Personaggi e interviste
“Sarei stato tossicodipendente anche con un altro padre”: Piero Villaggio racconta la sua vita tra amore, dolore e redenzione
Piero Villaggio, figlio del grande attore Paolo, rompe ogni reticenza e racconta la sua battaglia contro la droga, il dolore per la morte della fidanzata, il rapporto complesso con il padre e il ruolo di Muccioli. “Non mi ha mai voltato le spalle, neanche nei momenti peggiori”.

«Mi hanno sempre chiamato il figlio di Fantozzi. Quindi direi che il mio personaggio preferito è lui: siamo cresciuti insieme». Con queste parole Pierfrancesco Villaggio, per tutti semplicemente Piero, introduce il racconto di una vita segnata da un cognome ingombrante, un padre celebre e un percorso personale complesso, in cui la dipendenza da droghe ha lasciato ferite profonde. Ma anche da cui è riuscito a uscire.
Sessantadue anni, sposato con Elisabetta De Bernardis, hair stylist nel cinema, Piero ha scelto di tornare a parlare del padre Paolo in occasione della riedizione restaurata del primo Fantozzi, in programma il 27 marzo al cinema Barberini. Nella casa romana della madre Maura, dove si svolge l’intervista, l’uomo si concede con lucidità e tenerezza.
«Sono orgoglioso di tutto ciò che ha fatto mio padre, compreso il momento in cui mi ha portato a San Patrignano. Lo fece con una delle sue migliori interpretazioni», racconta.
La parentesi in comunità durò tre anni. «Io vivevo a Los Angeles. Avevo già frequentato cliniche di disintossicazione in Svizzera e California. Lui venne a prendermi, con mia madre. Ci fermammo a Parigi, poi a Venezia, dove mi portò a mangiare all’Harry’s Bar. Infine arrivammo in comunità. Mi arrabbiai molto, ma fu una mia scelta restare».
Nell’autobiografia Non mi sono fatto mancare niente (Mondadori, 2016), Piero si dissocia da alcuni metodi di Muccioli, ma riconosce che l’esperienza gli ha salvato la vita. «Era pieno di mamme disperate davanti al gabbiotto dell’ingresso. San Patrignano ha rappresentato una risposta per molte famiglie».
Il momento più drammatico resta la morte per overdose della fidanzata Maria Beatrice Ferri, nel 1983. «Era a casa mia. Quando lo chiamai, mio padre non capì subito. Ma non mi ha mai colpevolizzato. Neanche i suoi genitori lo hanno fatto».
Il rapporto con Paolo Villaggio è stato tutto fuorché lineare. Generoso fino all’eccesso, non sempre presente, ma mai assente nei momenti decisivi. «Forse gli rimprovero di avermi viziato troppo. Se chiedevo una macchina, non un libro, lui me la comprava. Ma non mi ha mai nascosto. Non si è mai vergognato di me».
Alla domanda se con un altro padre avrebbe evitato la tossicodipendenza, Piero risponde netto: «No. La dipendenza è una malattia. Come lo fu il diabete per mio padre, che poi lo ha ucciso. Non ho mai trovato il coraggio di colpevolizzarlo per non essersi curato. Anche perché so cosa significhi convivere con una dipendenza. E in qualche modo, talvolta, gli sono stato complice».
I ricordi familiari si intrecciano con quelli pubblici. I pomeriggi allo stadio a tifare Lazio (mentre Paolo restava fedele alla Sampdoria), i viaggi in Europa per seguire le partite, gli incontri con Berlusconi, Vialli, Mancini. E ancora Fellini, De André, Benigni. «Quando Paolo faceva lo spiritoso, lo era moltissimo. Ma non era sempre così».
Il momento di vera felicità? «Quando ha ricevuto il Leone alla carriera a Venezia. Si vedeva che quel premio gli importava davvero. Ma, nella vita privata, l’ho visto felice solo quando ho smesso di drogarmi».
Alla fine, resta un’eredità complessa, ma anche un legame profondissimo. «Cosa ho preso da lui? Non la sua genialità. Quella era solo sua. Ma gli sono grato per non aver mai smesso di esserci».
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Personaggi e interviste
Umberto Smaila: «Colpo Grosso era da educande, oggi mi manderebbero all’inferno. Non ho limiti nel bere, nel mangiare, nel fumare»
Tra Jerry Calà e le “ragazze Cin Cin”, Smaila racconta cinquant’anni di spettacolo, eccessi e libertà: «Mi dissero che ero l’unico in grado di rendere quel programma non volgare. Ho avuto tutto, ho perso tanto, ma rifarei tutto uguale».

