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Personaggi e interviste

Isabella Ferrari: «Amo l’amore, odio la solitudine. E ora faccio la dark lady a Natale»

L’attrice si racconta tra carriera e vita privata: «Non sono mai stata single. L’amore, per me, è il mio cibo». E ricorda i suoi inizi lontani da casa.

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    Isabella Ferrari torna al cinema con una nuova sfida: un film di Natale. Dal 23 dicembre sarà nelle sale con Accade in Cortina Express, accanto a Christian De Sica e Lillo. Una produzione festiva che segna per l’attrice un debutto in un genere diverso dai suoi soliti ruoli. «Volevo divertirmi e fare qualcosa di nuovo», ha dichiarato al Corriere della Sera, raccontando anche aspetti più intimi della sua vita.

    Dal borgo piacentino a Roma a 17 anni
    Nata in un piccolo borgo di quattro case vicino a Piacenza, chiamato Ca’ Fogliazza, Isabella Ferrari – all’anagrafe Fogliazza – ha raccontato le sue umili origini e il suo precoce approdo nel mondo dello spettacolo. «A 17 anni lasciai casa per fare televisione con Boncompagni a Roma. Mio padre ci rimase malissimo, forse più di quando mi proposero di cambiare cognome. Ferrari dava l’idea dello sprint, ma per lui fu un colpo».

    Tra gli aneddoti curiosi, Isabella ha ricordato il suo primo incontro con la musica: un 45 giri intitolato Canto una canzone, inciso dopo un concorso di bellezza a cui partecipò da adolescente. «In giuria c’era un discografico. Fu un’esperienza divertente, ma la mia strada era un’altra».

    La vita sentimentale: mai sola
    Un tema ricorrente nella sua intervista è stato l’amore. L’attrice, sposata dal 2002 con il regista Renato De Maria, con cui ha due figli, Nina e Giovanni, ha confessato di non essere mai stata single. «Finivo una storia d’amore e ne cercavo un’altra. Non mi piace la solitudine. Ora ho trovato un equilibrio: anche quando sono sola in hotel per lavoro, non mi pesa più».

    Per Isabella, l’amore rappresenta stabilità e nutrimento emotivo: «Ho sempre cercato affetto, casa, stabilità. Sono il mio cibo».

    Un cinepanettone rivisitato
    Nonostante il tema natalizio, Accade in Cortina Express non è il classico cinepanettone. «È ambientato a Natale, ma è un film per tutta la famiglia. Non ci sono parolacce, e il ruolo della donna è diverso rispetto a quello che si vedeva in passato. Io interpreto una dark lady, una fallita, e lo faccio con le mie rughe».

    Questa nuova avventura segna anche una reunion con Christian De Sica, con cui aveva già lavorato 41 anni fa nel film cult Sapore di mare. «De Sica è un mito a casa mia, i miei figli lo adorano. Lavorare con lui è stato un piacere».

    Tra aneddoti del passato, ricordi affettuosi e progetti per il futuro, Isabella Ferrari dimostra ancora una volta la sua capacità di reinventarsi e di trovare nuove sfide, sia nella carriera che nella vita personale.

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      Sabrina Impacciatore e il delirio lisergico: “Mi sentivo Pam, la moglie di Jim Morrison”

      Tra viaggi psichedelici, identità di genere fluide e storie ai limiti del reale, l’attrice racconta gli anni della sua metamorfosi interiore: “Con Jim Morrison ho parlato davvero. O almeno, così mi sembrava”.

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        C’è stato un tempo in cui Sabrina Impacciatore non era semplicemente Sabrina Impacciatore. Era Pam, la moglie di Jim Morrison.
        Così almeno racconta lei stessa, ripercorrendo con sorprendente sincerità gli anni delle sue esplorazioni più estreme: tra esperienze psichedeliche, identità sessuali fluide e visioni al limite del mistico.

        «Mi sento transessuale da sempre», ammette senza esitazione, ricordando un episodio emblematico: «Un cantautore, dopo averci provato inutilmente con me, alla fine mi disse: “Sabrina, se c’hai il c*o dimmelo”**». Un’affermazione che, lungi dall’offenderla, sembra averle dato la misura di quanto la sua percezione di sé fosse da sempre fuori dagli schemi comuni.

        Gli anni della giovinezza, del resto, sono stati segnati da una curiosità onnivora, anche verso gli angoli più oscuri dell’esperienza umana. Droghe? Provate quasi tutte, confessa. E se le sostanze più dure le hanno lasciato addosso solo disagio e amarezza, sono gli allucinogeni ad averla trascinata in quel vortice onirico da cui, in qualche modo, ancora oggi sembra attingere.

        «Le droghe allucinogene sono state le più affascinanti. E sì, ci sono rimasta sotto», racconta senza nascondersi. Una volta, sotto effetto di acidi, vide Jim Morrison in persona, in una scena degna di un film di Terry Gilliam: «Era su un galeone di pirati. È sceso, ha camminato sulle acque e mi ha chiamato: “Pam”». E lei, per un paio d’anni, si convinse davvero di essere Pam Courson, la compagna storica del frontman dei Doors. Una convinzione così radicata da permeare ogni suo gesto quotidiano.

