Mondo
Trump vuole il Nobel per la Pace. Ma di pacifico, in lui, c’è solo l’ego
Si paragona a Mandela, ma firma accordi che non reggono una settimana, minaccia l’Iran, accarezza Netanyahu e rilancia la pena di morte. Ora sogna il Nobel per la Pace, come se la pace fosse un reality di cui essere il protagonista.

Donald Trump non vuole solo governare il mondo. Vuole anche essere premiato per averlo messo a ferro e fuoco. Il 10 ottobre verrà annunciato il nuovo Nobel per la Pace e, tra i candidati più discussi, spunta proprio lui: l’uomo che bombarda, firma tregue che non durano un giorno e si autoproclama salvatore dell’umanità.
«Ho concluso sette guerre», si è vantato dal palco dell’Onu, mentre il pianeta conta i danni lasciati dalle sue “missioni di pace”. Dall’Iran al Congo, dal Caucaso a Gaza, Trump si attribuisce meriti che non ha e si vende come un mediatore globale. In realtà, le sue “pacificazioni” sono contratti commerciali camuffati da diplomazia.
Gli Accordi di Abramo, che nel 2020 dovevano normalizzare i rapporti tra Israele e il mondo arabo, oggi sono ridotti in macerie. Il Medio Oriente brucia, Netanyahu lo ringrazia a colpi di missili e i Paesi firmatari si sfilano uno dopo l’altro. Lo stesso vale per l’Asia, dove i “cessate il fuoco” tra India e Pakistan o tra Thailandia e Cambogia sono serviti solo a fargli scrivere qualche tweet trionfale.
Ma il colpo più grottesco resta la “pace” afghana. Trump firmò con i Talebani un accordo di resa travestito da vittoria, lasciando a Biden il compito di gestire la disfatta. La sua eredità? Un Paese tornato indietro di vent’anni e le donne di nuovo sotto il burqa.
Eppure, nonostante guerre sospese e bombe che ancora cadono, Trump insiste: “Merito il Nobel”. Del resto, ha appena ribattezzato il Pentagono “Dipartimento della Guerra” e reintrodotto la pena di morte a Washington DC. È la sua personale idea di “fratellanza tra i popoli”.
Il Comitato di Oslo, se ha ancora un briciolo di senso dell’umorismo, potrebbe anche premiarlo. Ma dovrebbe farlo per la categoria giusta: miglior attore non protagonista nel film della pace mondiale. Perché se davvero il Nobel finisse nelle sue mani, l’unica cosa a morire sarebbe la credibilità del premio stesso.
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Mondo
Sarkozy in carcere? Un’onta per la Francia e per l’Europa
Una condanna senza prove definitive e un esito che inquieta tutta l’Europa. Carla Bruni al suo fianco, tra orgoglio e malinconia: “Love is the answer”.

I giornali francesi lo hanno spiegato chiaramente: il ricorso in appello non sospende la sentenza. Nicolas Sarkozy, presidente della Repubblica francese dal 2007 al 2012, rischia davvero di finire in prigione. È un caso giudiziario opaco, senza prove dirette di finanziamenti illeciti, ma con una pena pesante che pesa come un macigno sulla storia recente d’Europa.
Un ex capo di Stato dietro le sbarre sarebbe un oltraggio penoso per la Francia e un colpo alla sua immagine nel mondo. In nessun Paese europeo del dopoguerra un presidente è mai stato rinchiuso in carcere. Per questo, il caso Sarkozy non riguarda soltanto Parigi, ma l’intera Europa, che nella Francia ha sempre visto una delle sue madri culturali e politiche.
Il rischio è che l’Europa stessa, con questo precedente, scivoli verso modelli sudamericani, dove la democrazia spesso si piega al populismo giudiziario e al rancore politico. In Italia non è mai accaduto nulla di simile, sebbene anche la nostra storia sia punteggiata da cadute rovinose: dal presidente Giovanni Leone costretto alle dimissioni alle campagne giudiziarie di Mani Pulite, fino alla fine amara di Bettino Craxi a Hammamet, alla condanna ai servizi sociali di Silvio Berlusconi, e ai processi infiniti a Giulio Andreotti. Ma la galera, per un capo di Stato, mai.
Ecco perché il caso Sarkozy fa tremare l’opinione pubblica francese. L’ex presidente continua a dichiararsi innocente, mentre i giudici restano fermi nelle loro posizioni. Accanto a lui, Carla Bruni, che ha seguito ogni udienza con discrezione e dignità, si è trasformata nella sua più fedele alleata. Il suo commento, semplice e poetico, riassume in una frase tutta la tragedia umana di questa vicenda: “Love is the answer”.
Un messaggio d’amore, ma anche di sfida. Come se la moglie dell’ex presidente volesse ricordare al mondo che, al di là dei tribunali e delle sentenze, c’è ancora un uomo, un simbolo e una nazione che rischiano di perdere la propria misura.
Mondo
Il padre di Papa Leone XIV, eroe del D-Day: Louis Marius Prevost tra lo sbarco in Normandia e la fede
Louis Marius Prevost, padre di Papa Leone XIV, prese parte allo sbarco in Normandia il 6 giugno 1944 come ufficiale della Marina degli Stati Uniti. Stimato per disciplina e dedizione, partecipò anche all’Operazione Dragoon nel sud della Francia, prima di rientrare in patria e dedicarsi alla scuola e alla comunità religiosa. Una vita segnata da senso del dovere e fede, eredità che il figlio ha portato fino al soglio pontificio.

