Cronaca
Dalla TV al carcere: 2 anni e 8 mesi al “guru” delle diete Panzironi
Condannato per esercizio abusivo della professione medica. Nei guai anche il fratello Roberto. Diete, consigli personalizzati e integratori via call center: per i giudici non era informazione, ma medicina illegale

La parabola del “guru delle diete” Adriano Panzironi finisce dove non aveva previsto: in tribunale, con una condanna a due anni e otto mesi per esercizio abusivo della professione medica. L’ex giornalista, diventato celebre con le sue trasmissioni sul canale Life 120 Channel, è stato riconosciuto colpevole per aver dispensato, a una vasta platea televisiva, consigli nutrizionali qualificabili come veri e propri atti medici.
Nei guai anche il fratello Roberto Panzironi, condannato a un anno e quattro mesi per aver “concorsato moralmente e materialmente” nelle attività illecite. I due, secondo la procura, non si limitavano a diffondere opinioni o informazioni, ma fornivano diete dettagliate, anche personalizzate, attraverso canali diretti con gli spettatori: call center, chat su Facebook, contatti privati. Un sistema ben rodato, che ha attirato l’attenzione di milioni di telespettatori ma anche delle autorità sanitarie.
“Ha esercitato abusivamente la professione medica nei confronti di una numerosa platea di ascoltatori”, si legge nella sentenza emessa al tribunale di piazzale Clodio. Un’accusa rafforzata dalla pubblicazione del libro “Vivere 120 anni – Le verità che nessuno vuole raccontarti”, in cui l’autore proponeva menù, composizioni di pasti e metodi di nutrizione con tono prescrittivo, a sostegno delle sue teorie anti-sistema.
Particolarmente rilevante, secondo i giudici, il fatto che Panzironi abbia agito “anche in forma personalizzata”, spingendosi oltre il semplice suggerimento e entrando in un campo riservato ai medici abilitati. Il tutto senza alcun titolo o autorizzazione.
A costituirsi parte civile nel processo sono stati l’Ordine dei medici di Roma, Milano, Napoli e Venezia, l’Ordine dei giornalisti del Lazio e persino l’associazione italiana dei panificatori (Assipan), che ha visto nei messaggi del “guru” un attacco diretto al consumo di pane e carboidrati.
Per anni, Adriano Panzironi ha cavalcato l’onda della popolarità televisiva, alimentando consensi (e polemiche) con slogan provocatori e promesse di longevità. Ma ora, a mettere il punto fermo sulla sua attività non è stata la TV, ma un tribunale.
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Cronaca Nera
Caso Garlasco, i Sempio di nuovo sotto accusa: soldi sospetti e un Dna che riapre l’incubo
Le zie del ragazzo avrebbero versato 43 mila euro al padre tra il 2016 e il 2017. Quei soldi, secondo gli inquirenti, sarebbero serviti a ottenere l’archiviazione. Ma il Dna trovato sotto le unghie della vittima potrebbe cambiare tutto.

Diciassette anni dopo l’omicidio di Chiara Poggi, la vicenda di Garlasco torna a scuotere l’opinione pubblica. Andrea Sempio, amico di Marco Poggi e già due volte prosciolto, è di nuovo l’unico indagato. La svolta arriva da due fronti: un’inchiesta per corruzione sull’ex procuratore di Pavia Mario Venditti, che aveva chiesto l’archiviazione del caso, e un nuovo esame del Dna ritrovato sotto le unghie di Chiara.
Secondo la Guardia di Finanza, tra il 2016 e il 2017 due zie di Andrea avrebbero versato sul conto del fratello Giuseppe, padre del ragazzo, assegni per un totale di 43 mila euro. Soldi che, per gli investigatori, potrebbero essere stati destinati a “influenzare” le decisioni giudiziarie. Il padre si difende: «Erano solo spese legali», ha dichiarato, spiegando di aver sempre annotato tutto su foglietti e agende. Uno di questi, sequestrato in casa sua, riportava la scritta: “Venditti gip archivia X 20.30 €”.
Per la difesa si tratta di una nota sui costi delle marche da bollo, ma per gli inquirenti è un indizio che pesa, anche perché quei soldi furono prelevati subito in contanti. A conferma dei sospetti, le perquisizioni hanno coinvolto non solo i Sempio ma anche alcuni carabinieri dell’epoca, accusati di aver mantenuto contatti impropri con la famiglia.
Parallelamente, la procura di Pavia ha riaperto il fascicolo sull’omicidio, autorizzando un nuovo esame genetico sul materiale biologico trovato sotto le unghie di Chiara Poggi. «Quel Dna è valido e sarà confrontato con quello di Andrea Sempio», ha spiegato il genetista Marzio Capra, consulente della famiglia Poggi.