        L’amore, in quegli anni, si muoveva sulle stesse onde scomposte. Una notte d’amore con una donna? C’è stata, certo, ma con la stessa leggerezza con cui si prende una scorciatoia senza sapere bene dove porterà. «È stata una notte sola. Il giorno dopo, tutto era già cambiato», dice, senza dare a quell’esperienza un significato diverso da quello che ha voluto avere: un momento, niente di più.

        Oggi Sabrina sorride di quella stagione, senza rinnegarla. Un percorso tumultuoso che l’ha portata a costruire una carriera fuori dagli schemi, proprio come lei. Tra un’apparizione psichedelica e una battuta disarmante, resta una delle poche interpreti italiane capace di raccontare il caos senza imbrigliarlo nella retorica.

        E forse, da qualche parte nei suoi sogni più segreti, quel galeone dei pirati solca ancora i mari lisergici, con Jim Morrison che la chiama Pam. E lei, stavolta, sorride e gli fa ciao da lontano.

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          Max Cavallari: “Dopo il malore volevo smettere. Ma Bruno mi diceva di continuare”

          Dal primo incontro in un villaggio turistico agli anni d’oro dei Fichi d’India, passando per il malore che ha cambiato tutto: Max Cavallari racconta Bruno Arena, le risate, i tormentoni, i successi e i dolori mai detti. E promette: «Un giorno racconterò quello che è successo davvero a Zelig».

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            Bruno Arena non se n’è mai davvero andato. A raccontarlo è Max Cavallari, che da anni porta avanti da solo il nome dei Fichi d’India. Parlando del suo compagno di scena e di vita, Max usa sempre il «noi», come se Bruno fosse ancora lì, seduto accanto a lui, pronto a sparare una battuta fuori tempo, a infilarsi in un altro tormentone nato dal nulla.

            Max, quanto le manca Bruno?
            «Tanto. Ma è come se fosse sempre presente tramite me. Vado ancora in scena con il suo Maggiolino giallo: l’ho comprato apposta, per averlo vicino. La gente nei miei spettacoli riscopre i nostri personaggi. Ormai le vere amicizie sono rare: a volte è meglio la solitudine».

            Un legame che non era solo professionale: era anche familiare.
            «Bruno era pure mio cognato: ho avuto una figlia dalla sorella di sua moglie. Sono padrino di suo figlio, lui è padrino della mia Alice. Ci vedevamo a Natale, ai compleanni. Per il resto, eravamo come due poli opposti. Ma era lo zio della mia bambina, che oggi ha 32 anni».

            La vostra comicità?
            «Era avanspettacolo puro. Facevamo ridere con poco: venivamo dal popolo, raccontavamo personaggi veri, senza filtri, senza regole. Eravamo clown, quelli veri. Oggi, la comicità è solo volgarità».

            Dopo il malore di Bruno, ha pensato di smettere?
            «Sì, volevo mollare tutto. Ma quando andavo a trovarlo, lui mi faceva capire che dovevo continuare. Gli amici sono spariti, i parenti pure, tranne i suoi genitori. I fan, invece, mi hanno telefonato, mi hanno spinto a ricominciare. E sono ancora Max Cavallari dei Fichi d’India».

            C’è una battuta che più di tutte le riporta a lui?
            «I tormentoni “ahrarara” e “tichi tic”. Con quelle due parole mi sono comprato casa. “Ahrarara” nasce da un gioielliere con la erre moscia, Sergio Baracco: Bruno si era talmente immedesimato che una volta si infilò un topazio finto nel naso e finì al pronto soccorso».

            Una delle prime vendette tra voi?
            «Gli regalai una bicicletta Bianchi con le ruote bucate. Per ripicca minacciò di scassarmi la mia. Lui andava in bici a Colorado, io arrivavo con una Porsche cabrio. Una notte, Pier Silvio Berlusconi vide noi due, la Porsche e la bici e chiese: “Ma guadagnate uguale?”».

            È vero che all’inizio vi stavate sulle palle?
            «Sì, tanto. Lui era allenatore di basket all’oratorio, io ero il ragazzino imbranato. In squadra c’era uno che si chiamava Cavallari e faceva sempre canestro: Bruno non lo faceva mai giocare, solo per il cognome!».

            Il numero 17, una ferita mai chiusa.
            «Bruno odiava il 17: era il giorno dell’incidente che gli aveva lasciato i buchi in fronte. Ogni 17 del mese si bloccava, non faceva nulla. E il 17 gennaio 2013 fu il giorno del suo malore. Io me lo sono tatuato: 1+7 fa 8, il giorno in cui sono nato».

            Perché vi chiamavate Fichi d’India?
            «Perché sono frutti pungenti fuori e dolci dentro. Proprio come noi».

