Sic transit gloria mundi
Il re Leone vota per la Lega Nord: Matteo Salvini trasforma un ruggito in propaganda e trova fan pronti a credere all’incredibile
Matteo Salvini, in piena crisi di consensi e con la Lega in caduta libera nei sondaggi, prova a risalire la china affidandosi a un’improbabile trovata: arruolare il Re Leone. Sentendo il suo nome nella colonna sonora del nuovo film Disney, il Capitano scatena i social tra sarcasmo, commenti increduli e qualche fedele pronto a credere davvero che Mufasa inneggi alla Lega.

Il Re Leone? Tifa per Matteo Salvini. È questa la nuova trovata del leader leghista per ravvivare i social e, forse, il morale un po’ a terra del suo partito. È il periodo delle Feste, ma invece di pensare ai buoni propositi, Salvini si è concentrato su un’assonanza decisamente creativa: ha colto l’occasione di una canzone del nuovo film Disney dedicato a Mufasa per far parlare di sé. Sempre in cerca di consenso, il leader leghista ha trasformato una frase in lingua xhosa – uno dei tanti dialetti dell’Africa – in un improbabile endorsement politico, suscitando reazioni tra lo sbigottito e l’ironico, lasciando molti con un sorriso incredulo. Soprattutto di fronte al fatto che, sorprendentemente, c’è anche chi tra i suoi fan sembra prendere la battuta per buona, dimostrando ancora una volta quanto il senso critico sia spesso messo da parte in favore di una devozione cieca al ‘Capitano’.
Ma andiamo con ordine. In vista del capodanno il vicepremier ha condiviso sui social la locandina del nuovo film del Re Leone, accompagnata da un messaggio che trasuda orgoglio: «Ascoltate le prime parole della canzone di apertura del film». E, certo, le parole “Per Salvini” si sentirebbero chiaramente, o almeno così vorrebbe far credere il nostro protagonista. Mufasa è leghista, quindi? La Disney inneggia al Capitano? Nulla di tutto questo, in realtà. La verità è ovviamente ben diversa: il brano è in lingua africana e dice tutt’altro: «Xesha lifikile», ovvero «il momento è arrivato». Quella chiamata in ballo dal vice premier è solo un’assonanza. Tanto più che il momento di Salvini, almeno stando ai sondaggi, sembra essere passato da un pezzo.
Ora, si potrebbe pensare che questa operazione fosse un modo per strappare un sorriso ai supporter, magari distraendoli dalla crisi di consensi che attanaglia il suo partito. Ma i commenti sotto il post suggeriscono che l’obiettivo non sia stato centrato. A prenderla in ridere sono pochi. Anzi, la platea dei follower si divide tra coloro che sparano ad alzo zero sul leader leghista e chi non coglie l’evidenza e fantastica sull’endorsement dato dal Re Leone all’amato Matteo. «Quando si dice raschiare il fondo», scrive un utente, mentre qualcun altro aggiunge con un filo di rassegnazione: «Ridendo e scherzando, questo è un nostro ministro. Povera Italia». Ma spicca chi confessa: «Lo avevo notato anch’io». E chi è deciso: «Dice proprio Per Salvini!»
Insomma, se il piano era guadagnare terreno nel difficile mondo della satira politica, forse è il caso di tornare in riunione. Salvini, con la sua celebre strategia social chiamata «La Bestia», aveva abituato i suoi follower a contenuti polarizzanti e pungenti. Oggi, invece, sembra aver optato per un tono più leggero e giocoso. Che non sempre colpisce nel segno. Sarà un tentativo di rinnovarsi o un segno di debolezza? Difficile dirlo, ma certo è che, a giudicare dai numeri, la strada è tutta in salita.
Nel 2019, la Lega sfiorava il 34,2% alle elezioni europee, un risultato da capogiro. Oggi, secondo l’ultimo sondaggio SWG, si aggira sotto il 9%. E, come se non bastasse, l’alleata-rivale Giorgia Meloni scavalcato Salvini come numero di followers sui social, lasciando Salvini con un pugno di mosche e, evidentemente, la voglia di farsi notare a tutti i costi.
Ma torniamo al nostro Re Leone. Salvini è noto per la sua capacità di cavalcare l’onda dei meme e dei tormentoni social. Tuttavia, arrivare a suggerire che i versi cantati da un leone sudafricano in una pellicola americana cantino il suo nome sembrerebbe un po’ azzardato anche per lui. Soprattutto visto che si tratta di un film che affronta ideali di inclusione che con la Lega hanno davvero ben poco a che fare. Insomma, è come se, dopo aver provato ogni carta disponibile, il Capitano avesse deciso di affidarsi alla magia Disney per risalire nei sondaggi.
