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Cronaca Nera

Massimo Bossetti, una battaglia infinita: la difesa insiste sui reperti del caso Yara mentre lui si ricostruisce una vita in carcere

Dal DNA trovato sul corpo di Yara Gambirasio alla vita dietro le sbarre, la vicenda giudiziaria di Massimo Bossetti continua a far discutere. La difesa punta tutto su nuovi esami, ma per ora la verità giudiziaria resta immutata

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    Il caso Yara Gambirasio, conclusosi nel 2018 con la condanna definitiva di Massimo Bossetti all’ergastolo, sembra non trovare pace. Gli avvocati del carpentiere di Mapello continuano a muoversi con determinazione per aprire spiragli di revisione del processo, puntando questa volta sull’accesso ai reperti custoditi all’Istituto di Medicina Legale di Milano e in altri luoghi.

    La richiesta è chiara: verificare quali campioni siano ancora disponibili e in che condizioni si trovino. Per la difesa, il DNA prelevato dal tassello femorale e dagli indumenti di Yara potrebbe contenere la chiave per ribaltare una verità giudiziaria che Bossetti ha sempre contestato.

    Un responso è atteso per l’udienza fissata il prossimo 13 gennaio.

    Il tribunale di Bergamo ha dato tempo fino al 15 dicembre agli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini per produrre i verbali di sequestro relativi ai reperti. Solo dopo aver esaminato questi documenti, la Corte deciderà se accogliere o meno la richiesta, e un responso è atteso per l’udienza fissata il prossimo 13 gennaio.

    La situazione potrebbe cambiare

    L’avvocato Salvagni ha ribadito: «Vogliamo capire quali reperti sono utilizzabili. Se le analisi aggiuntive confermeranno i risultati, ne prenderemo atto; ma se emergessero nuovi elementi, la situazione potrebbe cambiare».

    Parallelamente alla battaglia legale, Bossetti conduce una vita intensa nel carcere di Bollate, dove è detenuto dal 2019 dopo essere stato trasferito dalla struttura di Bergamo. Qui è diventato uno dei protagonisti del Progetto 2121, una partnership tra pubblico e privato che punta al reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso la formazione professionale.

    Bossetti lavora in carcere

    Dopo aver lavorato come tecnico rigeneratore di macchine per caffè espresso, Bossetti è stato assunto dalla Coimec, un’azienda specializzata in coibentazioni termoacustiche che opera all’interno del carcere.

    Oltre al lavoro, la quotidianità del detenuto è arricchita dalla partecipazione a concorsi di cucina, gare letterarie e progetti artistici. Secondo le sue stesse dichiarazioni, ogni attività è un modo per rendere il tempo più costruttivo e per continuare a sostenere economicamente la sua famiglia. Ma questa nuova routine non cancella il peso del passato.

    La moglie di Bossetti, Marita Comi, e i tre figli continuano a vivere un’esistenza segnata dalla vicenda giudiziaria. Nonostante la condanna definitiva, Marita non ha mai smesso di credere nell’innocenza del marito. A dar voce alla sua sofferenza è il fratello Agostino, che ha raccontato: «Mia sorella cerca di andare avanti, ma sa che la sua vita non tornerà mai normale. Quel fatto ha cambiato tutto».

    Intanto, la famiglia Gambirasio osserva con compostezza gli sviluppi legali. Il ricordo di Yara, 13enne trovata senza vita in un campo a Chignolo d’Isola, resta una ferita aperta. La battaglia legale sugli stessi reperti che hanno portato alla condanna di Bossetti riaccende inevitabilmente le emozioni legate a un caso che ha sconvolto l’Italia.

    Nonostante i tentativi della difesa, la giustizia sembra aver già parlato con chiarezza. Il DNA ritrovato sul corpo di Yara è stato considerato dalla Corte di Cassazione una prova schiacciante della colpevolezza di Bossetti. Tuttavia, l’accesso ai reperti potrebbe aprire nuovi scenari, e le aule di tribunale restano il teatro di una battaglia senza fine.

    La vicenda del carpentiere di Mapello è ormai un capitolo complesso della storia giudiziaria italiana, intrecciando prove scientifiche, indagini controverse e una lotta incessante per la verità. Ma tra le mura di Bollate, Bossetti si reinventa ogni giorno, tra il lavoro e una routine che cerca di trasformare il tempo vuoto in qualcosa di utile.

    Resta da vedere se il caso Yara conoscerà mai una conclusione definitiva, o se continuerà a essere un simbolo delle contraddizioni del sistema giudiziario.

