Io c'ero
Domenico Ioppolo, Mr. Nielsen
Ha vissuto la sua infanzia a Polistena in Calabria, un “luogo magico per un bambino, fatto di luce, misteri, personaggi mitici e con una lingua che mi teneva avvolto come in una favola”. Nel 1968 anni si trasferisce a Milano per affrontare la sua “vita nuova”. Proprio in quell’anno di cambiamenti e trasformazioni per il mondo intero
Ha vissuto la sua infanzia a Polistena in Calabria, un “luogo magico per un bambino, fatto di luce, misteri, personaggi mitici e con una lingua che mi teneva avvolto come in una favola”, dice Domenico Ioppolo. Nel 1968 anni si trasferisce a Milano per affrontare la sua “vita nuova”. Proprio in quell’anno di cambiamenti e trasformazioni per il mondo intero.
Ragazze e ragazzi nella stessa classe per me fu un shock
Un anno che gli presentò subito il conto all’ingresso della scuola. Ancora troppo piccolo, e immerso in una koinè culturale e linguistica diversa, il tredicenne Domenico non riuscì a comprendere subito il mondo che aveva davanti. Un mondo fatto di libertà e contestazione della famiglia, musica come evasione, amore e vicinanza tra ragazzi e ragazze, dibattito sociale che per un ragazzo cresciuto a Polistena restavano elementi lontani che richiedevano un percorso non facile per essere assimilati e compresi.
Spiava i consumi degli italiani
“La Milano di quegli anni mi aveva colpito per due cose: era una città sporca e piena di smog ma era anche una città dove si sentiva un senso di libertà ad iniziare dalle classi miste che in Calabria erano ancora un utopia. Negli anni ’70 Milano era una continua fucina di eventi, cultura, incontri e occasioni di dibattito e di scambio. Aveva uno spessore che negli anni successivi ha saputo coltivale e mettere a frutto”. La sua carriera inizia nella sede italiana dell’americana Nielsen, società specializzata in rilevazioni sui consumi famigliari, quote di mercato, prezzi di beni di consumi e una serie di analisi a favore delle attività di marketing delle aziende.
La Milano da Bere, la pubblicità, gli eventi e la moda…
Domenico ci sa fare e sa vendere bene i dati che sforna ogni giorno. A chi? Ai giornali, alle case editrici ma soprattutto alle aziende che devono controllare l’andamento delle vendite proprie e dei concorrenti. Trattiene relazioni con i responsabili del marketing delle principali aziende di beni di largo consumo, con editori e con i centri media (chi confeziona e vende pubblicità per la tv, carta stampata, radio, affissione, etc). Siamo nella “Milano da Bere“, nella Milano della moda, del fashion, delle radio e delle prime tv private. Ma soprattutto siamo nella Milano dell’audience da cui trarre dati per pianificare investimenti pubblicitari.
Il manager dell’Audience
In Nielsen diventa prima chairman e poi Amministratore delegato di tutta l’area del Mediterraneo. A lui si deve tra l’atro la nascita del sistema di misurazione di internet Net Rating. Dopo diverse esperienze in Media internazionali ed italiani, negli ultimi anni si dedica al mondo dell’Educational, rilanciando e portando al successo Campus-Salone dello studente, la più grande piattaforma del mondo giovanile (1.300.000 giovani inscritti), di cui è Amministratore delegato, per cui ho ricevuto l’Award dei Parlamenti dell’area del Mediterraneo. Ha dedicato più di 20 anni all’insegnamento universitario, pubblicando diversi libri e saggi tra i quali “Le nuove parole del marketing” Class Editore.
Dal tuo punto di osservazione come è cambiata Milano?
“Ha perso il suo spessore culturale quasi nella sua totalità. Le grandi case editrici non esistono più. Oggi punta sulla mercificazione di ogni bene, ogni evento. Ogni occasione è buona per fare soldi. A Milano i milanesi non ci sono più. Sembra una sorta di Venezia. Un grande parco gioco con una presenza culturale circoscritta all’area digitale forse l’unica che gli è rimasta”.
