve un
    analista politico per capire che l’operazione è chiara. Grillo, ormai figura ingombrante e politicamente
    inservibile, è stato accompagnato verso l’uscita senza troppi clamori, sostituito da un organismo
    collegiale. Insomma, il Garante è stato derubricato a “vecchio zio” che si ascolta con rispetto, ma che
    nessuno prende più sul serio.
    Tra le prime vittime illustri di questa rivoluzione interna c’è la storica regola dei due mandati, una delle
    pietre miliari del grillismo delle origini. Quella che doveva essere la garanzia contro il professionismo
    politico è stata smantellata a colpi di plebiscito. Via libera alle deroghe per sindaci e presidenti di
    Regione, alla possibilità di ricandidarsi dopo una pausa di cinque anni e, perché no, alzare il limite a tre
    mandati.
    Conte ha giustificato la scelta con la sua solita aria professorale: “Vi siete stancati di combattere ad armi
    impari con gli altri partiti”. Traduzione: siamo passati dall’essere “cittadini prestati alla politica” a politici
    prestati all’eternità. Con buona pace dell’onestà intellettuale. La base, del resto, non ha battuto ciglio: il

    72,08% dei votanti ha detto sì alla modifica della regola, e il 70,61% ha approvato le ricandidature post-
    pausa. Evidentemente, il richiamo della poltrona è più forte di qualsiasi ideale.

    La vera bomba, anche se ampiamente prevista, è stata l’eliminazione del ruolo del Garante. Grillo,
    l’Elevato, l’uomo che ha trasformato uno sfogo da cabaret in un movimento politico capace di conquistare
    il governo, è stato messo da parte. Al suo posto, un organismo collegiale, approvato dal 63,24% degli
    iscritti. Una mossa che è un arrivederci definitivo al comico genovese, il cui carisma era diventato un
    ostacolo piuttosto che un vantaggio. La creatura, come nel migliore dei film di Frankenstein, si è ribellata
    al suo creatore: è il delitto perfetto. E Conte non ha neppure dovuto macchiarsi le mani.
    L’avvocato del popolo, in conferenza stampa, ha poi mostrato il suo lato più istituzionale, respingendo con
    eleganza qualsiasi ipotesi di scontro diretto con Grillo: “Non è mai stato uno scontro personale”, ha detto.
    Eppure le sue parole tradivano ben altro: “Non mi sarei mai aspettato che il nostro Garante si mettesse di
    traverso”. Una frase che, tradotta dal politichese, suona più come un: “Grazie Beppe, ma adesso basta.
    Bye bye”.
    Grillo, dal canto suo, si è arreso senza lottare e non si è neppure presentato all’assemblea. Nessun colpo di
    scena, nessuna arringa teatrale. Soltanto un silenzio assordante, che sancisce meglio di mille parole la fine
    del suo ruolo centrale. L’Elevato, il comico che sapeva infiammare le piazze e scuotere i palazzi, ha
    preferito il ritiro discreto. Forse non c’era altra scelta: il Movimento che lui e Gianroberto Casaleggio
    avevano creato non esiste più, sostituito da una creatura che parla il linguaggio degli accordi, delle
    coalizioni e della mediazione.
    L’assemblea ha sancito anche la svolta politica del Movimento. Addio al “né di destra né di sinistra”,
    addio all’autosufficienza e all’antipolitica. Ora il M5S è ufficialmente una forza di “progressisti
    indipendenti”, pronta a stringere alleanze programmatiche con chiunque stia abbastanza a sinistra da non
    sembrare Forza Italia. Il divieto di accordi politici è stato spazzato via dall’81,20% degli iscritti, un
    risultato che segna definitivamente il passaggio dal Movimento di lotta a quello di governo.
    E non è tutto: si parla anche di un possibile cambio di nome e simbolo. Il 78,65% dei votanti ha dato il via
    libera all’ipotesi, un altro segnale che il grillismo delle origini è ormai un ricordo lontano. Al posto del

