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Le dieci suore morte in un monastero: quando Camilleri scoprì un segreto dei Gattopardi

Andrea Camilleri, nel suo romanzo storico “Le pecore e il pastore”, racconta l’inquietante sacrificio di dieci giovani monache benedettine nel monastero di Palma di Montechiaro. Una storia vera, rimasta sepolta nella clausura e svelata dallo scrittore grazie a una nota a pie’ pagina. Una vicenda che coinvolge il Vescovo Peruzzo, la mistica Suor Maria Crocifissa e l’antica famiglia Tomasi di Lampedusa.

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    Il 6 settembre 2025 Andrea Camilleri avrebbe compiuto cento anni. Saranno innumerevoli le iniziative che nei prossimi mesi celebreranno il genio dello scrittore siciliano: premi letterari, mostre, spettacoli, letture e convegni. Ma tra le tante opere e scoperte del maestro, ce n’è una che sfugge ai riflettori e che merita di essere ricordata: la storia delle dieci suore morte nel monastero di Palma di Montechiaro.

    Camilleri amava i suoi romanzi storici più di ogni altro scritto. Li definiva il suo vero matrimonio, mentre Montalbano era l’amante ingombrante, quella che ti ruba la scena. Proprio in uno di quei romanzi, “Le pecore e il pastore”, Camilleri ha ricostruito un fatto accaduto nel 1945 e rimasto avvolto nel silenzio per decenni: dieci giovani monache benedettine si sarebbero lasciate morire di fame e di sete in clausura per ottenere la salvezza del loro vescovo, ferito in un attentato.

    Tutto parte da una nota a pie’ pagina trovata in un libro di Enzo Di Natali, “L’attentato contro il Vescovo dei contadini”. Una lettera del 1956, firmata da Suor Enrichetta Fanara, abadessa del monastero del Santissimo Rosario di Palma di Montechiaro, racconta con tono quasi casuale un sacrificio che ha dell’incredibile: «Quando V.E. ricevette quella fucilata e stava in fin di vita, questa comunità offrì la vita di dieci monache per salvarlo. Il Signore accettò l’offerta e il cambio: dieci monache, le più giovani, lasciarono la vita per prolungare quella del loro beneamato pastore».

    Il vescovo in questione era Giovanni Battista Peruzzo, detto il “vescovo dei contadini”, un piemontese che si era schierato apertamente contro i latifondisti e per i diritti dei più poveri. L’9 luglio 1945 subì un attentato a Santo Stefano Quisquina. Ferito da due colpi di fucile, fu operato d’urgenza e sopravvisse. Nessuno, fino alla lettera della Fanara, sapeva che dietro quella sopravvivenza poteva celarsi un sacrificio mistico.

    Il monastero era stato fondato nel Seicento dal cosiddetto “Duca Santo”, Giulio Tomasi di Lampedusa, antenato dello scrittore Giuseppe. Lì visse anche Suor Maria Crocifissa, mistica celebre per i suoi scritti e le lotte col Demonio, diventata figura ispiratrice della Beata Corbera nel Gattopardo. L’ambiente era carico di spiritualità estrema, eccessi mistici, fustigazioni, visioni. Ma nulla, nemmeno la celebre “lettera del Diavolo” attribuita alla suora, regge il confronto con la vicenda delle dieci monache.

    Camilleri racconta che a confermare tutto fu un anziano confessore teatino, che però si rifiutò di aggiungere dettagli: «Posso parlarne solo con chi ha grandissima fede», avrebbe detto. Nessuno, fuori dalle mura del monastero, seppe nulla. Nessun documento, nessun registro, nessun nome. Solo quella lettera tardiva dell’abadessa, scritta undici anni dopo i fatti.

    Camilleri si chiede perché aspettò così tanto. E azzarda un’ipotesi: le visite di Giuseppe Tomasi di Lampedusa al monastero nel 1955 la spinsero a raccontare di più. Il principe si commosse ascoltando le storie delle suore, forse quella reazione persuase la Fanara a rivelare il sacrificio delle dieci benedettine.

    «Dieci pecore per un pastore», scrive Camilleri. Una formula crudele, ma perfettamente adatta al rigore di quella spiritualità. Un mistero che ci interroga ancora oggi, perché nessuna di loro chiese di fermarsi? Nessuna implorò pietà? O le altre, semplicemente, non vollero sentire?

    Domande che restano senza risposta. Ma che fanno tremare, come solo la verità sa fare.

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      Gerry Scotti e il nuovo libro “Quella volta”: tra aneddoti, riflessioni sulla TV e frecciate su “La Corrida” di Amadeus

      Dalla collaborazione con Claudio Cecchetto alla libertà trovata in Mediaset, Gerry Scotti ricorda i momenti salienti della sua carriera e non risparmia critiche a chi, come Amadeus, ripropone programmi storici spacciandoli per eventi.