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      Cronaca Nera

      Antonella Clerici si smarca dai talk sul caso Garlasco: “Non ce la farei a parlarne sempre”, la conduttrice rompe il silenzio

      Antonella Clerici interviene sul modo in cui il caso Garlasco viene trattato dalla tv italiana. «Io non ce la farei a parlare sempre della stessa cosa», afferma, lanciando un messaggio chiaro ai talk show che continuano a dedicare intere puntate al delitto. Un commento che riapre il dibattito sui limiti del racconto mediatico della cronaca nera.

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        Quando Antonella Clerici decide di entrare in un dibattito pubblico, lo fa con la schiettezza che la contraddistingue. Questa volta il tema è il caso Garlasco, tornato al centro dell’informazione televisiva con una frequenza quasi quotidiana. E la conduttrice, con la sua sincerità disarmante, ha preso posizione: «Io non ce la farei a parlare sempre della stessa cosa». Una frase che fotografa un malessere diffuso.

        Il peso della cronaca nei palinsesti
        La televisione italiana ha sempre avuto un rapporto complesso con la cronaca nera, ma il caso Garlasco ha superato ogni soglia di esposizione. Puntate speciali, approfondimenti, dibattiti infiniti: un’attenzione martellante che, secondo molti spettatori, rischia di trasformare il dolore in intrattenimento. La posizione di Clerici intercetta questa sensibilità e la amplifica.

        Una voce fuori dal coro
        Abituata a gestire programmi legati alla cucina, all’intrattenimento e alla quotidianità, Antonella rappresenta l’altra faccia della tv: quella che preferisce raccontare la vita, non dissezionare ossessivamente un delitto. La sua presa di distanza non è una critica diretta alle colleghe e ai colleghi dei talk, ma una riflessione personale su un linguaggio televisivo che sente distante.

        La reazione del pubblico
        Il suo commento è stato accolto con un misto di sollievo e approvazione. Molti spettatori si riconoscono nella fatica emotiva di seguire l’ennesima puntata identica alla precedente. Altri sottolineano come la tv abbia il potere di scegliere cosa raccontare e con quale equilibrio. In mezzo, il solito dibattito social che trasforma ogni frase in un caso.

        Una discussione più ampia sulla tv di oggi
        L’intervento della Clerici apre un varco su una questione più grande: cosa vuole davvero il pubblico? E soprattutto, cosa dovrebbe offrire la tv generalista nel 2025? La risposta, forse, è nella misura. E nelle parole di una conduttrice che non ha bisogno di forzare la mano per far passare un messaggio semplice e potentissimo.

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          Caso Garlasco, la perita smonta le certezze sul DNA: “Dati non affidabili”, compatibilità con Sempio ma con fortissime criticità scientifiche

          Nella relazione di 93 pagine la perita mette in fila limiti metodologici, contaminazioni, assenza di un database locale e profili genetici troppo degradati per conclusioni nette. Restano solo due compatibilità “moderate”, mentre sugli altri reperti sono presenti solo DNA di Chiara e Stasi.

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            La perizia sul DNA sotto le unghie di Chiara Poggi, attesa per mesi, non chiude il cerchio. Al contrario, apre un fronte di incertezze che la stessa esperta, Denise Albani, mette nero su bianco: le tracce genetiche estratte nel 2014 dall’allora perito De Stefano “non sono consolidate né affidabili dal punto di vista scientifico”.
            Materiale parziale, misto, degradato e mai sottoposto a verifica successiva. Su questo, la genetista non lascia margini di interpretazione. E tuttavia, applicando modelli biostatistici, arriva a una compatibilità della linea maschile di Andrea Sempio con due tracce rinvenute su due dita della vittima: un “supporto da moderatamente forte a forte” per una, “moderato” per l’altra.
            Ma la stessa Albani avverte: non è possibile rispondere a domande fondamentali come “come, quando e perché” quel materiale genetico sia stato depositato. Un limite che, in un processo, pesa come un macigno.

            Analisi biostatistiche tra limiti e assenze nei database

            La relazione spiega perché le valutazioni statistiche non possano essere considerate definitive: manca un database della popolazione locale, condizione ideale per stimare la frequenza reale di un dato profilo genetico.
            Per questo, la perita ha dovuto utilizzare gruppi molto più ampi: la metapopolazione europea e quella mondiale. Scelte obbligate, ma che possono produrre risultati “sottostimati” e comunque non riferibili con precisione al contesto di Garlasco.
            Non stupisce che sia la difesa di Sempio sia i consulenti della famiglia Poggi continuino a parlare di dati “non scientifici” e “non utilizzabili” in sede processuale. La battaglia tra esperti è solo all’inizio.