Prima ha trasformato la musica in cabaret, poi il cabaret in televisione, e infine la televisione in uno show che fece epoca: Colpo Grosso. Umberto Smaila è stato tutto questo, un intrattenitore capace di attraversare stagioni diverse con lo stesso sorriso sfrontato e malinconico.

Tutto comincia a Verona, dove con Franco Oppini, Nini Salerno e Jerry Calà forma i Gatti di Vicolo Miracoli. «Non c’era un laureato tra noi, davamo un esame l’anno solo per evitare il militare», ricorda ridendo. «Dormivamo poco, la notte lavoravamo al Derby di Milano. Diego Abatantuono faceva il tecnico delle luci, e noi gli facevamo da professori: studiava con noi, era senza patente ma guidava lo stesso».
Gli anni Settanta sono un turbine: viaggi infiniti, teatri, serate improvvisate. Poi la separazione. «Io e Jerry non ci siamo parlati per cinque anni. Se n’è andato a fare cinema e noi siamo rimasti in braghe di tela. Mi sentii tradito, ma poi capii: quando passa un treno, o ci salti sopra o lo guardi andare via».
Il successo televisivo arriva con Help! e poi, nel 1987, con Colpo Grosso. Una trasmissione che cambierà la carriera – e la reputazione – di Smaila. «Mi scelsero perché dissero che solo io avrei potuto renderlo non volgare. Pensavo sarebbe durato tre mesi, e invece furono trecento puntate all’anno per cinque anni. Rispetto a quello che si vede oggi, era un programma da educande. Lo guardavano persino le ragazzine, che ci mandavano i disegnini delle ragazze Cin Cin».
Quelle ragazze, però, non erano dive. «Venivano quasi tutte dall’estero: inglesi, olandesi, dell’Est. Le italiane non volevano spogliarsi. Erano molto riservate, fuori dal set le vedevi con i sacchetti della spesa. Nessun lusso, nessun glamour. Io? Solo un piccolo flirt, niente storie clamorose».
Quando Colpo Grosso finì, arrivò la doccia fredda. «Da trecento puntate a zero. Viaggiavo in Mercedes, mi sentivo immortale. Poi capii che non lo ero. Forse, senza quel programma, avrei avuto un’altra carriera, ma non rinnego nulla».
Nel frattempo, Smaila continua con la musica, la sua vera casa. Fino al colpo di scena hollywoodiano: «Mi chiamò l’agenzia di Quentin Tarantino. Stavano girando Jackie Brown e volevano un mio brano. Pensavo fosse uno scherzo, invece era vero. Aveva visto La belva col mitra, dove c’era la mia musica. Quei sei minuti sonori mi hanno regalato l’eternità».
Oggi, a 74 anni, Smaila non rinnega i suoi eccessi. «Non ho limiti nel bere, nel mangiare, nel fumare. Secondo i benpensanti, sono un irregolare. Quelli come me vanno all’inferno, e io ci andrò volentieri, se trovo la compagnia giusta».
E mentre la tv di oggi «ha tolto lo spettacolo e il coraggio», lui resta fedele al suo stile. «Allora facevamo otto giorni di prove per tre minuti di varietà. Oggi bastano due ore e un microfono. Ma io continuo a cantare nei miei locali, tra gente che balla e ride. È questo che mi tiene vivo».
La leggenda di Umberto Smaila, tra pianobar, cabaret e cult televisivi, è il ritratto di un’Italia che si prendeva meno sul serio. E che forse, proprio per questo, sapeva divertirsi di più.
Personaggi e interviste
Teo Mammucari tagliato a Domenica In: «È finita, oggi ho fatto due minuti»
Il gioco telefonico affidato a Mammucari nella nuova edizione di Domenica In è passato da quasi mezz’ora a poco più di un quarto d’ora, fino al taglio improvviso in diretta. «Mi avete fatto fare due minuti», ha scherzato lui, ma la battuta nasconde un retrogusto amaro.

Sorridente ma visibilmente infastidito, Teo Mammucari ha chiuso la seconda puntata di Domenica In con una battuta che è suonata più come un messaggio: «È finita, oggi ho fatto due minuti». Il suo spazio nel contenitore domenicale di Mara Venier si è infatti ridotto drasticamente rispetto alla prima puntata, quando il comico romano aveva debuttato con un gioco telefonico dedicato alla storia della Rai.