E la moda?
“Parliamoci chiaro il made in Italy non esiste più è tutto in mano alle multinazionali americane o a brand francesi. Le produzioni non sono più italiane. L’unica cosa interessante è la formazioni dei giovani nel campo del fashion e nella formazione delle eccellenze di alcune università come l’Accademy di Talent Garden, Naba, Ied, Marangoni, l’Accademia Unidea.”.
Oggi vive nel Monferrato, perché questa scelta?
“Perché Milano è una città cara. E’ diventata una città che offre molto ma solo ai giovani. Sono gli adulti che la abbandonano. Per me è stata una scelta di vita. Un giovane a Milano oggi trova tante cosa, alcune di spessore altre eteree. Ma il business resta ancora qui, rispetto al resto d’Italia anche se sforna solo servizi dal banking alla finanza e ha perso la capacità produttiva. Ma anche i giovani sono cambiati. Rispetto a 30 anni fa sono più interessati a una qualità della vita migliore, più elevata. Vogliono stare in contatto tra di loro. Il lavoro non è più al primo posto nella scala dei valori. Questa esigenza diffusa nel corso dei prossimi anni dovrà mutare il lavoro. Bisognerà che le aziende ne prendano atto. La settimana corta per esempio è sempre più richiesta. A un colloquio di lavoro oggi si chiede subito lo smart working. Milano sta diventando una città leggera. Non c’è più dibattito e la città si sta accartocciando su se stessa. Assorbiamo quello che ci propongono. Si è perso il profilo culturale, si è persa l’anima. A differenza di Parigi che dal punto di vista culturale e dibattito per me resta ancora il centro del mondo”.
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Alessandro Piva una vita architettonica
“Ho scelto architettura ma volevo studiare filosofia”. Dice ma aveva una grande passione per il disegno e quindi scelse la facoltà che dal punto di vista professionale gli dava maggiori chances rispetto all’Accademia di Belle Arti. “Mi sono trasferito a Milano dove ho potuto lavorare nello studio di Umberto Riva specializzandomi in architettura d’interni”.
Nato in provincia di Vicenza, ha studiato IUAV di Venezia, istituto universitario di architettura di Venezia con Umberto Riva e si è laureato nel 1994 in progettazione architettonica. Alessandro Piva (classe 1965), architetto e designer, insegna al Polimi, Dipartimento del Design, come professore a contratto. Da qualche anno è tornato a Vicenza ma, oltre all’insegnamento alla Bovisa, ha continuato a mantenere forti legami con il capoluogo lombardo.
“Ho scelto architettura ma volevo studiare filosofia”. Dice ma aveva una grande passione per il disegno e quindi scelse la facoltà che dal punto di vista professionale gli dava maggiori chances rispetto all’Accademia di Belle Arti. “Mi sono trasferito a Milano dove ho potuto lavorare nello studio di Umberto Riva specializzandomi in architettura d’interni“.
Dove aveva conosciuto Riva?
“Avevo conosciuto Riva a Thiene perché lì lavorava Lino Contin, falegname specializzato e apprezzato in tutta la Milano del design, da Carlo Scarpa a Franco Albini, il progettista della Matropolitana Milanese. Quando il Contin aveva dei lavori che gli passava Riva, mi chiamava per farmeli vedere, visionare i dettagli, poter carpire quei particolari che richiedevano manualità e una artigianalità spiccata. Insomma nella sua bottega laboratorio di alta falegnameria c’era solo da imparare”.