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        Gerry Scotti torna sotto i riflettori non solo come conduttore, ma anche come scrittore. In un’intervista a Chi, il conduttore ha raccontato del suo nuovo libro Quella volta, edito da Rizzoli, in cui intreccia i propri ricordi con alcuni momenti chiave degli ultimi 60 anni della storia italiana. Gerry, insieme ad altri protagonisti della TV anni ’80 come Amadeus, Fiorello e Paolo Bonolis, riflette su cosa significhi essere sopravvissuti nell’industria televisiva per tanto tempo, e sulle differenze con le nuove generazioni di conduttori.

        La differenza tra i veterani e le nuove leve della TV

        Gerry non nasconde l’orgoglio per la gavetta che lui e altri colleghi della sua generazione hanno affrontato, una formazione che, secondo lui, manca ai nuovi volti televisivi. “Noi siamo gli ultimi che hanno fatto la scuola e la gavetta, e questo ci ha resi capaci di far sembrare semplice un mestiere che non lo è,” ha affermato Scotti, “Non basta essere simpatici o fare il brillante: la conduzione è un mestiere, che richiede impegno e amore.” La sua opinione è chiara: la preparazione e il lavoro di squadra, per lui, sono ciò che distingue i grandi professionisti della TV.

        Il mondo dello spettacolo e le “creazioni” tra mentori e artisti

        Commentando le separazioni tra artisti e mentori, come quella recente tra Max Pezzali e Claudio Cecchetto, Gerry osserva come nel mondo dello spettacolo spesso emerga il desiderio di affermare la propria influenza su un altro talento. “Dire di avere ‘creato’ qualcuno è come sentirsi Dio,” ha spiegato, “A volte è proprio questo atteggiamento che porta a litigare. Io e Cecchetto non abbiamo avuto screzi perché, quando lui mi ha voluto al suo fianco, ero già Gerry Scotti: è stata una scelta reciproca.” Secondo il conduttore, Pippo Baudo è l’unico che può rivendicare di aver davvero scoperto numerosi talenti, avendo guidato e lanciato carriere con il suo programma.

        L’indipendenza di Gerry Scotti a Mediaset

        Gerry sottolinea anche il suo rapporto con Mediaset, ricordando come la TV commerciale gli abbia sempre permesso di essere se stesso. “Mi avete sentito parlare di zuppe, bevande e pannolini, ma mai nessuno mi ha imposto cosa dire. Sono un uomo libero,” ha affermato con orgoglio.

        Gerry Scotti e le critiche al ritorno de “La Corrida”

        Sulla sfida con Amadeus, che ha portato La Corrida su Discovery, Gerry non risparmia qualche stoccata. “È positivo cambiare rete, ma non vedo un grande evento in un format come La Corrida,” ha detto, “A volte si camuffano da eventi dei semplici ritorni di programmi già visti.” Tuttavia, ammette che la longevità dei format è parte del mondo televisivo: “Non dobbiamo vergognarci dei titoli storici, ma solo di farli male. In America, programmi con oltre 50 anni di storia continuano ad essere seguiti da milioni di persone.”

        Progetti futuri e possibili ritorni

        Scotti, in ogni caso, non esclude l’idea di riprendere alcuni dei suoi “cavalli di battaglia”, anche se al momento il suo prossimo impegno resta la conduzione di Striscia la notizia. “Chi vuol essere milionario? e The Wall potrebbero sfidare qualunque programma,” ha aggiunto con un tocco di orgoglio, “ma per ora non fanno parte dei miei progetti.”

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          Elle Macpherson: «Bevevo vodka ogni sera fino a perdere i sensi, ora festeggio 20 anni di sobrietà»

          Un circolo vizioso iniziato con la nascita del figlio più piccolo e che l’ha portata a dipendere dall’alcol. Tra blackout, ossessioni e il bisogno di mantenere un’immagine impeccabile, Elle è riuscita a ritrovare se stessa dopo anni di lotta.

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            Elle Macpherson, una delle supermodelle più famose al mondo, ha rivelato il lato oscuro della sua vita apparentemente perfetta. Nel suo nuovo libro autobiografico Elle: Life, Lessons & Learning to Trust Yourself, la top model australiana, oggi 60enne, racconta il periodo più difficile della sua vita, quando l’alcol aveva preso il controllo delle sue giornate.

            Prigioniera dell’alcol

            La dipendenza è iniziata poco dopo la nascita del figlio più piccolo, Cy, oggi 21enne. «La mia vita sembrava perfetta a tutti, ma dentro di me stavo lottando», scrive Elle. Ogni sera, dopo aver messo a letto Cy e Flynn, allora bambini, beveva vodka fino a perdere i sensi. «Cercavo di rilassarmi e di mantenere quell’immagine impeccabile che il pubblico si aspettava da me».