            Sugli altri reperti resta solo il DNA di Chiara e Stasi

            L’incidente probatorio conferma inoltre che sugli altri reperti non emergono elementi nuovi. Le sessanta impronte rinvenute nella villetta non restituiscono profili utili, e sugli oggetti recuperati in pattumiera compaiono esclusivamente il DNA di Chiara e quello di Stasi.
            Sul tappetino del bagno, ancora una volta, solo materiale genetico della studentessa e del padre. Nessuna traccia collegabile ad Andrea Sempio. Persino l’“ignoto 3”, per un periodo considerato possibile svolta, si rivela frutto di contaminazione autoptica.

            Un risultato che non chiude nulla

            La perita ricorda che gli aplotipi analizzati non sono identificativi e non permettono attribuzioni personali. La compatibilità con Sempio riguarda l’intera linea patrilineare: tutti i parenti maschi condividono quel profilo.
            Alla domanda decisiva — basterà questo per incriminarlo? — oggi la risposta è no. Non con questi dati, non con queste criticità, non con tracce così fragili.
            L’inchiesta prosegue, ma la scienza, per ora, non indica una verità univoca.

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              Caso Garlasco, i punti rimasti in ombra che tornano a pesare: perché i pm guardano ora ad Andrea Sempio

              L’inchiesta su Andrea Sempio, 37 anni, si fonda su sei elementi chiave: dal Dna sotto le unghie di Chiara Poggi all’“impronta 33”, passando per uno scontrino contestato e telefonate mai del tutto spiegate. Sullo sfondo, l’indagine di Brescia sulle presunte pressioni che avrebbero portato all’archiviazione del 2017

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                La nuova indagine sul caso Garlasco riparte da punti che per anni sono rimasti sospesi. La posizione di Andrea Sempio, 37 anni, amico del fratello di Chiara Poggi, torna al centro della scena giudiziaria con un fascicolo che la procura di Pavia considera molto diverso da quelli del passato. L’elemento più discusso riguarda il Dna trovato sotto le unghie della vittima: una corrispondenza con la linea maschile della famiglia Sempio emersa dall’incidente probatorio. La difesa non contesta la scienza, ma il significato: per gli avvocati si tratterebbe di un trasferimento indiretto, non di un segno di colluttazione. Le ipotesi parlano di un contatto accidentale, addirittura di residui rimasti in casa tramite un telecomando della Playstation o uno starnuto. Una lettura che la procura giudica improbabile.

                Al centro della nuova istruttoria c’è anche lo scontrino del parcheggio di Vigevano, presentato da Sempio nel 2008 come prova della sua presenza altrove la mattina del delitto. I nuovi accertamenti non solo ritengono il ticket inutilizzabile come alibi, ma dubitano che fosse effettivamente suo. Lo stesso Sempio, negli anni, aveva espresso rammarico per l’assenza di verifiche sulle telecamere dell’epoca, ma oggi la difesa considera quell’elemento “non sufficiente” a collocarlo lontano da via Pascoli.

                Il fascicolo riapre anche il tema delle telefonate effettuate alla famiglia Poggi. I tabulati mostrano varie chiamate nei giorni precedenti al delitto. Sempio aveva spiegato di aver cercato l’amico Marco o di aver sbagliato numero, ma all’epoca non furono acquisiti i suoi tabulati. Oggi la procura ritiene che quelle versioni non abbiano mai trovato riscontro.

                Tra gli aspetti tecnici, uno dei più rilevanti è la cosiddetta “impronta 33”, una traccia individuata sul muro della scala che porta al seminterrato. In passato considerata marginale, ora viene ritenuta compatibile con almeno 15 minuzie attribuibili a Sempio. Un dettaglio che, secondo gli investigatori, colloca una presenza maschile proprio nel punto in cui il corpo di Chiara venne trovato.

                Il nodo del movente resta invece coperto dal segreto istruttorio. Per anni l’assenza di un rapporto significativo fra Sempio e Chiara era stata considerata un ostacolo a qualunque ipotesi accusatoria. Ora gli inquirenti ritengono di aver individuato un possibile collegamento, ritenuto rilevante ma non ancora rivelato.

                Sul fondo della vicenda resta l’inchiesta della procura di Brescia sulla presunta corruzione legata alla precedente archiviazione del 2017. Un’indagine che coinvolge il padre di Sempio e l’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti. Non c’è un collegamento diretto, ma eventuali riscontri potrebbero influire sul quadro complessivo.

                Ora tutti gli elementi verranno valutati insieme: Dna, impronte, alibi, telefonate. Sarà il mosaico, non il singolo indizio, a decidere se l’indagine condurrà all’improcedibilità o a una richiesta di rinvio a giudizio.

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