Entra nello studio di Riva e inizia il suo praticantato
Affitta un appartamento da single. “Nel 1995 Milano era quella da bere. Avevo l’impressione che ci fosse molta dinamicità. Euforia nell’organizzazione di eventi e mostre. Era una città molto vivace, forse era anche più inclusiva. Oggi la vedo più efficiente e organizzata rispetto alla metà degli anni ’90. Nei servizi si percepisce una efficienza maggiore a discapito del costo della vita, delle abitazioni e delle case, schizzato alle stelle. Oggi mi sembra meno aperta dal punto di vista economico se si viene da fuori e si vuole iniziare a lavorare”.
Nel capoluogo lombardo Alessandro c’è rimasto fino al 2004 quando nasce suo figlio. Sua moglie, laureata in storia dell’arte, allora lavorava per la Fondazione Danese che collaborava con diversi design, “oggi rilevata dalla moglie del proprietario di Artemide“. Il fatto di aver lavorato con grossi professionisti di fama internazionali ha permesso a Piva di costruirsi una immagine professionale di un certo livello. “Un passepartout importante”, dice. “Oggi come ieri i meccanismi ottenere committenze di valore a Milano sono sempre gli stessi. Se si hanno contatti con le aziende è semplice proporre dei progetti. Il percorso di un designer è assai difficile se non si hanno le giuste conoscenze”.
Come mai avete scelto di lasciare Milano e tornare a Vicenza?
A causa delle difficoltà incontrate tutti i giorni nella gestione di un figlio. A Vicenza la vita è più tranquilla e organizzata. Da allora ho continuato a fare avanti e indietro tra le due città”. Oggi Piva gestisce corsi semestrali organizzando laboratori per lo sviluppo della tesi di laurea. “Se pensiamo ai fenomeni urbanistici che hanno coinvolto Milano da prima dell’Expo a oggi, stravolgimenti che hanno cambiato il volto percepito di Milano dal Bosco Verticale, alla nuova Fiera Portello, alle belle cose fatte dall’architetto Zaha Adid, alla zona di viale Padova, al Garibaldi, possiamo dire che ora la città è irriconoscibile. E’ migliorata parecchio”.
Quindi rimpiange la Milano degli archistar?
Quello dell’archistar è un concetto legato agli anni 2000 per cercare di nobilitare il prodotto di design. Il fatto che una operazione sia seguita da un nome offre una garanzia ulteriore sulla bontà del prodotto. Ma quel messaggio oggi è tramontando. A metà degli anni ‘90 la committenza milanese era costituita principalmente da privati che avevano precise esigenze, con richieste non molto diverse da quella vicentina. La committenza milanese direi che è più ‘educata’ rispetto all’architettura d’interni. Oggi è palpabile una minore disponibilità economica, c’è una minore propensione ad affrontare certe spese e a indebitarsi. Certo chi vent’anni fa aveva disponibilità economiche ce le ha ancora oggi e può permettersi anche l’architetto famoso che viene vissuto come una garanzia. In sintesi continuo a percepire la città come un grande bacino di opportunità. A livello culturale esiste una tale concentrazione di fondazioni, organizzazioni, eventi che difficilmente si ritrovano nel resto del Paese”.
Milano offre ancora possibilità ai giovani che la scelgono per studiare e specializzarsi?
Penso proprio di sì. A Milano un giovane volenteroso che voglia farsi spazio in ogni campo professionale, ha diverse opportunità. La città offre potenzialità quasi illimitate. Negli ultimi decenni, inoltre, la città ha ri-svelato e rimesso in moto aspetti che aveva dimenticato ma che fanno parte della sua tradizione. Insomma il suo vero volto. Ha fatto emergere fenomeni di volontariato, welfare, assistenza, movimenti e associazione caritatevoli. E’ riemersa la sua vocazione molto attenta al sociale e alla carità. Oggi riesce a tradurre questa sua propensione in atti pratici e molto concreti. Anche se gli spazi di manovra si stanno restringendo perché l’economia nazionale e mondiale non aiuta.
E dal punto di vista sociale e ricreativo che cambiamenti ha riscontrato?