D’altronde, Matteo Salvini ci ha abituati a momenti di creatività assoluta. Ricordiamo tutti le sue dirette Facebook dalla cucina o dal terrazzo, tra panini con la Nutella e improbabili invettive contro Bruxelles. E le stories a base di salciccia, polenta e ogni ghiottoneria possibile in cui mischiava sagre di paese con editti politici contro immigrati e centri sociali. Forse stavolta, però, ha superato sé stesso, portando la narrazione politica al livello del cinema d’animazione. Chi può dirlo, magari nei prossimi giorni vedremo un post in cui si attribuirà il sostegno del cast di Frozen. O dei Fantastici Quattro.
In tutto ciò resta una domanda: cosa pensano i suoi elettori di questo approccio sempre più distante dai temi concreti? Una parte di loro potrebbe apprezzare la leggerezza e l’ironia. Un’altra credere davvero che il Re Leone voti per la Lega. Ma c’è anche chi, guardando al calo verticale dei consensi, si aspetterebbe meno social e più soluzioni concrete. Salvini, d’altra parte, è maestro nel gestire la narrazione: se la realtà non lo favorisce, può sempre modellarla a suo piacimento. Anche se significa arruolare un leone animato come improbabile alleato.
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Sic transit gloria mundi
Il Papa venuto dal futuro: perché Leone XIV ha già fatto la rivoluzione
Meno proclami, più strategia. Il nuovo Papa non urla, ma agisce: ricompone le fratture interne, cambia il linguaggio, riporta ordine e introduce un modello di leadership a lungo termine. Con un dettaglio non trascurabile: ha iniziato a rivoluzionare tutto… restando apparentemente fermo

Non ha alzato la voce, non ha fatto gesti eclatanti, non ha rovesciato nulla. Eppure Leone XIV ha già fatto la rivoluzione. La sua, a ben vedere, è una delle più subdole ed eleganti operazioni di riforma degli ultimi anni: un cambiamento interno, sottile, profondo, silenzioso. Una rivoluzione nella forma che trasformerà la sostanza.
Il pontificato del primo Papa americano (e peruviano) della storia si annuncia come una fase di transizione, certo, ma anche come un ritorno a una forma più “classica” di conduzione della Chiesa. Senza rinnegare Francesco, ne ha assorbito l’eredità su pace, giustizia sociale e dialogo con i poveri. Ma lo ha fatto spogliandola del pathos sudamericano e della forza mediatica del predecessore. Dove Francesco camminava tra la folla, Prevost resta sullo sfondo. Dove Francesco abbracciava, Leone XIV osserva e media. Ma, attenzione, non è affatto debolezza: è consapevolezza.
Quella che stiamo vedendo non è una virata a destra o a sinistra – categorie che nel mondo ecclesiastico valgono quanto un righello nel mare aperto – ma un aggiustamento di rotta per navigare attraverso acque sempre più torbide: lo scontro tra “correnti” interne alla Curia, la pressione delle opinioni pubbliche globali, la crisi vocazionale e identitaria del clero, la secolarizzazione inarrestabile in Europa e il radicalismo emergente in altre aree del mondo. Tutto questo, Prevost ha deciso di affrontarlo con un’arma che nella Chiesa ha sempre funzionato: il tempo.
Perché è il tempo la vera novità di questo pontificato. Dopo tre papi anziani, l’elezione di un pontefice giovane cambia l’intero scenario: non serve più pensare a soluzioni tampone o a gestioni ordinarie, ma a progetti di lungo corso. Il nuovo Papa può permettersi di ragionare come un costruttore di cattedrali, non come un amministratore in scadenza di mandato.
La sua età è una risorsa politica e strategica, soprattutto in un contesto globale dove i leader sono spesso anziani, stanchi, logorati. Prevost, al contrario, ha tempo e visione. Può permettersi di iniziare ora un’opera di ricucitura interna, di pacificazione tra le varie anime della Chiesa, di ricentratura sul Vangelo come bussola spirituale e geopolitica. Il tutto senza bisogno di proclami roboanti, che a lungo andare stancano.
Il cambio di stile si nota subito anche nella comunicazione. Meno storytelling, più sobrietà. Niente frasi fatte, niente retorica. Il nuovo Papa parla per sottrazione. Non accarezza i media, non cavalca i social. Al massimo li attraversa con passo lento. Eppure, ogni parola è pesata, meditata, calibrata per durare. Come quella con cui ha aperto il suo pontificato: «La pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante, umile e perseverante». Una frase che sembra una carezza, ma che contiene un’architettura spirituale e diplomatica potentissima.
