Storie vere
Un’ultima immensa cena per Joseph tra alti e bassi della sua depressione
La sua storia è un grido di consapevolezza, una riflessione su quanto la salute mentale debba essere presa sul serio, e un invito a guardare al dolore degli altri con più empatia.

Joseph Awuah-Darko è un artista britannico-ghanese di 28 anni che ha deciso di trasferirsi nei Paesi Bassi per porre legalmente fine alla sua vita. Ovvero eutanasia. Soffre di disturbo bipolare, una patologia psichiatrica caratterizzata da oscillazioni estreme dell’umore, che rendono la quotidianità un viaggio imprevedibile tra euforia e depressione profonda. Dopo anni di trattamenti che non hanno portato sollievo, ha scelto di percorrere la strada dell’eutanasia legale, possibile nei Paesi Bassi in caso di sofferenza psichica insostenibile e depressione. Nonostante la difficoltà della scelta, Joseph ha trasformato questo periodo in un’occasione di connessione e condivisione, lanciando il progetto “Last Supper Project”. Di che si tratta? Joseph ha organizzato un tour di cene con centinaia di sconosciuti con l’intento di incontrare nuove persone e ascoltarne le storie. Tutto questo in attesa del verdetto sulla sua richiesta di eutanasia. In attesa del consenso all’eutanasia almeno la depressione dovrebbe alleggerirsi.
Cos’è il disturbo bipolare e perché alcuni pazienti arrivano a richiedere l’eutanasia?
Sempre più diffuso, il disturbo bipolare, secondo il National Institute of Mental Health, è una condizione psichiatrica che porta a forti sbalzi d’umore, passando da stati di euforia estrema, con iperattività e irrefrenabile energia, a momenti di depressione paralizzante. Una condizione psicofisica nel quale anche le azioni più semplici diventano impossibili. Chi soffre di questa patologia spesso fatica a mantener relazioni stabili, un lavoro, una routine quotidiana e può sentirsi intrappolato in un ciclo di dolore mentale ingestibile. In casi estremi, alcuni pazienti valutano l’eutanasia quando il disturbo diventa cronico e resistente ai trattamenti, lasciando poche prospettive di miglioramento.
Nei Paesi Bassi, l’eutanasia è legale dal 2002, dopo l’approvazione della “Legge sulla cessazione della vita su richiesta e sul suicidio assistito“. Olanda e Belgio sono tra i pochi Paesi al mondo che consentono l’eutanasia anche per motivi psichici, se il paziente dimostra di essere in una condizione di sofferenza insostenibile e senza possibilità di cura efficace. Il processo per ottenere l’eutanasia può richiedere fino a quattro anni, con valutazioni mediche approfondite da parte di un centro di esperti, che devono verificare che la richiesta non sia impulsiva ma frutto di una riflessione prolungata e consapevole.
“Last Supper” una cena, mille cene per connettersi con il nondo
Quando Joseph ha comunicato sui social la sua decisione, ha ricevuto centinaia di messaggi da persone che volevano incontrarlo, per conoscerlo e condividere un momento insieme. Così è nato il “Last Supper Project“, un tour di cene in giro per il mondo, dove Joseph incontra sconosciuti, ascolta le loro storie e si immerge nella vita degli altri, cercando una nuova forma di connessione prima di salutare il mondo. “Mentre affronto questa transizione, perché non connettermi con le persone attraverso il cibo?“, ha raccontato al Times. Tra le città che hanno giù accolto Joseph ci sono Parigi, Milano, Bruxelles, Berlino. L’artista ha già partecipato a 57 cene e ne ha programmate altre 120 fino ad agosto. Per lui, questo progetto rappresenta un modo per vivere con intensità fino all’ultimo momento, spostando il focus dalla propria sofferenza al mondo che lo circonda. Ma la sua malattia non molla…
Nonostante il grande affetto ricevuto, infatti, Joseph non nasconde che il dolore non è sparito. “Mi sveglio ancora con un dolore profondo“, ha confessato nei suoi video. Eppure, se il Last Supper Project diventasse la sua missione, non gli dispiacerebbe affatto.
Il significato del “Last Supper Project” e il dilemma della scelta
Cosa intende dimostrare Joseph Awuah-Darko? Semplice sta mostrando al mondo un modo straordinario e intenso di vivere i suoi ultimi giorni. Il senso del suo progetto è duplice- Da una parte creare legami umani autentici prima di affrontare una scelta definitiva. Dall’altra portare visibilità alla sofferenza mentale, mostrando che il disturbo bipolare può diventare un disturbo intollerabile. La sua iniziativa solleva interrogativi difficili: l’eutanasia per sofferenza psichica è giustificabile? È davvero possibile stabilire quando una mente ha raggiunto il suo limite?
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Storie vere
Chiamano il neonato Lucifero: la scelta che fa discutere di una giovane coppia che ha vinto la causa con l’anagrafe
Nato nella sala parto 6, trasferito nel letto 6 della stanza 6: la vicenda accende il dibattito sull’opportunità di scegliere nomi così particolari. I genitori: “Siamo normali, il nome ha un significato per noi

Nel Derbyshire, una tranquilla contea inglese, Dan e Mandy Sheldon hanno fatto una scelta che non poteva passare inosservata: chiamare il loro figlio Lucifero. La decisione, spiegano i genitori, è nata per motivi personali, ma ha immediatamente suscitato polemiche e una reazione inaspettata da parte delle autorità.
