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Spettacolo

Addio a Hulk Hogan, leggenda del wrestling e star globale

È morto a 71 anni Terrence “Hulk Hogan” Bollea, l’atleta che ha rivoluzionato il wrestling e conquistato anche cinema e tv. Stroncato da un malore nella sua casa in Florida, era il simbolo dell’Hulkamania e il volto della WWE. Sting: “Era il Michael Jordan del wrestling”

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    Il mondo del wrestling è in lutto per la scomparsa di Hulk Hogan, icona indiscussa del ring e volto simbolo della WWE per oltre trent’anni. L’ex campione, il cui vero nome era Terrence Gene Bollea, è morto all’età di 71 anni in un ospedale della Florida, dove era stato trasportato d’urgenza dopo essersi sentito male nella sua abitazione di Clearwater. Secondo quanto riportato da TMZ Sports, Hogan sarebbe stato colpito da un arresto cardiaco improvviso, connesso a problemi cardiovascolari di cui soffriva da tempo. Negli ultimi anni si era sottoposto a numerosi interventi chirurgici alla schiena e alle anche, ma nulla lasciava presagire un epilogo tanto improvviso.

    Nato ad Augusta (Georgia) l’11 agosto 1953, Hulk Hogan è stato molto più di un lottatore.

    È stato il volto del wrestling mondiale, l’uomo che ha trasformato uno sport di nicchia in un fenomeno planetario. Il suo carisma fuori dal comune e il personaggio larger-than-life lo hanno reso un’icona generazionale. “Era il Muhammad Ali del nostro mondo”, ha dichiarato Sting, altra leggenda della disciplina.

    Sei volte campione WWF/WWE, protagonista del celebre match del 1987 contro André the Giant al Silverdome davanti a oltre 93.000 spettatori. Hogan è stato anche un abile comunicatore e uomo d’affari: l’Hulkamania, il suo brand personale, ha venduto centinaia di milioni di dollari in merchandising. Il suo apporto fu determinante anche per la sopravvivenza della WWE stessa. Che nel 1985 rischiava il tracollo e si salvò proprio grazie all’enorme successo di Wrestlemania, trainata dal suo nome.

    Ma Hogan è stato anche volto del cinema e della tv. Recitò al fianco di Sylvester Stallone in Rocky III (1982) e fu protagonista della serie televisiva Thunder in Paradise. Il suo ingresso nel wrestling, quasi casuale, avvenne a fine anni ’70, quando fu notato da Jack Brisco mentre suonava il basso in un locale. Da lì, un’ascesa travolgente.

    Nel corso della sua carriera, ha combattuto anche in Giappone. Dove sconfisse Antonio Inoki, e ha contribuito a esportare la cultura del wrestling a livello globale. Negli ultimi anni, pur lontano dal ring, continuava a essere attivissimo come personaggio pubblico, testimonial e punto di riferimento per le nuove generazioni di wrestler.

    Con la sua scomparsa se ne va un pezzo di storia dello spettacolo sportivo americano. Ma l’Hulkamania, il mito costruito attorno alla sua forza, al suo carisma. Al suo inconfondibile “Whatcha gonna do when Hulkamania runs wild on you?”, continuerà a vivere per sempre.

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      Televisione

      Charlie Hunnam, l’uomo che guarda nell’abisso: “Interpretare Ed Gein mi ha terrorizzato”

      Tra trasformazioni fisiche estreme, introspezione psicologica e la sfida di umanizzare il male: il ritorno di Hunnam segna una delle prove più intense della sua carriera.

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      Charlie Hunnam

        Non è facile spaventare Charlie Hunnam. Eppure, lo stesso attore che per anni ha incarnato il carisma ribelle di Sons of Anarchy ammette che il suo ultimo ruolo lo ha «terrorizzato». Il motivo è semplice: per la terza stagione della serie antologica di Netflix Monster, ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, Hunnam è chiamato a vestire i panni di Ed Gein, il serial killer del Wisconsin la cui storia ha ispirato capolavori come Psycho, Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti.

        L’interpretazione ha richiesto all’attore britannico un’immersione profonda e disturbante nei meandri della mente umana. «Questo ruolo mi ha costretto a guardare il lato più oscuro dell’uomo — ha raccontato in un’intervista —. Non volevo che diventasse una caricatura del male. Dovevo capire come un essere umano possa arrivare a tanto».

        Un viaggio nella follia americana

        Ambientata negli anni Cinquanta, Monster: La storia di Ed Gein ricostruisce la vicenda del “macellaio di Plainfield”, noto per i suoi crimini che scioccarono l’America rurale. Dopo il successo mondiale delle precedenti stagioni dedicate a Jeffrey Dahmer e John Wayne Gacy, la nuova serie ha debuttato in vetta al catalogo Netflix, generando al contempo entusiasmo e polemiche per il modo crudo e realistico con cui rappresenta la violenza.