            Mentre il compagno dell’epoca, il finanziere francese Arpad “Arki” Busson, era spesso assente, Elle si trovava intrappolata in un circolo vizioso: feste, alcol e il bisogno di dimostrarsi perfetta in ogni aspetto della sua vita.

            Blackout e ossessioni

            Le conseguenze non tardarono ad arrivare. «Mi infilavo le dita in gola e mi assicuravo di vomitare tre volte prima di andare a dormire», racconta Elle, descrivendo la rigidità con cui gestiva la sua vita. A peggiorare la situazione, i blackout frequenti: «Parlavo con qualcuno e dimenticavo quello che stavo dicendo. Mi guardavano perplessi».

            Un episodio particolarmente drammatico avvenne a Ibiza, durante un’estate trascorsa con la famiglia. Dopo settimane di sobrietà, bastò una serata per farla crollare: «Rompendo il tappo di vetro di una bottiglia, versai uno shot e lo bevvi, frammenti di vetro compresi. Ricordo di aver pensato: “Adoro questa sensazione”».

            La rinascita: 20 anni di sobrietà

            Nonostante le difficoltà, Elle ha trovato la forza di combattere. Nel 2003 ha deciso di smettere di bere, iniziando un percorso che l’ha portata a festeggiare, lo scorso anno, 20 anni di sobrietà. «Ho smesso perché non riuscivo a essere pienamente presente nella mia vita. È difficile conoscersi davvero se ti stai anestetizzando», ha spiegato.

            Oggi, Elle Macpherson è una donna nuova, capace di guardare al passato con consapevolezza e di condividere la sua storia per ispirare chiunque affronti le stesse battaglie. Attualmente si trova a New York per promuovere il suo libro, un’opera che rappresenta non solo un viaggio nella sua vita, ma un messaggio di speranza e resilienza.

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              Qualcuno mi uccida: il nuovo thriller di Diego Pitea che sa di Calabria e brucia come un segreto taciuto

              Con Qualcuno mi uccida, edito da AltreVoci, Pitea firma un noir viscerale e spietato, figlio della sua terra e delle sue ossessioni. Un libro che consacra la sua voce tra le più credibili del nuovo giallo italiano

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                “Qualcuno mi uccida” non è solo il titolo del nuovo romanzo di Diego Pitea. È un grido, una richiesta disperata, un invito a guardare l’abisso senza più chiudere gli occhi. È anche il manifesto di uno stile preciso, diretto, senza fronzoli: quello di un autore che scrive da sud, ma non si accontenta delle cartoline.

                Nato e cresciuto a Reggio Calabria, Pitea ha fatto della sua terra un campo di battaglia interiore e narrativo. Insegue i suoi personaggi nei vicoli e nei pensieri, li porta sull’orlo della rovina e poi li lascia lì, sospesi, come fanno le vite vere quando si rompono.

                Con questo nuovo libro, presentato al Salone del Libro di Torino, l’autore calabrese si conferma una delle voci più potenti del nuovo giallo italiano: un noir che non cerca consolazione, che non chiude con la morale, che morde.

                Pubblicato da AltreVoci Edizioni, Qualcuno mi uccida è un romanzo che ha l’odore del sangue secco e il ritmo di una confessione notturna. Dentro ci sono la paura, la colpa, la giustizia che non arriva. Ma soprattutto c’è la voce di Pitea, ruvida come la pietra e precisa come una lama.

                Chi lo ha conosciuto sa che Diego scrive per necessità, non per mestiere. Il suo percorso è iniziato quasi per sfida, con un giuramento legato a una ferita personale – la malattia della madre – e si è trasformato in un destino narrativo. Dopo il successo di Rebus per un delitto e La stanza delle illusioni, arriva ora questo libro che più di tutti sembra gridare la sua urgenza.

                Nel romanzo, tutto ruota attorno a una domanda senza risposta: quando la verità fa male, è meglio dirla o seppellirla? Da lì si dipana una trama serrata, fatta di indagini deviate, sospetti che si annidano tra le parole, e una Calabria che non fa da sfondo, ma da motore emotivo e simbolico. Non una terra folkloristica, ma un luogo dove si muore davvero, e non solo nei romanzi.

                Diego Pitea non scrive gialli da scaffale. Scrive storie che fanno male, che ti restano appiccicate addosso come il fumo nelle scale di un vecchio palazzo. E lo fa con una penna che conosce il dolore, la rabbia, ma anche il peso dei silenzi.

                Chi è cresciuto “nella punta dello Stivale” lo sa: là dove l’Italia sembra finire, spesso iniziano le storie più feroci. Quelle che non hanno bisogno di effetti speciali, perché la realtà è già abbastanza spietata.

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