Una decisione che riaccende l’attenzione su un caso mai davvero chiuso. «Non vogliamo vendette – ha dichiarato l’avvocato della famiglia Poggi – ma verità». I Sempio, invece, si dicono vittime di un accanimento mediatico: «Abbiamo sempre agito alla luce del sole», ha detto la madre di Andrea, Daniela Ferrari.
Resta ora da capire se le indagini confermeranno l’innocenza già dichiarata di Sempio. O se, a 17 anni dal delitto, il mistero di Garlasco dovrà essere riscritto da capo.
Cose dell'altro mondo
Quando il “morto” torna in vita: l’incredibile sorpresa al funerale
La polizia locale aveva attribuito un’identità basandosi su indizi fragili, il corpo è stato consegnato ai familiari — finché il giovane creduto morto non ha fatto irruzione nella veglia funebre, costringendo a rivedere l’intera vicenda.

La mattina seguente al disastro stradale, nei pressi di un ponte di Villa Carmela, le autorità scoprono un corpo irreconoscibile: profondamente mutilato dall’impatto con un camion, senza documenti addosso, senza tracce certe che possano identificare la vittima. Secondo le prime ricostruzioni, l’incidente è stato interpretato come un gesto volontario, ma i pubblici ministeri impongono un’indagine per determinarne l’identità.
In assenza di un riconoscimento formale, la notizia che un corpo giaceva non reclamato all’obitorio si diffonde rapidamente in zona. Il giorno dopo, una donna — accompagnata da una sorella — si presenta davanti agli agenti, sostenendo che l’individuo investito potrebbe essere suo figlio, scomparso da giorni. Pur con il volto irriconoscibile, ella riconosce l’abbigliamento e alcune caratteristiche del corpo come familiari e chiede che venga consegnato loro. Le autorità, pur con riserve, cedono alla pressione: la salma viene affidata alla famiglia per i funerali.
Mentre il feretro è esposto e i parenti vegliano, accade l’impensabile: un giovane irrompe nella veglia e annuncia di essere proprio il “de cuius”. Con voce incredula, afferma che è vivo — e che nella bara giace un estraneo. L’emozione è violenta: crolli, urla, svenimenti tra i presenti. Una vicina ricorda: “Molti erano terrorizzati, qualcuno urlava, altri piangevano… eravamo tutti senza parole.” Fanpage
Il ragazzo racconta di essersi recato in un paese vicino, dove avrebbe perso i sensi dopo aver fatto uso di droga, restando isolato per alcuni giorni senza poter comunicare con la famiglia. Affermando di non sapere che i suoi parenti lo avevano riconosciuto come vittima dell’incidente, chiede spiegazioni: “Non sapevo che stessi ricevendo un funerale”. Fanpage
La famiglia, sconvolta, avverte la polizia. Le autorità disporranno che il corpo nella bara venga riportato all’obitorio per ulteriori accertamenti. Nel frattempo, il clamore della vicenda attira l’attenzione anche in una città vicina, dove una famiglia segnala la smarrimento di un uomo, Maximiliano Enrique Acosta, 28 anni, scomparso da alcuni giorni. I media locali indicano che quella stessa salma — già oggetto del primo funerale — potrebbe appartenere a lui. Dopo un secondo riconoscimento, la salma viene definitivamente restituita ai familiari di Acosta per il seppellimento.
Dietro questa storia dall’apparenza incredibile, tuttavia, si celano questioni ben più gravi: l’assenza di criteri affidabili per l’identificazione, l’urgenza delle autorità di dare un nome al cadavere, e la tendenza umana a ricorrere alla somiglianza quando mancano prove certe. In questo caso, il riconoscimento basato su abbigliamento e dettagli superficiali ha assunto il valore di verità, senza ulteriori verifiche forensi.
L’episodio solleva interrogativi sul sistema giudiziario e la prassi investigativa: come garantire che un’identificazione sia valida quando le condizioni del corpo sono compromesse? Qual è il grado di responsabilità dei parenti che affermano riconoscimenti affrettati? E, soprattutto, quali guai possono scaturire quando le emozioni prevalgono sulla prudenza nelle procedure?
In fondo, non si tratta soltanto di un caso singolare o di un colpo di scena mediatico: è un monito sul rispetto della dignità del corpo e sul diritto all’identità certa, che anche un funerale non può ribaltare senza verità documentate.