    giallo acceso e delle stelle, potremmo presto vedere colori più sobri, magari un blu istituzionale,
    perfettamente in linea con l’immagine di un Conte che non urla, non sbraita, ma rassicura.
    Se c’è una cosa che questa assemblea ha chiarito, è che il nuovo M5S punta tutto sulla moderazione. In un
    aura di noia irresistibile. Niente più urla, niente più barricate, niente più scontri epici con giornalisti e
    avversari. Anche i contestatori interni, una sparuta trentina di attivisti nostalgici del Vaffa Day, sono stati
    gestiti con calma olimpica: niente cacciate plateali, solo pacche sulle spalle e un buffetto istituzionale.
    Il programma del “nuovo Movimento” è apparso persino interessante: sanità pubblica nazionale, fine vita,
    legalizzazione della cannabis, lotta all’evasione fiscale e creazione di un esercito europeo. Ma è difficile
    non notare quanto tutto questo suoni più come un Pd-bis che come un Movimento rivoluzionario. La
    platea, del resto, non era certo composta da barricadieri. Il pubblico dell’assemblea costituente, con i suoi
    temi e i suoi colori pastello, sembrava più adatto a una convention del Partito Democratico che a un
    incontro del Movimento 5 Stelle delle origini.
    Il Movimento di Giuseppi si avvia verso un futuro incerto, ma certamente più tranquillo. Sarà
    progressista, dialogante e, perché no, un po’ democristiano. Ma forse non importa più. L’Elevato non urla
    più. Il Movimento non è più un vento impetuoso, ma una brezza moderata. Per i nostalgici del Vaffa Day,
    questo è il funerale di un sogno. Per Conte, invece, è l’alba di una nuova era. Un’era che, probabilmente,
    durerà finché qualcuno non deciderà di cambiare di nuovo le regole. E allora, chissà, magari ci sarà un
    altro Garante a salutare con discrezione la propria creatura mentre si trasforma nell’ennesima copia
    sbiadita di ciò che non voleva essere. In definitiva, il Movimento 5 Stelle è morto. Al suo posto, è nato
    qualcosa di nuovo, di più moderato, di più prevedibile. Ma che forse, proprio per questo, non avrà mai lo
    stesso impatto di quel comico urlante che, almeno per un momento, seppe mettere a soqquadro la politica
    italiana.

    Luca Arnaù

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      Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”

      Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

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        Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.

        Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.

        Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.

        Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.

        Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.

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          Sic transit gloria mundi

          Il Senato salva Sangiuliano dal processo per la “chiave di Pompei”: 112 voti bastano a fermare l’accusa di peculato

          Il caso ruotava attorno al simbolico omaggio di Pompei finito in un regalo privato. La Giunta per le immunità ha riconosciuto l’atto come compiuto nell’interesse pubblico e non come reato ordinario. I legali dell’ex ministro ricordano che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che la chiave era stata acquistata e pagata, diventando sua proprietà.

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            Palazzo Madama ha fatto scudo all’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, bloccando il processo per peculato che rischiava di aprirsi attorno alla “chiave d’onore” di Pompei. Con 112 voti favorevoli e 57 contrari, l’aula del Senato ha respinto l’autorizzazione a procedere, accogliendo la linea della Giunta per le immunità: il gesto di donare la chiave a Maria Rosaria Boccia non costituirebbe reato ordinario, ma un atto riconducibile all’esercizio della funzione di governo e al perseguimento di un interesse pubblico preminente.

            La vicenda aveva incuriosito l’opinione pubblica nei mesi scorsi, trasformandosi in un caso mediatico: la chiave, simbolo del legame con la città archeologica, era stata regalata dall’ex ministro a una conoscente, scatenando polemiche e sospetti di appropriazione indebita. I difensori di Sangiuliano hanno sempre sostenuto la piena legittimità dell’operazione, ricordando che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che, tramite la procedura prevista dalla legge, l’ex ministro aveva acquistato e pagato l’oggetto, diventandone il proprietario a tutti gli effetti.

            Il voto in aula è arrivato dopo una giornata di interventi accesi, tra ironie e schermaglie politiche. Il leghista Gian Marco Centinaio ha scherzato in diretta: «Lasciamo i colleghi nella suspense… Sim Salabim!», strappando un sorriso in un dibattito altrimenti teso.

