Musica
Chiamamifaro, la figlia di Cristina Parodi: “Smettetela di dire che sono raccomandata”
Angelica Gori, in arte Chiamamifaro, si fa largo ad Amici con talento e determinazione. È figlia di Cristina Parodi e Giorgio Gori, ma ci tiene a precisarlo: “Basta dire che sono raccomandata”. Ha cominciato da sola, suonando con lo zio Roberto dopo cena, e oggi sogna Sanremo. Il suo brano Perché? ha superato 1,5 milioni di ascolti e ha già conquistato Maria De Filippi e Rudy Zerbi. “In Italia ci sono poche cantautrici come me. Voglio farcela con la mia voce, senza spinte”.

Non chiamatela raccomandata. Chiamatela Chiamamifaro. Angelica Gori, figlia di Cristina Parodi e Giorgio Gori, ha deciso di tagliare corto con le polemiche. Vuole farsi strada nella musica con le sue sole forze, e l’ha detto chiaramente: “Con i miei genitori siamo d’accordo sul fatto che questa cosa la devo fare da sola. Non voglio che mi diano una mano in nessun modo. Ho passato una vita a sentirmi dire che sono raccomandata”, ha spiegato in un’intervista al settimanale Oggi.
E in effetti, la sua determinazione sembra funzionare. A Amici, dove è una delle voci più fresche di questa edizione, Angelica si è già fatta notare. Il suo primo brano Perché? ha superato 1,5 milioni di ascolti, e i successivi O.M.G. e Leone hanno convinto anche Rudy Zerbi, che ha deciso di puntare su di lei.
Il suo nome d’arte, Chiamamifaro, nasce da un ricordo d’infanzia: “Il faro è un posto sicuro, illumina sempre qualcosa o qualcuno. Quando ero piccola, andavo sotto un faro a suonare con la mia chitarrina, era un posto del cuore”, ha raccontato più volte. Oggi quel faro è diventato simbolo di una ragazza che vuole brillare senza riflessi di luce altrui.
Anche Amadeus, nel tempo, ha avuto parole di stima per lei: “Sei molto cresciuta. Prima eri concentrata solo su te stessa, ora entri nelle canzoni”. Un segnale? Forse. Lei intanto il sogno ce l’ha chiaro: salire sul palco di Sanremo. “In Italia le cantautrici come me sono poche. Per me sarebbe un sogno andarci”, confessa.
Se Maria De Filippi ha già puntato su di lei, non è da escludere che anche Carlo Conti, ora che ha raccolto il testimone da Amadeus, prenda appunti. Intanto, Chiamamifaro si gode il viaggio. E anche se il cognome fa rumore, lei sa che a parlare, alla fine, sarà solo la musica. Magari, proprio sotto un faro.
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Musica
Annie Lennox, la scoperta a 70 anni: “Convivo con l’ADHD, ma è anche un superpotere”
La storica voce degli Eurythmics rivela di aver ricevuto solo di recente la diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Un tassello che spiega molti aspetti della sua creatività e della sua sensibilità artistica.

A settant’anni compiuti, Annie Lennox ha deciso di raccontare una scoperta che ha cambiato il modo in cui guarda a sé stessa: la cantante soffre di ADHD, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. La rivelazione è arrivata durante un’intervista a Woman’s Hour, programma della BBC Radio 4, dove la leggendaria voce di Sweet Dreams (Are Made of This) ha condiviso con serenità la sua esperienza, definendola una sorta di “rivelazione tardiva ma liberatoria”.
«Non è una cosa facile con cui convivere», ha ammesso, «ma è anche un superpotere. Mi ha aiutata a capire perché vedo e sento le cose in modo così intenso».
Una mente sempre in movimento
Durante la conversazione con la conduttrice Emma Barnett, Annie Lennox ha descritto la propria percezione del mondo con un’immagine vivida: «Sono come una gazza ladra. Osservo tutto, ogni dettaglio mi attrae. Sono estremamente sensibile». È stato proprio questo modo di vivere la realtà — curioso, frenetico, attento alle sfumature — a portarla a chiedersi se ci fosse qualcosa di più dietro la sua costante “iperattenzione emotiva”.
La diagnosi di ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) ha dato un nome a quella che lei stessa definisce una “mente sempre in movimento”. Si tratta di una condizione neurodivergente, cioè di una diversa modalità di elaborare informazioni, emozioni e stimoli. Non una malattia, ma una variazione del neurosviluppo, al pari di autismo e dislessia.
«Mi è stato spiegato come funziona la mia mente e come funziona quella delle persone che condividono questa condizione», ha raccontato. «È stata una rivelazione, ma anche un sollievo: finalmente ho compreso molte cose del mio passato e del mio modo di essere».