Se due settimane fa la gag aveva occupato quasi mezz’ora di diretta, questa volta il tempo a disposizione è sceso a una manciata di minuti. Lo si è capito subito, sin dall’impostazione: via il tabellone centrale, sostituito da un semplice telefono sul palco, e via anche le lunghe interazioni con il pubblico che avevano caratterizzato l’esordio. Uno schema più asciutto, forse pensato per lasciare spazio ad altri blocchi della trasmissione, ma che ha finito per comprimere del tutto la presenza di Mammucari.
Quando un autore, dietro le quinte, ha detto chiaramente “no” a un’ulteriore telefonata da casa, Mammucari ha reagito a modo suo, trasformando la delusione in sarcasmo: «È finita, oggi ho fatto due minuti!». Poi l’abbraccio a Mara Venier, un sorriso tirato e un ringraziamento pubblico alla padrona di casa, che ha provato a smorzare i toni: «Qualcosa cambierà in corso d’opera», ha detto, lasciando intendere che la formula del programma è ancora in via di assestamento.
Lo showman, entrato quest’anno nel cast accanto a Tommaso Cerno ed Enzo Miccio, aveva accolto con entusiasmo l’invito di Mara, descrivendo la sua presenza come «un ritorno alla leggerezza in un programma storico». Ma tra tagli, tempi risicati e prove di equilibrio tra comicità e quiz, il suo ruolo sembra ancora in cerca di una definizione.
Dietro le quinte, qualcuno parla di semplici esigenze di scaletta: la puntata del 28 settembre, infatti, ha avuto blocchi più lunghi del previsto, soprattutto quelli musicali e le interviste con gli ospiti. Altri, invece, leggono nella riduzione del suo spazio un segnale più profondo: una difficoltà d’inserimento nel ritmo e nel tono di una trasmissione ormai saldamente identificata con la conduzione “materna” e rassicurante di Mara Venier.
Mammucari, che da sempre gioca sul filo dell’ironia tagliente, ha preferito non aggiungere altro. Ma la sua battuta finale è rimbalzata sui social in poche ore. E ora in molti si chiedono se quella del prossimo weekend sarà davvero una nuova puntata… o l’ultima “telefonata” per Teo.
Personaggi e interviste
Simona Ventura perseguitata da uno stalker: “Mi ha violentato, fa parte di una psicosetta” – L’incubo raccontato a Le Iene
Lo stalker, intervistato da Giulio Golia, accusa Ventura di far parte di una “setta satanica” e di averlo violentato: “Si è sdraiata accanto a me mentre ero incosciente”. La coppia: “Viviamo nella paura, ma non ci faremo intimidire”.

Da anni Simona Ventura e Giovanni Terzi vivono un incubo. A perseguitarli è un uomo di 48 anni, residente a Torino, che li riempie di minacce di morte, insulti e accuse deliranti. “Voglio morta Simona Ventura”, “Ti distruggo con le mie mani”, “Basta spararle un colpo di fucile”: sono solo alcuni dei messaggi inviati alla coppia, che ha deciso di denunciare e parlare pubblicamente del caso.
L’uomo, affetto da disturbi psichiatrici, è stato rintracciato e intervistato da Giulio Golia per Le Iene. Nell’intervista, ha mostrato un atteggiamento confuso e paranoico, accusando la conduttrice di essere a capo di una “psicosetta” che lo avrebbe manipolato e violentato: “Nel 1998 Simona Ventura si è sdraiata nel letto mentre io ero incosciente all’ostello di Venezia. Con lei c’era Victoria Cabello. Lei mi ha rovinato la vita”.
Un racconto senza alcun riscontro, ma che riflette la gravità della sua condizione. “Sono malato psichiatrico falsamente – ha aggiunto –. Ho solo reagito d’impulso, non volevo minacciare davvero”. Eppure, come mostrato dalle chat, da tempo inonda i social di messaggi d’odio, definendo Ventura “cocainomane” e promettendo di “ucciderla come merita”.
La conduttrice e il compagno hanno raccontato di aver inizialmente sottovalutato la situazione. “La polizia ci disse che era una persona tranquilla – ha spiegato Terzi –. Poi, dieci giorni fa, ha ripreso a scriverci con violenza”. Da qui la nuova denuncia per stalking e la decisione di rendere pubblica la vicenda.
Ventura, visibilmente provata, ha commentato: “Nessuno merita di vivere sotto minaccia. La paura è reale, ma non ci faremo zittire. Voglio solo che la giustizia intervenga e che chi soffre di queste patologie venga davvero aiutato”.
Un caso che accende ancora una volta i riflettori sul tema della sicurezza e sull’abuso dei social, dove la follia e l’odio possono trasformarsi in un’arma contro chiunque, anche contro chi, come Simona Ventura, cerca soltanto di vivere la propria vita lontano dal terrore.
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