Milano ormai è diventato un parco giochi come Venezia, sono due facce della stessa medaglia, del turismo mordi e fuggi. Magari a Venezia museo a cielo aperto, il turismo è più inconsapevole rispetto alle cose da vedere e come vederle.
Io c'ero
Tiziano Riverso, io disegno il lavoro
E’ un ‘bustocco’ cioè nato a Busto Arsizio in provincia di Milano da un padre scultore del legno che gli ha trasmesso la passione per l’arte. E in effetti il giovane Tiziano Riverso, classe 1956, con il disegno ci sa fare.
Nato a Busto Arsizio da un padre scultore del legno che gli ha trasmesso la passione per l’arte, il ‘bustocco’ Tiziano Riverso, classe 1956, con il disegno ci sa fare. Nel 1975 si diploma come perito in telecomunicazione e inizia la carriera come operatore informatico bel reparto di Tlc della multinazionale Honeywall. Nel frattempo si laurea in Scienze Politiche alla Statale di Milano. Ma la passione per il disegno batte con prepotenza alle porte del suo cuore. Tanto che prende armi e bagagli e si trasferisce a Venezia dove segue l’Accademia di Belle Arti.
Dai carboncini di Venezia al Corriere dei Piccoli di Milano
Era il 1981 e nella città lagunare ci rimane per tre anni. “Disegnavo per i turisti di strada le vedute di Venezia, sai quelli che fino a qualche anno fa trovavi tra le calli con una tavolozza e un cavalletto e i disegna sparsi intorno? Ecco ero uno d quelli.”. Ponte di Rialto, Ponte dei sospiri tutti ritratti a carboncino o con gli acquarelli. “Poi alla Giudecca isola operaia che aveva scorci indimenticabili. A quei tempi vivevo a Mestre in condivisione”. Ma Milano restava la sua meta di riferimento. E Tiziano ci ritorna nel capoluogo lombardo. Inizia a frequentare le redazioni, del Il Monello, Il Corriere dei Piccoli. Incontrava i suoi miti del tempo, Iacovitti, Ugo Pratt con il suo Corto Maltese, Milo Manara, Crepax e la sua Valentina.
Un anno trascorso in barca accanto all’Arena di Verona
Nel 1985 dopo un viaggio a Parigi va a vivere su una barca sul fiume Adige a Verona e inizia a collaborare con i quotidiani locali e nazionali. Lo chiamano per ricostruire dei fatti delittuosi con le sue vignette in bianco e nero. Diventa una firma del quotidiano La Notte e delle sue pagine di cronaca nera e giudiziaria. Fonda Arcicomics un gruppo di disegnatori associati che organizza mostre dove incontra Manara e presenta i propri lavori. “Un salto di qualità c’è stato quando ho incontrato il disegnatore Gaspare Morgione che lavorava al quotidiano di Varese La Prealpina. Lui fa me voleva la ricostruzione per immagini dei fatti delittuosi come per esempio una rapina a una gioielleria. In quasi casi non puoi mettere in primo piano il bandito e quindi devi ricostruire fantasticando un po’ l’assalto, l’inseguimento, la sparatoria e magari anche l’omicidio”. Alla Prealpina per cui pubblicava anche vignette satiriche Riverso ci resta sette anni. Poi passa al quotidiano Il Giorno, diretto da Gaetano Afeltra, dove illustra il fatto del giorno sulla pagina curata dal mitico e indimenticabile Vittorio Zucconi.