Perché la pace, per Leone XIV, non è solo un auspicio ma un programma. È l’unico ponte possibile tra la Chiesa e il mondo lacerato che la circonda. È anche il punto di continuità più evidente con Papa Francesco: il rifiuto di ogni logica di guerra, la critica al riarmo europeo, l’attenzione ai popoli martoriati da conflitti dimenticati. Ma lo fa con un tono che è tutto suo: meno appelli pubblici, più diplomazia silenziosa.
E se c’è una rivoluzione che Leone XIV ha già messo in atto, è proprio questa: riportare la Chiesa a un ruolo di regia silenziosa, capace di parlare ai potenti con il linguaggio dei secoli, non con i post su X. Capace di tenere il timone dritto, anche quando le onde sono alte e la nave cigola. E soprattutto, capace di non cedere alla tentazione di farsi partito o fazione.
La tentazione, oggi più che mai, sarebbe forte: usare la visibilità globale del papato per occupare spazi politici, influenzare agende, dirigere voti. Ma Prevost non ci casca. Forse perché sa bene che, nella lunga storia della Chiesa, le vere rivoluzioni non le ha fatte chi urlava più forte, ma chi sapeva aspettare.
Leone XIV ha cominciato il suo pontificato con pochi gesti e molte omissioni. Ma proprio in quelle omissioni, nella scelta di non forzare, di non dividere, di non provocare, si sta già costruendo un nuovo modo di essere Papa. Più difficile da raccontare, forse. Ma potenzialmente molto più potente.
Sic transit gloria mundi
Tutti a parlare di pace, ma a Istanbul ci va solo Zelensky: Putin e Trump mandano i camerieri
Blaterano di tregua, ma si tengono alla larga. L’ucraino ci mette la faccia, gli altri due solo arroganza e deleghe

Alla fine la montagna, come da copione, partorirà il solito, patetico topolino diplomatico. Mancano meno di 48 ore al vertice di Istanbul, il primo vero incontro negoziale tra Russia e Ucraina da tre anni a questa parte, e l’unico dei tre leader che ha il coraggio (e la decenza) di presentarsi è Volodymyr Zelensky. Gli altri due, Donald Trump e Vladimir Putin, blaterano di pace, parlano a raffica di “cessate il fuoco” e “soluzioni”, ma poi si defilano. E mandano i sottoposti.
Zelensky, almeno, ci mette la faccia. “Vengo io, ovunque serva, basta che Putin si presenti”, ha detto con la consueta schiettezza. Vuole incontrare il leader russo vis-a-vis, e glielo ripete ormai da giorni. Ma da Mosca il solito silenzio nebbioso: né conferme né smentite. Il portavoce Peskov balbetta frasi vaghe, mentre le solite fonti “bene informate” annunciano che a Istanbul, al posto dello zar, ci sarà il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Insomma, la Russia c’è, ma con il pilota automatico.
Trump non è da meno. Dopo aver accennato a una possibile partecipazione in prima persona, ieri da Riad ha annunciato che a rappresentarlo sarà il segretario di Stato Marco Rubio. Una mossa utile giusto a mantenere il nome nei titoli dei giornali, ma che sa tanto di “mandate avanti gli altri”. Eppure, Trump trova il modo di commentare: “Mi aspetto buoni risultati”. Certo. Magari dal divano.
Intanto, Zelensky continua a picchiare sul punto: “Putin non vuole la pace. Se non viene a Istanbul, vuol dire che non ha alcuna intenzione di fermare la guerra”. E chiede nuove sanzioni, ancora più pesanti, se il leader del Cremlino dovesse rimanere nella sua dacia a rimuginare. La risposta di Putin? Il solito sarcasmo velenoso: “Chi ci sanziona fa il male della Russia… e anche il proprio”. Un disco rotto che ormai non convince più nessuno, se non la corte di falchi di cui si circonda.
Per non farsi mancare nulla, Mosca ribadisce anche le condizioni: la “denazificazione dell’Ucraina” e l’eliminazione delle “cause profonde” della guerra. Tradotto: il solito bla bla per non cedere su nulla. E tutto mentre l’Occidente guarda, commenta, e incrocia le dita.
Dalla parte di Kiev, il braccio destro di Zelensky, Andrei Yermak, è netto: “Se Putin non si presenta, sarà la prova definitiva che la Russia non vuole trattare”. E se invece arrivasse, Kiev è pronta anche a rivedere il decreto che vieta ufficialmente il dialogo con lui. Ma serve un segnale, e non arriverà.
A sperare ancora ci prova la Germania. Il ministro degli Esteri Johann Wadephul prova a mettere pressione: “La Russia non dovrebbe lasciare una sedia vuota. Ma se viene, deve essere davvero interessata alla pace”. Non a giocare a Risiko geopolitico.