        Hunnam, 45 anni, ha dovuto affrontare un intenso lavoro di preparazione: ha perso circa 14 chili per riprodurre la corporatura esile del vero Gein, ha studiato ore di registrazioni dell’interrogatorio e ha visitato la sua cittadina natale. «La parte più difficile non è stata la trasformazione fisica, ma la comprensione psicologica», ha spiegato. «Dietro le sue azioni c’erano traumi, isolamento e una malattia mentale mai curata. L’obiettivo era mostrare l’uomo prima del mostro».

        Da Newcastle a Hollywood: la parabola di un ribelle

        Nato nel 1980 a Newcastle upon Tyne, Hunnam è cresciuto nel nord industriale dell’Inghilterra, tra pub, campi da calcio e una famiglia segnata da difficoltà economiche. Dopo un’infanzia turbolenta e un trasferimento forzato nella tranquilla Cumbria, trova nella recitazione la sua via di fuga. Scoperto quasi per caso da un talent scout della BBC, debutta a 17 anni nella serie Byker Grove e poco dopo conquista l’attenzione del pubblico in Queer as Folk, dove interpreta un adolescente alla scoperta della propria identità.

        Il salto internazionale arriva con Sons of Anarchy (2008–2014), in cui dà vita a Jax Teller, il tormentato leader di una gang di motociclisti. Quel ruolo lo consacra come icona maschile e simbolo del ribelle moderno. Da allora, alterna cinema e tv in produzioni di prestigio come Pacific Rim di Guillermo del Toro, Civiltà perduta di James Gray, King Arthur e The Gentlemen di Guy Ritchie.

        Il metodo Hunnam: tra dedizione e tormento

        Per affrontare il ruolo di Gein, l’attore ha adottato un metodo quasi ascetico. «Ho vissuto da solo per settimane, limitando i contatti con il mondo esterno», ha rivelato. Durante le riprese, ha evitato ogni distrazione, immergendosi completamente nella parte. «Più studiavo la sua vita, più capivo che interpretarlo significava affrontare le paure più profonde, le mie e quelle di chiunque».

        Al termine delle riprese, Hunnam ha compiuto un gesto simbolico: ha visitato la tomba di Ed Gein, lasciandosi alle spalle il personaggio. «Ho voluto salutarlo — ha detto —. Gli ho promesso che avrei raccontato la sua storia con rispetto, ma che non l’avrei portato con me».

        Critiche e riflessioni: chi è il vero mostro?

        Come spesso accade con le opere di Ryan Murphy, anche questa stagione ha sollevato dibattiti sull’etica della rappresentazione del male. Hunnam, però, difende la scelta artistica: «Non stiamo glorificando la violenza. La nostra intenzione è capire. Mostrare il male per ciò che è: un fallimento umano e sociale».

        E lancia una provocazione: «Gein era il mostro della storia, ma chi è il mostro oggi? Hitchcock, che ha trasformato la sua vicenda in intrattenimento? O noi spettatori, che guardiamo queste storie per sentirci al sicuro di fronte all’orrore degli altri?».

        Un attore, due vite

        Lontano dai set, Hunnam conduce un’esistenza sorprendentemente riservata. Da quasi vent’anni è legato alla designer di gioielli Morgana McNelis, con cui vive in California, tra natura e discrezione. «Sono con lei da metà della mia vita», ha raccontato. «Non ho bisogno di un certificato per sapere che è la persona giusta».

        Nel 2025, con Monster: La storia di Ed Gein, Hunnam dimostra di essere più di un sex symbol o di un eroe da action movie: è un attore che non teme di sporcarsi le mani con l’oscurità. E forse è proprio questa vulnerabilità, questa capacità di guardare dentro l’abisso senza arretrare, che lo rende — ancora oggi — una delle figure più complesse e affascinanti di Hollywood.

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          Spettacolo

          A Palazzo Parigi serata di solidarietà per l’India: la gala dinner di Care to Action con Elisabetta Zegna, Romina Power e Kabir Bedi.

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            Una sala elegante, luci calde e l’atmosfera delle grandi occasioni. Palazzo Parigi, nel cuore di Milano, ha ospitato la cena di gala di Care to Action, l’organizzazione impegnata da anni in India a sostegno dell’infanzia, delle donne e delle comunità più vulnerabili. Una serata che ha unito charity, istituzioni e volti noti dello spettacolo per ricordare quanto la solidarietà possa essere un ponte tra culture e mondi lontani.