La storia è diventata ancor più curiosa per una serie di coincidenze numeriche: il bambino è nato nella sala parto numero 6, e la madre è stata poi trasferita nel letto 6 della stanza 6. Dettagli che hanno acceso l’immaginazione di molti e alimentato discussioni sui social.
Quando la coppia si è recata all’anagrafe per registrare il nome, l’ufficiale si è opposto, definendo il nome inappropriato a causa delle sue connotazioni religiose e culturali. La questione è finita in tribunale, dove i Sheldon hanno vinto la causa, ottenendo il diritto di registrare ufficialmente il nome scelto per il loro bambino.
Lucifero: il significato oltre il pregiudizio
Il nome Lucifero ha origini latine e significa letteralmente “portatore di luce”, un riferimento poetico all’astro del mattino. Tuttavia, a partire dalla tradizione cristiana, è diventato sinonimo del diavolo, assumendo un significato carico di negatività.
Nonostante ciò, Dan e Mandy difendono con fermezza la loro scelta: «Per noi, Lucifero non ha nulla a che fare con il diavolo. È un nome bello, unico, e rappresenta qualcosa di positivo. Non siamo persone strane né provocatori. Siamo genitori normali».
Una vicenda che divide
La storia ha rapidamente fatto il giro del mondo, scatenando dibattiti tra chi sostiene la libertà di scelta dei genitori e chi teme che il bambino possa subire pregiudizi e bullismo per via del suo nome. Sui social, i commenti spaziano dall’ironia all’indignazione, passando per l’incoraggiamento.
Un utente ha scritto: «Forse non sarà facile crescere con un nome così, ma almeno nessuno lo dimenticherà mai». Altri, invece, hanno criticato la decisione: «Un nome è per tutta la vita, i genitori dovrebbero pensarci meglio».
L’intervento dell’anagrafe
La scelta del nome Lucifero ha portato l’ufficiale dell’anagrafe a esprimere un’opinione molto netta: «Non possiamo accettare un nome che può essere percepito come offensivo o inappropriato». Tuttavia, i giudici hanno stabilito che il rifiuto violava il diritto della coppia di scegliere liberamente il nome del figlio, a meno che non fosse palesemente lesivo per il bambino, cosa che non è stata dimostrata.
Libertà e limiti nella scelta dei nomi
Il caso dei Sheldon apre un dibattito più ampio sul confine tra libertà individuale e responsabilità. Se da un lato i genitori hanno il diritto di scegliere un nome unico e personale, dall’altro esiste il rischio di imporre un peso emotivo e sociale su chi dovrà portarlo per tutta la vita.
In attesa che il piccolo Lucifero cresca e racconti la sua storia, il caso rimane un simbolo delle complessità legate a una libertà che, pur essendo sacrosanta, può avere conseguenze inaspettate.
Storie vere
“Madre Prosecco” e le suore in fuga, tra accuse, ribellioni e bollicine: la vera storia ignorata dai media
In un’epoca dominata dai casi di cronaca nera e dal sensazionalismo televisivo, una storia straordinaria e per nulla cruenta è passata quasi inosservata: quella di Madre Aline Pereira Ghammachi e di undici suore ribelli del monastero di San Giacomo di Veglia, in provincia di Treviso. Accusate, isolate e infine fuggite, queste religiose hanno dato vita a una vicenda che intreccia spiritualità, bollicine venete, scontri di potere e desiderio di verità. Una narrazione dimenticata, ma più attuale che mai.

Mentre i riflettori mediatici sono puntati su nuovi gialli da prima serata, come il “Garlasco bis” o le performance mediatiche di avvocati e criminologi, pochi si sono chiesti che fine abbia fatto Madre Aline, ribattezzata affettuosamente “Madre Prosecco”. La badessa, giovane e intraprendente, è stata protagonista insieme a undici consorelle di una fuga silenziosa ma clamorosa, scaturita da tensioni interne al monastero e presunte persecuzioni ecclesiastiche.
Dalla clausura alla ribellione
Economista di formazione e originaria del Brasile, Madre Aline aveva trasformato il monastero in un simbolo di rinascita, producendo cosmetici naturali, tisane e soprattutto prosecco di qualità, tanto da attirare persino l’attenzione del presidente veneto Luca Zaia. Ma il suo spirito imprenditoriale e la sua visione moderna non erano ben viste da tutti. Nel 2023, un commissariamento imposto dal Vaticano ha scatenato un’escalation di accuse e malumori culminata nella clamorosa fuga.