Dalla fragilità alla forza creativa
Per Lennox, l’ADHD non è mai stato un ostacolo alla carriera, anzi: «Credo che porti con sé una certa brillantezza», ha detto sorridendo. «Non sto dicendo di essere brillante, ma ammetto che ho sempre aspirato a esserlo, attraverso la musica, le parole, la performance. Forse è proprio l’energia dell’ADHD ad avermi dato quella spinta costante a creare».
E in effetti, ripensando alla sua carriera, il filo rosso della curiosità e della ricerca è evidente. Dagli anni Ottanta con gli Eurythmics, al fianco di Dave Stewart, fino ai progetti solisti più intimi e impegnati, Lennox ha sempre dimostrato una sensibilità fuori dal comune, capace di fondere pop e introspezione, sensualità e denuncia sociale.
Oggi, alla luce della diagnosi, interpreta molti aspetti della sua vita con uno sguardo nuovo: «Forse la mia iperattività mentale, quella sensazione di non riuscire mai a spegnere il cervello, è la stessa forza che mi ha tenuto viva e creativa per tutti questi anni».
Una condizione spesso sottovalutata
L’ADHD negli adulti è un tema di cui si parla ancora poco, anche nel mondo scientifico. Spesso la diagnosi arriva in età avanzata, soprattutto tra le donne, perché i sintomi possono manifestarsi in modo più sottile rispetto agli uomini.
Tra i segnali più comuni ci sono distrazione, impulsività, difficoltà a organizzarsi, insonnia e iperfocalizzazione su interessi specifici. In molti casi, le persone imparano a sviluppare strategie di compensazione per gestire questi tratti, riuscendo a mantenere una vita piena e di successo.
La diagnosi, spiegano gli esperti, è clinica e si basa su una valutazione accurata condotta da psicologi o neuropsichiatri, che analizzano la storia personale e comportamentale del soggetto secondo i criteri del Manuale diagnostico DSM-5. Non esistono test univoci, ma un percorso multidisciplinare che include colloqui, osservazioni e, se necessario, test cognitivi e neurologici.
La serenità di una nuova consapevolezza
Per Annie Lennox, scoprire di avere l’ADHD non è stato un colpo, ma un passo verso una nuova forma di autocomprensione. «Non è una diagnosi che ti definisce, ma ti aiuta a capire chi sei davvero. Ho sempre cercato di canalizzare la mia energia nel creare, e ora so da dove veniva quella spinta».
Oggi l’artista britannica vive con leggerezza la sua scoperta, trasformandola in un messaggio di accettazione e di forza: «Ogni mente è unica. E se la mia è un po’ più caotica del normale, va bene così. È anche per questo che la musica, per me, è sempre stata casa».
Musica
Jack Osbourne: “Mio padre non voleva che la gente provasse pena per lui. Lo trovava ridicolo”
Dalla malattia al libro scritto fino a due giorni prima di morire, Jack Osbourne ripercorre la parabola finale del padre. “Era frustrato perché non riusciva più a stare in piedi, ma non ha mai smesso di ridere. Roger Waters? Un idiota del cazzo, geloso. Mio padre lo ascoltava sempre”.

Jack Osbourne ha dovuto dividere suo padre con il mondo. “Era sempre in tour”, racconta il figlio minore di Ozzy in un’intervista a Rolling Stone UK. “Posso dire d’averlo conosciuto davvero solo da adulto, ai tempi di World Detour, quando giravamo l’America insieme. È stato l’ultimo periodo in cui stava bene”. Quel tempo sereno finì nel 2019, con la caduta domestica che aggravò i sintomi del Parkinson e diede inizio a un calvario durato anni.
Di quell’esperienza parla oggi nel documentario Ozzy: No Escape from Now e nel libro postumo Last Rites, cui il cantante ha lavorato fino a due giorni prima della morte. “Ci siamo chiesti se fosse giusto pubblicarlo – spiega Jack – ma era il suo desiderio. Non farlo sarebbe stato un torto. Papà non aveva rimpianti. Ha vissuto una vita incredibile, e scrivere era il suo modo per dire: ‘Ok, sono stato malato, ma non provate pena per me’. Lo trovava ridicolo”.
Il figlio ricorda un uomo che non si arrendeva. “Era frustrato perché non riusciva ad alzarsi, ma lavorare lo faceva sentire vivo. Quando registrava un disco o faceva il podcast con noi era felice. Nei periodi di inattività si abbatteva. Si sentiva utile solo quando creava qualcosa”.