Il destino della famiglia Prevost si intreccia con la Storia. Louis Marius Prevost, padre di Papa Leone XIV, classe 1920, fu uno degli ufficiali della Marina statunitense impegnati nello sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944. A rivelarlo sono i documenti conservati al National Archives and Records Administration di St. Louis, Missouri, che raccontano la parabola di un giovane americano arruolato con il programma di addestramento accelerato V-7.
Il 24 novembre 1943 ottenne il grado di guardiamarina della Riserva Navale, e poco dopo partì per l’Europa. Imbarcato sulla USS LST-286, una nave da sbarco in grado di trasportare uomini, mezzi e carri armati, partecipò al D-Day, uno degli eventi che segnarono la fine della morsa nazifascista. Nel 1944 prese parte anche all’Operazione Dragoon, lo sbarco nel sud della Francia.
I fascicoli ufficiali riportano come i suoi superiori ne apprezzassero le capacità organizzative, lo spirito di abnegazione e il senso del dovere. Qualità che gli valsero la promozione a tenente di vascello. Dopo quindici mesi di missione oltreoceano, Prevost fece ritorno negli Stati Uniti, dove scelse di dedicarsi all’educazione e alla vita comunitaria: divenne preside scolastico e catechista, continuando a trasmettere i valori di disciplina e servizio.
Il 25 gennaio 1949 sposò Mildred Agnes Martinez, dalla quale ebbe tre figli. Proprio il terzogenito, Robert Francis, sarebbe diventato, esattamente ottant’anni dopo la fine della guerra in Europa, Papa Leone XIV.
Una coincidenza simbolica, che lega la forza silenziosa di un padre soldato alla missione spirituale di un figlio chiamato a guidare la Chiesa cattolica.
Mondo
Sarkozy condannato a cinque anni: “Un’ingiustizia, ma dormirò in carcere a testa alta”. Carla Bruni contro la stampa
“Farò appello, io sono innocente”: Nicolas Sarkozy non si arrende dopo la sentenza che lo porterà presto in cella. L’ex capo dell’Eliseo parla di “gravità estrema per lo stato di diritto”. La moglie Carla Bruni protesta all’uscita dal tribunale, mentre Marine Le Pen denuncia la violazione della presunzione di innocenza.

Cinque anni di condanna, tre da scontare e due con la sospensione. Nicolas Sarkozy ha accolto il verdetto del tribunale di Parigi con parole di sfida, consapevole che l’ex presidente della Repubblica francese entrerà tra pochi giorni in carcere. Una decisione che arriva al termine di un’inchiesta durata oltre un decennio e che lo stesso imputato definisce “uno scandalo giudiziario”.





“Se vogliono che io dorma in carcere, ebbene dormirò in carcere, ma a testa alta. Io sono innocente. Questa ingiustizia è di una gravità estrema. Non confesserò mai qualcosa che non ho commesso. Naturalmente farò appello”, ha detto Sarkozy davanti alle telecamere, subito dopo la lettura della sentenza. Il procedimento riguardava i presunti finanziamenti illeciti provenienti dalla Libia di Muammar Gheddafi per sostenere la sua campagna del 2007.
Il tribunale, dopo anni di indagini, ha riconosciuto che la prova definitiva non è stata trovata. Lo stesso Sarkozy ha insistito su questo punto: “Più di dieci anni di inchiesta, milioni di euro spesi per cercare un finanziamento libico che il tribunale ha detto di non essere riuscito a trovare.”
La scena si è fatta tesa anche all’esterno dell’aula. Carla Bruni, moglie dell’ex presidente, ha reagito con rabbia strappando il coprimicrofono di Mediapart, il giornale d’inchiesta che più di dieci anni fa aveva portato alla luce i primi elementi del caso. Un gesto che mostra la frattura tra la coppia Sarkozy e una parte della stampa francese.
In serata, a smuovere ulteriormente il dibattito, è intervenuta Marine Le Pen. La leader del Rassemblement National ha parlato di “grande pericolo per i principi del diritto” e ha puntato il dito contro la scelta dei giudici di disporre l’incarcerazione immediata: “Si nega la presunzione di innocenza con l’esecuzione provvisoria della pena.”
La Francia si ritrova così divisa tra chi considera la condanna un atto di giustizia egualitaria e chi la interpreta come un segno di accanimento giudiziario contro una figura simbolo. Sarkozy, intanto, prepara l’appello, deciso a giocarsi l’ultima carta in un processo che segnerà non solo la sua storia personale, ma anche l’immagine della Quinta Repubblica.
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