Zelig, Maurizio Costanzo e tante querele
“In quegli anni mi sono beccato ben 9 querele anche se le vignette non costituivano reato di per sé. Fumettista e cartoonist acuto e dissacrante diventa un punto di riferimento nell’editoria. Pubblica copertine per libri illustrati, illustrazioni, realizza bozzetti per la pubblicità collaborando con Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli, Bompiani. Intanto sulla Martesana si fa notare il locale Zelig dove passano i migliori cabarettisti del momento. Conosce prima Flavio Oreglio, Leonardo Manera, Ale & Franz poi Maurizio Costanzo che dal 1997 era il direttore artistico del Teatro Ciak di Milano. Ogni settimana l’argomento presentato da Costanzo veniva illustrato dai suoi fumetti. Con la Gialappa’ s, in Mai dire goal avviene la sua consacrazione a vignettista satirico anche in tv. Il Festival di Sanremo lo richiede per illustrare ogni singola serata. Quest’anno a Sanremo ha ricevuto un premio per le illustrazioni del libro “L’Uomo Elastico” pubblicato da Edizioni Antea, realizzato da Giuseppe Cossentino. Un libro contro il bullismo.
Comics at work per la parità di genere
Tra le sue ultime creazioni AstroSamantha in cui racconta con le sue vignette, il tema della “Parità e diritti delle donne sul lavoro da Luana D’Orazio ad AstroSamantha“. Un libro diventato mostra itinerante per tutta l’Italia. “Si tratta della prima di una serie d’iniziative pensate dall’Associazione Sicurezza e Lavoro all’interno del progetto “Comics at work”.
Io c'ero
Ma con l’arte si può fare politica?…
Da un paesino della Sardegna alla vendita di opere intangibili, la storia di un artista di livello internazionale, pittore istrionico, musicista e soprattutto uno contro corrente.
Da un paesino della Sardegna alla vendita di arte intangibile, la storia di un artista internazionale, pittore istrionico e musicista.
Fin da bambino Salvatore Garau – classe 1953 – è un bastian contrario. E’ sempre andato contro l’omologazione. Detesta e combatte il “pensiero unico”. Va controcorrente. E quindi l’articolo potrebbe terminare qui. Eh no… Nato a Santa Giusta provincia di Oristano Salvatore Garau è decisamente un artista interessante, ma anche un “sociopolitologo”, termine che non esiste nei vocabolari ma che lo definisce bene. Dopo un inizio accademico e figurativo, alla fine degli anni ottanta nella sua ricerca pittorica mette a punto un linguaggio evocativo, passionale e romantico, costruito su uno stile “liquido” dove dighe, piloni e condotte disegnati a grafite sono spesso protagonisti delle sue composizioni. In principio le opere solo in bianco e nero o nero assoluto.
Dall’Accademia di Firenze agli Stormy Six
“Torregrande Marina di Oristano fa parte di una provincia dove non succede mai nulla”, dice. Dopo la scuola d’arte a 17 anni entra all’Accademia di Firenze che termina quattro anni dopo. Era un ragazzo schivo, cresciuto in una provincia lontana fisicamente e intellettualmente. “Nei quattro anni di Accademia con i professori ho parlato pochissimo. Sentivo una specie di distacco e fastidio nei miei confronti. Ma davanti alla modella ero il più bravo di tutti, e i professori non poterono che accettare che nel nudo fossi il migliore. Il mio ‘incarnato’ era unico. Tanto che a un certo punto insegnavo io ai miei colleghi studenti, i prof hanno dovuto alzare bandiera bianca.. Non avevano nulla da insegnarmi“. Ma oltre all’arte Garau si è dedicato al suono della batteria. Si esibisce nel gruppo Salis & Salis che per una rocambolesca occasione viene chiamato a fare da spalla agli Stormy Six in un concerto allo stadio di Nuoro. Fu un successo, tanto che Franco Fabbri lo stesso anno, era il 1975, lo chiama a Milano proponendogli di suonare nel gruppo, allora molto in voga. “E’ così che ho iniziato a frequentare Milano e poi diventare un ‘milanese’. Ospite di Tommaso Leddi , degli Stormy che intanto mi insegnava a leggere le partiture e la musica. Da lui ci dovevo stare una settimana. Ci rimasi 4 anni”.
E la vena artistica?