            Come vi siete conosciuti artisticamente?
            «A Palinuro. Bruno lavorava nei villaggi Touring, io in un’altra struttura. Ci trovammo in una discoteca, il Ciclope, dove c’era pure un ragazzino scatenato che saltava come un pazzo. Era Jovanotti. Bruno mi prese subito in giro: “Ah, sei quel cretino che non mi fa giocare a basket?”».

            L’incontro con Benigni?
            «Indimenticabile. Ci mandò un’auto a prenderci: pensavamo a una limousine, arrivò un rottame di Opel. Ma era tutto vero: Roberto fa lavorare chi ha bisogno. Ci voleva al Festival di Sanremo come Gatto e Volpe, ci definì “gli ultimi clown del millennio”. Ridevamo: improvvisavamo tutto, ma ce la cavavamo sempre».

            Con Maurizio Costanzo un altro legame forte.
            «Una mente geniale. Dormiva tre ore per notte. Anche in vacanza creava un ufficio in piscina: non riusciva a smettere di lavorare».

            Oggi ci sono ancora veri comici?
            «Pochi. Far ridere è diventato difficile. Tutti sono incattiviti. Prima bastava poco. Anche Zelig ha dato quello che poteva. Anzi, lì un giorno racconterò quello che hanno fatto davvero a Bruno. È una storia pesante».

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              Per Vasco è sempre stato “troppo bello”: Francesco Renga, sex-symbol suo malgrado

              In una lunga e divertente intervista, Francesco Renga si racconta tra aneddoti incredibili, incontri storici, amori travolgenti e… cornacchie immaginarie. Dalla storica battuta di Vasco Rossi a Sanremo, alla prima volta con Ambra, fino al rapporto speciale con la figlia Jolanda.

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                Correva l’anno 2005 e Francesco Renga, fresco vincitore di Sanremo con Angelo, incrocia Vasco Rossi nel caos della sala stampa. Il Blasco, senza troppi giri di parole, gli sussurra: «Tu sei troppo bello!». Una frase che ancora oggi Renga ricorda ridendo: «Macché, questa storia del sex-symbol mi perseguita. Ho sempre pensato di essere solo uno simpatico, con qualche buon argomento di conversazione…». Eppure i ricci ribelli, il sorriso aperto e quello charme naturale hanno fatto la loro parte, piaccia o no.

                L’amore travolgente per Ambra: “Non sapevo nemmeno chi fosse”

                Quando gli parlano per la prima volta di Ambra Angiolini, Francesco è ignaro: «Non avevo visto nemmeno una puntata di Non è la Rai. Pensai: ‘E chi è?’». Bastò un incontro per cambiare tutto:


                «Mi innamorai perdutamente. La bellezza e l’intelligenza insieme sono una bomba devastante».

                Indimenticabile il primo incontro con i futuri suoceri a Cerveteri: «Il papà mi aprì a torso nudo, con un crocifisso al collo. “A’ bello”, disse con una voce così bassa che non capivo nulla…», racconta tra le risate.

                Da Ferilli a Papa Wojtyla: incontri memorabili

                Non solo Ambra. Nella sua carriera Renga ha incrociato altri personaggi iconici, come Sabrina Ferilli:

                «I romani sono così: umani ma con quel pizzico di cinismo che ti tiene sempre in riga»

                O Laura Pausini, che lo volle aprire il suo concerto a Mexico City, regalando a Renga un’esperienza da sogno.

                E come dimenticare l’incontro con Papa Giovanni Paolo II?


                «Appena entrò, giuro, ho sentito suonare delle cornamuse. Ovvio che non c’erano… ma la sua energia era talmente potente che nella mia testa si trasformò in musica».

                Renga papà tra figli, consigli (non richiesti) e serate di vino

                La parte più tenera dell’intervista arriva quando Renga parla dei figli, Jolanda e Leonardo.
                «Jolanda studia comunicazione, è bravissima a scrivere e canta pure meglio di me. Leonardo invece è più orso, come suo padre», racconta con orgoglio. Insegna loro con l’esempio, anche sbagliando:

                «Quando organizzo cene a casa, mi concedo qualche bicchiere di vino. Mio figlio? Mi dice: “Non voglio diventare come te!”».

                Dalla Guardia di Finanza al rock: il sogno di Renga

                In un universo parallelo, Renga sarebbe stato un ufficiale della Guardia di Finanza, come desiderava suo padre. «Feci persino il test fisico per entrare all’Accademia… ma sapevo che la mia strada era un’altra». Da adolescente alieno tra i paninari bresciani a frontman dei Timoria, per poi conquistare il grande pubblico da solista: «Non omologarmi mi ha sempre reso speciale. Anche se, ogni tanto, vacillavo».

                Il viaggio continua: musica, famiglia e sogni

                Oggi Francesco Renga è un artista maturo, capace di ridere dei propri miti e delle proprie fragilità. Con la stessa emozione con cui, ancora ragazzino, tremava sotto il trucco di Renato Zero al Bentegodi di Verona. Tra amori indimenticabili, incontri surreali e una vita vissuta sempre con passione, Renga resta fedele a sé stesso. E forse, in fondo, aveva ragione il Blasco: è proprio troppo bello per non lasciarsi travolgere.

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