L’ultimo concerto, Back to the Beginning, ha avuto per la famiglia un sapore agrodolce. “È stato come un funerale in vita. C’era una perfezione divina e al tempo stesso strana. Lui era felice: aveva rivisto amici di trent’anni prima, fan, colleghi. E nella sua Birmingham era come chiudere un cerchio”.
Anche nei momenti peggiori Ozzy restava Ozzy: ironico, rumoroso, indisciplinato. “Gli bastava una battuta con la parola ‘cazzo’ per ridere come un pazzo. Dopo l’incidente era diventato più tranquillo, ma non meno se stesso. Continuava a sparare la musica a dieci miliardi di decibel. Passava da Michael Jackson ai Pink Floyd, e questo rende ancora più assurde le parole di Roger Waters. Che idiota del cazzo. Penso sia solo gelosia: mio padre lo stimava e lo ascoltava sempre”.
Le operazioni fallite restano una ferita aperta. “Quella prima, in particolare, ha peggiorato tutto. È la maledizione dei medici di Los Angeles: hanno paura di dire la verità. Da quell’intervento è andato tutto a rotoli”.
Oggi Jack vive tra America e Inghilterra, vicino alla madre Sharon. “Sta bene non stando bene. Sta cercando di capire da dove ripartire. Ma è circondata d’amore e papà non avrebbe voluto vederla triste. Detestava la pietà, diceva sempre: ‘Guardate avanti’”.
Alla fine, resta l’eredità di un uomo che ha attraversato mezzo secolo di rock senza perdere la sua fame. “Molti diventano rockstar, lui lo è stato davvero. Non si è mai fermato, non ha mai avuto paura di cambiare. Non c’è decennio in cui non abbia lasciato il segno. E quando scrive, nell’ultimo capitolo, ‘Ho avuto una vita rumorosa. Ora sono pronto per un po’ di silenzio’, io so che lo credeva davvero. Solo che quel silenzio, adesso, fa un rumore assordante”.
Musica
Al Bano contro Amadeus e Conti: “Non presenterò più canzoni a Sanremo, voglio solo rispetto per il mestiere che faccio”
Dopo anni di palcoscenico e applausi, Al Bano Carrisi dice basta: non invierà più brani per le selezioni del Festival di Sanremo. Nel mirino Amadeus e Carlo Conti, colpevoli — secondo lui — di averlo escluso senza la dovuta considerazione. “Con Baudo c’era eleganza anche nel dire no, oggi no”.

Al Bano non salirà più sul palco dell’Ariston. Il cantante pugliese, ospite dell’evento “Tennis & Friends – Salute e Sport” al Foro Italico, ha annunciato che non presenterà brani per la prossima edizione di Sanremo 2026. Lo ha fatto con parole dure, miste a orgoglio e amarezza: «Penso di avere diritto a un pizzico di rispetto per il mestiere che faccio, ma non sto a certi giochetti. È già la seconda volta che sono stato trattato in un certo modo, non ci sto a queste cose».
La decisione nasce da una delusione che brucia ancora: due esclusioni consecutive dalle selezioni, prima con Amadeus e poi con Carlo Conti. Due bocciature che l’artista non ha mai digerito. «Non presenterò più nessuna canzone finché non ci sarà qualcuno che sappia valutare con rispetto il lavoro di chi, come me, ha dato tanto alla musica italiana».
Non è solo una questione di orgoglio, ma di principio. Già un mese fa, Al Bano aveva ricordato con nostalgia i tempi di Pippo Baudo, definendolo “un signore”. Capace di dire sì o no con garbo e gratitudine. «Con lui c’era eleganza, anche nel rifiuto. Non serviva passare dai giochetti o dai silenzi». Una frecciata evidente ai due conduttori più recenti, rei — a suo dire — di averlo ignorato senza neanche una parola di spiegazione.
Carrisi avrebbe voluto chiudere il cerchio della sua lunga storia sanremese nel 2025, ma non gli è stata concessa quella passerella finale. Conti, oggi alla guida del Festival, ha scelto altri nomi, escludendo il veterano di Cellino. Una scelta che l’artista ha vissuto come un segnale definitivo: «Se non c’è più spazio per chi ha fatto la storia, pazienza. Il rispetto, però, non si nega a nessuno».
Così, per la prima volta dopo decenni di Festival, Al Bano si sfila dal gioco. Un addio che sa di delusione, ma anche di dignità ferita. E mentre il mondo della musica guarda già alla prossima edizione, lui sembra aver chiuso la partita: «Sanremo è nel mio cuore, ma non posso restare dove non mi sento rispettato».
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