In quel momento la mettevo nella batteria. Ma il destino volle che, ospite di Tommaso Leddi, conobbi il padre Piero Leddi, grande pittore deceduto nel 2016. Era un’artista indipendente amico dei Treccani, Brindisi, Tino Vaglieri. La casa dei Leddi, grande come un monastero, era in via Revere, dietro il parco Sempione. Da Leddi feci l’allievo di bottega per qualche anno. Grande esperienza, ma non riuscivo ad adattarmi completamente a causa della voglia di tornare in Sardegna (la malattia degli isolani). Nel frattempo continuavo a suonare con gli Stormy con i quali ho tenuto centinaia di concerti in tutta Europa. Nei momenti di pausa, tra un concerto e l’altro, visitavo i musei, approfondendo la conoscenza dell’arte contemporanea. Intanto mi trasferì nella casa acquistata in via Rasori (corso Vercelli).
Arte e Fede
Riprende a dipingere e vince il concorso per una prestigiosa personale al San Fedele di via Hoepli dove “Padre Bruno che dirigeva la galleria dei frati mi fece conoscere Giovanni Testori che visionò le mie opere tra cui Su Scravamento,(Deposizione) ambientata dentro la galleria Vittorio Emanuele di Milano. Un quadro che avevo venduto al padre di Giorgio Albani tecnico degli Stormy Six. Intanto ho cercato di capire quali fossero le gallerie che contavano da Toselli in via Ciovasso, a Enzo Cannaviello in piazza Beccaria, che esponeva gli espressionisti tedeschi i nuovi selvaggi. A lui portai un paio di quadri e subito dopo volle venire a casa per visionare il resto. Siamo in piena transavanguardia“.
La prima esposizione? Quasi un fallimento col gallerista…
Cannaviello gli offrì di allestire una mostra e Garau gli chiese per tre giorni di restare in completa solitudine, il gallerista gli diede fiducia e carta bianca. Lui ne approfitta e presenta una serie di tele totalmente nere su pareti dipinte di nero e illuminate con luci bassissime, soffuse. Era il 1984. Al vernissage Cannaviello rimase sconcertato e se ne andò via infastidito. Due giorni dopo uscirono 4 colonne su Il Giornale. e Cannaviello rimase stupito da quel successo. “Io, offeso dalla sua assenza al vernissage, vendetti 5 tele, senza dirglielo“. Alla fine degli anni ’70 e primi ’80 la situazione a Milano era bella e dura, bisognava succhiare tutto presto e subito. In quegli anni c’era un tale fermento ed energia che l’unica cosa da fare per un artista era apprendere e assorbire. “Mi chiamò Luigi De Ambrogi, gallerista rampante e coraggioso che aveva la galleria di via Brera. Con lui ho esposto in tante gallerie, anche una importante personale alla fiera di Basilea. Lì presentai sei tele alle pareti e una tela per terra con l’acqua sopra. Quando le persone entravano nello stand parlavano a bassa voce, come se percepissero un timore sacrale e reverenziale che suggeriva l’acqua”.
Come è stata la sua relazione con Milano?
Mi incuteva paura. In certe zone si faceva fatica a vivere. C’era molta violenza dettata dagli scontri politici. Gli Anni ’70/’80 sono stati anni di tensione, brucianti, ma andavano vissuti anche quelli perché ti facevano crescere. Poi nel 1982 gli Stormy Six si sciolsero e da allora mi dedicai completamente alla pittura. Ho continuato a lavorare intorno al tema dell’acqua che realizzavo con le resine trasparenti. Quello dell’acqua è stato un periodo dominante del mio lavoro. Intanto la grande città per me era diventata un grande paese. In via Rasori c’era un cortile con il selciato identico a quello di Santa Giusta in Sardegna dove ero nato. La città offriva tanto. Mi abituai ai milanesi e al loro modo di fare pragmatico e affabile. Qui mi sono ingrassato culturalmente. Grazie alle trasferte con gli Stormy Six in compagnia di Umberto Fiori, (oggi acclamato poeta) Franco Fabbri e gli altri, partecipavo a infinite discussioni anche solo per decidere una singola nota o l’introduzione di un nuovo brano o un ritmo di batteria. Iniziavo a capire la poesia, la letteratura. E incameravo idee anche per la pittura. Ricordo una trasferta a Berlino Est in cui fummo ospitati per dieci giorni dal governo per un festival mondiale. Un’esperienza indimenticabile che si ripeté l’anno successivo visto il successo che avevamo avuto. Da non dimenticare gli incontri milanesi con Demetrio Stratos, Giovanna Marini, i figli di Abbado e tantissimi altri.