Morale: tutti parlano di pace, ma poi si tengono ben lontani dal tavolo. L’unico a rischiare in prima persona è Zelensky. Gli altri? Troppo impegnati a farsi belli davanti alle telecamere, o a manovrare nell’ombra. Ma almeno, risparmiateci la retorica.
Sic transit gloria mundi
Il cardinale malato che non c’è: veleni da conclave, Parolin nel mirino dei corvi
La smentita della Santa Sede è arrivata puntuale, ma il danno è fatto: l’indiscrezione sul presunto malore di Pietro Parolin sembra avere tutto il sapore di una manovra per affondare la candidatura del Segretario di Stato.

Niente malore, niente infermieri, niente camici bianchi sfreccianti nei corridoi vaticani. Solo una fake news ben confezionata, diffusa a colpo sicuro nel giorno giusto, e rimbalzata sul web come una miccia accesa tra le panche della Congregazione generale. Il bersaglio? Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, considerato tra i nomi più forti in vista del Conclave del 7 maggio. L’obiettivo? Farlo apparire fragile, inaffidabile, fisicamente non all’altezza. E così, quando in serata la smentita ufficiale del Vaticano ha bollato tutto come “priva di fondamento”, il sospetto è diventato certezza: questa non è cronaca, è strategia.
Il primo a lanciare il siluro è stato CatholicVote.org, sito americano notoriamente vicino all’ala più conservatrice del cattolicesimo Usa. Da lì, l’indiscrezione ha fatto il giro dei social, degli ambienti ultracattolici, delle chat dei vescovi più intransigenti. Tutto secondo copione. Parolin, va detto, è l’uomo che più incarna il volto istituzionale e pragmatico della Chiesa. È stato il custode dell’equilibrio bergogliano, ma senza mai diventarne megafono. Troppo diplomatico per i tradizionalisti a stelle e strisce, troppo “moderato” per i teologi della sinodalità a tutti i costi. Il capro espiatorio perfetto.
Classe 1955, originario di Schiavon, in provincia di Vicenza, Pietro Parolin entra in seminario a 14 anni, resta orfano di padre a dieci, studia alla Pontificia Accademia Ecclesiastica e inizia la sua carriera diplomatica in Africa, poi in Messico e Venezuela. Parla correntemente sei lingue, conosce a memoria gli equilibri tra Santa Sede e Cina, ha tenuto i contatti con regimi impresentabili senza mai sporcarsi le mani. Un uomo di equilibrio, ma anche di potere. Ed è qui che scattano le gelosie.
Alcuni, in queste ore, leggono gli attacchi come una rappresaglia per il ruolo giocato da Parolin nella definitiva estromissione di Angelo Becciu dal Conclave. Fu lui, secondo fonti curiali, a mostrare in aula le lettere siglate da Francesco — quando era ancora ricoverato — in cui si confermava la decisione irrevocabile di escludere Becciu. Una mossa che qualcuno ha vissuto come uno sgarbo personale e istituzionale. Il resto lo fa il veleno, mai assente nelle sagrestie romane, soprattutto in tempo di elezione.
Eppure, nel caos di queste giornate, Parolin continua a non sbilanciarsi. Esce dalle Congregazioni in silenzio, entra tra i primi, esce tra gli ultimi. Sa che ogni parola potrebbe diventare un boomerang. Ma intanto resta uno dei candidati più solidi: ha esperienza, reti internazionali, capacità di mediazione, credibilità tra i cardinali che non vogliono uno strappo netto ma neppure un clone di Francesco. E se i progressisti dovessero capire che nessuno dei loro riuscirà a superare il quorum, potrebbero anche convergere su di lui.
Resta però un’incognita: quanto il fango lanciato in questi giorni avrà davvero lasciato traccia? I 129 cardinali elettori non si lasciano condizionare facilmente, ma il dubbio insinuato — la crepa, per quanto smentita — può bastare a spostare voti decisivi, soprattutto se si arrivasse a una battaglia lunga e fatta di ballottaggi sotterranei.
Intanto, Parolin guarda e attende. Come il diplomatico che è, non rincorre le smentite. E come il prete che è stato — figlio di una maestra, cresciuto all’oratorio — sa che ogni attacco è anche una prova. A pochi giorni dalla prima votazione, le manovre si fanno più esplicite e le trappole più insidiose. Ma c’è un dettaglio che chi diffonde bufale dovrebbe ricordare: la porpora non è impermeabile al fango. Ma non lo è nemmeno la memoria della Chiesa. E in Sistina, ogni passo falso — anche uno solo — può costare il trono… pardon, il soglio!
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