            La missione raccontata da chi la guida
            A fare gli onori di casa Elisabetta Zegna, presidente di Care to Action, che ha ricordato l’impegno dell’associazione sul campo e i progetti dedicati ai bambini e alle famiglie nelle aree più fragili del subcontinente indiano. Un lavoro costante, fatto di scuole, programmi educativi e supporto alle donne, pensato per creare strumenti reali di emancipazione e futuro.

            Al fianco della presidente, il direttore generale Antonio Benci, che ha illustrato i risultati ottenuti e le nuove sfide, dalla tutela dell’istruzione ai percorsi di protezione contro sfruttamento e povertà infantile.

            Romina Power e Kabir Bedi, ambasciatori di cuore
            A dare forza al messaggio dell’associazione, due testimonial d’eccezione: Romina Power e Kabir Bedi, Global Ambassadors di Care to Action. Le loro parole hanno messo al centro il senso profondo del sostegno umano, raccontando l’importanza di essere presenti là dove mancano diritti e opportunità. Un impegno che non si limita all’immagine, ma si traduce in presenza, visite nei villaggi e incontri con le famiglie beneficiarie dei progetti.

            Moda e charity, stile e solidarietà
            Tra gli ospiti della serata anche lo stilista Alviero Martini, da anni vicino all’associazione. Presenza silenziosa ma significativa, la sua testimonianza conferma come il mondo della moda e della creatività possa essere alleato concreto nelle cause sociali, anche lontane dai riflettori del glamour.

            Milano ha così accolto una notte diversa dalle altre: meno sfarzo e più essenza. Una cena che non ha cercato titoli roboanti, ma ha puntato a raccontare storie, a mettere in contatto mondi, a ricordare che la solidarietà — quando nasce da una visione lunga e da mani che agiscono — non ha confini. Una promessa, quella di Care to Action, che continua a vivere tra i vicoli delle città indiane e i saloni eleganti d’Europa, un passo alla volta, una vita alla volta.

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              Personaggi e interviste

              Achille Costacurta, il racconto shock al podcast: “Ho preso sette boccettine di metadone per suicidarmi”.

              Nel podcast One More Time Achille Costacurta ricorda l’adolescenza tra droghe, ricoveri forzati e violenza, fino al tentativo di suicidio a 15 anni: “Mi hanno salvato, non so come sia vivo”. La svolta in Svizzera, la diagnosi di ADHD e il legame ritrovato con i genitori.

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                La storia di Achille Costacurta non è un racconto patinato. È una discesa nel buio e una lenta risalita, narrata con lucidità nel podcast One More Time di Luca Casadei. “Ho iniziato a fumare a 13 anni, al compleanno dei 18 ho provato la mescalina”, racconta. Una spirale di abusi, scontri con la realtà e con la legge: “Una volta ho avuto una colluttazione con la polizia. Ero sotto effetto e ho fatto il matto su un taxi. Il poliziotto arriva, mi tira un pugno in faccia, io ero allucinato quindi l’ho spaccato di legnate. Lì dopo poco mi fanno il primo TSO, me ne hanno fatti 7 in un anno”.

                TSO, disperazione e il buio più profondo
                Non risparmia nulla, nemmeno i momenti più duri. “A Milano ho trovato due dottori cattivissimi che mi hanno legato al letto per tre giorni… urlavo che mi serviva il pappagallo, io ero legato e mi dovevo fare la pipì addosso”. Un dolore quegli anni che tocca anche la famiglia: “L’unica volta che ho visto piangere mio padre è stata quando gli chiedevo di andare a fare l’eutanasia, perché non provavo più nulla”.

                Il punto più basso arriva a 15 anni e mezzo. Arresti, comunità, isolamento. E la fuga verso l’estremo: “Prendo le chiavi dell’infermeria, sette boccettine di metadone. Le bevo tutte. Volevo suicidarmi. Arrivano i pompieri e sfondano la porta… nessun medico ha saputo dirmi come io sia ancora vivo”.

                La Svizzera e la diagnosi che cambia tutto
                La svolta arriva dopo. “Quando sono arrivato in clinica mi hanno detto: ‘Se fossi stato fuori altri 10 giorni saresti morto’”. In Svizzera scopre l’ADHD. “Tu ti volevi auto-curare con la droga”, gli dicono i medici. Una frase che gli rimane impressa. Anche i genitori partecipano a un corso specifico: “Da lì non è mai più successo niente, perché loro sanno come dirmi un no”.

                Una nuova consapevolezza
                Oggi Achille ha 21 anni e guarda avanti: “Sono fiero di me. Non mi vergogno di quello che mi è successo, perché sono una persona normale. Ho imparato a non dimenticare quei traumi, ma a farne tesoro”.

                Non uno slogan motivazionale, ma una verità conquistata, passo dopo passo. E, come dice lui, “grazie a chi non ha smesso di esserci”.

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