Cose dell'altro mondo
Dal sito del Comune al portale hard: a Santa Maria a Monte la politica finisce “a luci rosse” per un dominio scaduto
Doveva essere la vetrina politica della maggioranza che guida il Comune, ma si è trasformato in un portale hard. È bastato il mancato rinnovo del dominio web della lista civica “Santa Maria a Monte Sempre” perché un sito a luci rosse ne prendesse il posto, mostrando foto di donne nude e messaggi inequivocabili.

Un click. E al posto del programma elettorale della lista civica di centrodestra, compare un sito erotico con immagini esplicite e offerte di incontri “nel raggio di trenta chilometri”. Succede a Santa Maria a Monte, Comune di circa tredicimila abitanti in provincia di Pisa, dove la coalizione “Santa Maria a Monte Sempre”, che dal 2023 sostiene la sindaca Manuela Del Grande, si è ritrovata suo malgrado protagonista di un incidente digitale che ha fatto il giro dei social.
L’anomalia è stata scoperta da due consigliere di opposizione, Elisa Eugeni e Patrizia Faraoni, del gruppo “Sinistra Plurale”, che hanno segnalato l’accaduto con una pec indirizzata direttamente alla prima cittadina. «Nel cercare in rete il suo programma elettorale – scrivono – abbiamo constatato che il sito ufficiale della lista civica risulta compromesso. Non abbiamo voluto renderlo pubblico subito per senso di responsabilità, ma la invitiamo a intervenire per tutelare l’immagine delle istituzioni e del Consiglio comunale».
Il tono è civile ma fermo. Eppure, la risposta della sindaca arriva tagliente come una lama. «Abbiamo letto la vostra comunicazione con una certa perplessità – replica Manuela Del Grande – un po’ per il tono, un po’ per la gravità che cercate di attribuire a un fatto in sé del tutto neutro, ma soprattutto per il livello di confusione tecnica che permea ogni riga della vostra missiva».
Poi la spiegazione: il dominio in questione, acquistato il 22 marzo 2023, è scaduto due anni dopo, il 22 marzo 2025. Non essendo stato rinnovato, è tornato sul mercato digitale libero. Da quel momento, qualsiasi nuovo proprietario ha potuto registrarlo e farne ciò che voleva. «Dal 22 marzo 2025 – scrive la sindaca – la responsabilità e il controllo dei contenuti non sono più in alcun modo riconducibili alla nostra lista. Avreste evitato una figuraccia se vi foste informate meglio».
Ma la vicenda, invece di spegnersi, è esplosa. Le opposizioni hanno deciso di rendere pubbliche le mail, denunciando “arroganza istituzionale” e “poca attenzione all’immagine pubblica del Comune”. Nei commenti social, ironia e sarcasmo si sono sprecati: “Santa Maria a Monte Sempre… più caliente che mai”, scrive qualcuno. “Un click di troppo e ti trovi su un sito vietato ai minori”, scherza un altro.
In realtà, il fenomeno non è nuovo. Accade spesso che domini web non rinnovati finiscano acquistati da società che li rivendono o li riutilizzano per contenuti completamente diversi, compresi quelli pornografici. Ma che a cadere nel tranello sia una lista civica al governo di un Comune, con tanto di nome e logo ancora visibili nei motori di ricerca, è tutt’altra storia.
La sindaca Del Grande, 47 anni, alla guida di una coalizione di centrodestra composta da esponenti di Fratelli d’Italia, Forza Italia e civici, difende la propria amministrazione: «L’impatto istituzionale non è quello che pensano loro. Parlano di “reputazione delle istituzioni” e di “contenuti lesivi” senza comprendere che si tratta di una questione tecnica, non politica. È un attacco infondato, portato avanti con leggerezza e superficialità».
Nel frattempo, il link incriminato continua a essere attivo, anche se il Comune sta valutando un intervento per segnalare ai motori di ricerca la presenza di contenuti inadatti. Non mancano però i commenti sarcastici dei cittadini: «Almeno così qualcuno visita il sito», dice un commerciante.
Dietro la gaffe digitale, si intravede anche il segno dei tempi: nella provincia toscana più tranquilla, la politica locale si scontra ora con gli effetti di un web sempre più spietato. Un dominio dimenticato diventa una trappola perfetta per l’imbarazzo. E il confine tra cronaca e farsa si assottiglia.
Per l’opposizione, la vicenda «dimostra una mancanza di cura e di professionalità». Per la sindaca, invece, «un banale errore tecnico, gonfiato ad arte per creare clamore». In ogni caso, la lezione resta: in tempi di politica digitale, anche un click può trasformarsi in un caso politico.
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