Quando hai iniziato a capire che ce l’avevi fatta?
“Dopo l’esperienza con Piero Cavellini, mi chiamò Claudia Gian Ferrari una top gallerista che esponeva De Pisis, De Chirico, Sironi e disponeva di uno spazio dedicato ai giovani. In quella mostra esposi dei bianchi e neri con resine trasparenti, sculture disegnate con la grafite, un abbinamento tra il duro e l’invisibile. Tele da 2 metri per 1,5 metri. Vendevo bene tanto che finì di pagare la casetta di via Rasori, 35 mq, per 16 milioni di lire. Ricordo che a un asta una mia tela di 50 x 50 da 400 mila lire di partenza fu aggiudicata a 1,5 milioni. Nel 2000 grazie alla conoscenza di Antonina Zaru grande gallerista, cominciai a tenere personali a Napoli, Sait-Etienne, Washington, San Francisco, Capri, Lima…”.
Benvenuti nel ghetto
Negli anni ’90, prima di conoscere la Zaru, Garau ebbe una grande crisi e per sette anni non vendette nulla. Nel 2000 la Fondazione del Palazzo delle Stelline lo ospitò per una personale. da questa mostra riprese a essere presente nel mondo dell’Arte. nel 2013 ci fu un ritorno alla musica. L’amico di vecchia data, Moni Ovadia. propose agli Stormy Six un album dedicato alla rivolta del Ghetto di Varsavia “Con Moni Ovadia realizzammo un disco straordinario “Benvenuti nel ghetto” con 11 brani che raccontavano l’eroismo di pochi giovani ebrei chiusi nel ghetto, Il brano che chiude l’album lo composi io col testo di Umberto Fiori “Invocazione” un brano considerato dai critici di quel momento uno dei 15 brani più belli pubblicati nel 2013 in Europa. Il testo, un’invocazione, appunto, che gli ebrei pregano rimanga nei loro cuori; recita. “Non tentare i nostri cuori fanne polvere se vuoi, ma quest’odio, e questo male no, non farlo entrare in noi”. testo che mi sembra attualissimo!
Tu hai venduto opere invisibili. Arte Intangibile. Ce ne vuoi parlare?
Quando arriva la pandemia l’assenza è la presenza più diffusa nel mondo. Ho deciso di realizzare queste opere invisibili con l’assenza. La prima si intitolava “Io sono“, che ha creato dibattiti accesi in tutto il mondo. Ne hanno parlato anche al Letterman show. Si tratta di una scultura immateriale da collocare in abitazione privata entro uno spazio libero da qualsiasi ingombro. Ha una dimensione variabile, circa 150 x 150 cm. E stata venduta all’asta per 15 mila euro. Naturalmente l’opera è accompagnata da un certificato di autenticità da me rilasciato. La secondo opera intangibile è venduta all’asta è stata “Davanti a Te“. Nelle piazze finora sono collocate cinque opere, dalla Sardegna a Milano, da Wall Street a Gerusalemme. In quest’ultima città ho collocato “Amore immenso amore”, una sulla spianata delle moschee e una davanti al muro del pianto. Berlino è quasi pronta.
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