            Non solo Sangiuliano: nella stessa seduta, Palazzo Madama ha affrontato altre questioni di immunità parlamentare. Maurizio Gasparri ha incassato il via libera dell’aula sulla sua insindacabilità per le frasi rivolte al magistrato Luca Tescaroli nel 2023, giudicate collegate ad atti parlamentari come interrogazioni e interventi in aula. A favore hanno votato 117 senatori, mentre 23 – tra M5s e Avs – hanno detto no.

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              Sic transit gloria mundi

              “Comunisti no, gay solo se non sculettano”. Il delirio dello chef stellato in cerca di personale

              Dalla nostalgia per la cucina “da caserma” agli insulti ai giovani cuochi, passando per i tatuaggi di Mussolini e la svastica: lo chef stellato Paolo Cappuccio racconta il suo personale concetto di rigore. Un concentrato di luoghi comuni, rancore sociale e arroganza padronale condito da accuse pesanti e zero autocritica.

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                C’è chi usa i social per condividere piatti e ricette. E poi c’è Paolo Cappuccio, chef napoletano classe 1977, che ha preferito farlo per pubblicare un post a metà tra la bacheca fascistoide e lo sfogo da bar sport. Il testo – rimosso dopo insulti e minacce di morte – vietava l’assunzione di «fancazzisti, comunisti, drogati, ubriachi e per orientamento sessuale». E ora lo chef stellato, lungi dal fare marcia indietro, rivendica ogni parola.

                «Da dopo il Covid i dipendenti fanno quello che vogliono», attacca. «Un cuoco arriva in ritardo e ti dice che se non ti va bene se ne va. Lo riprendi? Si mette in malattia. E il medico lo giustifica pure». Il quadro che dipinge è quello di un’Italia dove gli chef sono martiri e gli stagisti dei ricattatori seriali. Ma per Cappuccio la colpa non è solo dei giovani. È dei “comunisti”.

                «Il dipendente comunista lo riconosci subito», assicura con inquietante certezza. «Si lamenta della mensa, vuole sapere la tredicesima prima ancora di iniziare. Quelli di destra invece sono operosi e vogliono diventare titolari. La differenza è abissale». E pazienza se nel 2025 parlare così significa semplicemente fare propaganda da osteria.

                Poi ce l’ha con MasterChef, i “cuochi cocainomani del Nord”, i dipendenti con le “devianze sessuali”. E con chi? Con chi osa presentarsi col “pantalone calato” o, peggio, «con i tacchi a sculettare in cucina». Come si distingue, secondo lui, un gay accettabile da uno “sbagliato”? Non lo dice, ma lo fa capire. La linea è sottile, quanto una padella sporca: «Se sei serio e lavori, sei dei nostri. Altrimenti, no».

                Quando si parla dei tatuaggi – Mussolini, svastica, Altare della Patria – si passa dal ridicolo al tragico. «Se vietano la falce e martello mi cancello la svastica», dice con candore. «Per me è solo una protesta». Non contro la storia o i crimini del nazismo, ma «contro i radical chic che parlano di poveri e poi vanno in Costa Azzurra». Applausi. Ironici.

                «Siamo schiavi dei dipendenti», si lamenta ancora. Una frase che detta da un datore di lavoro suona quanto meno surreale, se non offensiva. Ma l’uomo non fa una piega. Anzi, rilancia: «Nel mio albergo ho beccato anche un pedofilo. Ma non l’ho potuto licenziare. Giusta causa? Non esiste».

                Che lo chef abbia avuto esperienze negative con parte del suo personale non è in discussione. Che la sua risposta sia un mix di disprezzo sociale, semplificazioni ideologiche e pregiudizi sessisti, purtroppo neppure. Se i giovani cuochi fuggono da brigate tossiche, forse una riflessione servirebbe. Ma a Cappuccio non interessa. Troppo impegnato a contare i “like” tra nostalgici e reazionari.

                E, si spera, a cancellare le prenotazioni di chi, la roba cucinata da uno chef così, non vuole neppure annusarla da lontano.

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