Il commissariamento e l’arrivo di Madre Driscoll
A guidare l’intervento della Santa Sede è stata Madre Driscoll, 81 anni, richiamata dall’Indonesia con l’intento di riportare “l’ordine” nel monastero. Con lei, una psicologa e una suora dall’abbazia di Cortona. Il nuovo assetto ha però innescato tensioni, culminate in una vera e propria rivoluzione interna: secondo Aline, le suore sarebbero state isolate, vessate psicologicamente e perfino punite con reclusioni arbitrarie. Il clima si è fatto insostenibile.
Accuse e controaccuse: cosa è successo davvero?
Aline sostiene di essere stata allontanata per aver denunciato pratiche scorrette e per essersi opposta all’influenza di alcune figure “in odore di ciarlataneria”. Le accuse a suo carico? Autoritarismo, violazione della clausura, atteggiamenti manipolatori. Denunce che, a detta della badessa, derivano da lettere anonime e vendette personali, tra cui quella di una suora sorpresa a guardare materiale pornografico. Le versioni, ovviamente, divergono. Ma intanto, la verità continua a sfuggire.
Una storia che parla anche di potere ecclesiastico
Il caso di San Giacomo di Veglia porta alla luce le dinamiche opache di una Chiesa spesso impermeabile al dissenso interno. “Silere non possum”, testata cattolica indipendente, ha pubblicato una lunga intervista a Madre Aline in cui si denuncia il ricorso sistematico a presunti abusi per silenziare le voci scomode. In gioco, più che le regole monastiche, sembrano esserci ruoli, influenze e visibilità.
Il presente delle suore fuggitive
Oggi le religiose, tra cui Madre Aline, vivono in una casa a San Vendemiano, sostenute da benefattori e fedeli. Il ritorno in convento appare improbabile, eppure la battaglia legale e spirituale continua. La badessa ha presentato ricorso alla Segnatura Apostolica, determinata a far emergere la verità.
Perché questa storia non va dimenticata
In un’epoca in cui il dolore, il sangue e la morbosità monopolizzano l’informazione, storie come quella di Madre Prosecco rischiano di perdersi. Eppure parlano di libertà, di identità, di coraggio e perfino di fede. Meriterebbero un’attenzione diversa, non morbosa ma consapevole, per dare voce a chi ha scelto di non subire in silenzio.
Storie vere
Aymane, il ragazzo che ha salvato due turisti e poi è scomparso tra le onde
Il giovane di 16 anni ha perso la vita dopo un gesto eroico, mentre la coppia che ha salvato è fuggita senza lasciare traccia.

Aymane Ed Dafali aveva solo 16 anni, una vita davanti e un cuore grande. Viveva in Italia da tre anni con la sua famiglia, costruendo giorno dopo giorno il suo futuro. Ma nel pomeriggio dello scorso sabato a Lido Estensi, sulle coste del Ferrarese, tutto è cambiato. Un gesto di coraggio, un tuffo per salvare due persone in difficoltà, e poi il silenzio. Aymane non è più riemerso. Era uscito in mare con alcuni amici, su un pedalò. La corrente nel canale Logonovo, una zona vietata alla balneazione, aveva trascinato una coppia di turisti dove non toccavano più. Erano in difficoltà, rischiavano di annegare. Aymane ha deciso di agire, si è tuffato senza esitare. Anche un suo amico ha provato ad aiutarlo, ma indossava un salvagente, riuscendo così a mettersi in salvo.
Aymane: Marrakech – Rovigo una viaggio pieno di speranza
Nel frattempo, i bagnini in servizio, Filippo Barillari e Moreno Uggeri, si sono accorti della situazione e sono intervenuti. Hanno tratto in salvo la coppia, li hanno riportati in acque sicure. Solo in quel momento gli amici di Aymane hanno lanciato l’allarme: il loro amico non era più visibile, era scomparso sott’acqua. Si sono attivate le ricerche, ma il tempo giocava contro di lui. Poco dopo, il corpo di Aymane è stato recuperato, ormai privo di vita. Aymane Ed Dafali era originario del villaggio marocchino di Jbiel, nella regione di Marrakech, e viveva in Italia da tre anni con la sua famiglia. Risiedeva a Castelnovo Bariano, in provincia di Rovigo.
E la coppia di turisti?
I due turisti sono spariti subito dopo il salvataggio, senza lasciare traccia, senza preoccuparsi di chi aveva sacrificato la sua vita per loro. I testimoni raccontano di giovani tra i 20 e i 30 anni, che potrebbero non essersi accorti della tragedia o aver preferito fuggire, spaventati. Ad oggi, risultano irreperibili, e la loro versione dei fatti manca nella ricostruzione trasmessa alla Procura di Ferrara. Intanto, il padre di Aymane, Abderrohim Ed Dafali, è arrivato a Rovigo, distrutto dal dolore. «Era un ragazzo sempre felice, tranquillo, bravo», ha detto con voce spezzata. La salma del giovane è ancora all’ospedale di Cona, in attesa dell’esame autoptico. La giustizia farà il suo corso, ma la realtà è una sola: Aymane ha perso la vita per salvare due persone che, una volta al sicuro, si sono dileguate senza nemmeno voltarsi indietro. Un eroe silenzioso, un gesto di altruismo che ha avuto un prezzo troppo alto. E un dolore che nessuna parola potrà mai alleviare.
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