Benessere
Stop allo stress? Burnout e la strategia antistress dello S.T.O.P.
È una sindrome importante che può avere gravi conseguenze sulla salute mentale e sul benessere complessivo. Riconosci i segni e affrontali con metodi e strategie per prevenire il deterioramento della salute mentale.
Il Burnout è uno stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale, spesso causato da stress prolungato o sovraccarico di lavoro. È una preoccupazione crescente nel mondo frenetico di oggi, in particolare tra i professionisti in settori impegnativi come l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la tecnologia. Questo stress prolungato può avere effetti devastanti sulla salute mentale e sul benessere complessivo di un individuo. Vediamo quali sono gli effetti negativi dello stress da lavoro e come affrontare il problema con il metodo “S.t.o.p”.
È veramente impressionante quanto l’ansia e la depressione abbiano permeato la vita di così tante persone in tutto il mondo, e la pandemia di Covid-19 ha sicuramente amplificato questo problema in modo significativo. La salute mentale è diventata una delle sfide più urgenti e rilevanti del nostro tempo, coinvolgendo non solo gli individui direttamente colpiti, ma tutta la popolazione mondiale.

Dove si accumula più stress
Il mondo del lavoro, tradizionalmente considerato un luogo di realizzazione personale e crescita professionale, può purtroppo essere anche un ambiente fertile per lo stress e i disturbi mentali. Si stima che il 15% dei lavoratori nel mondo soffre di disturbi psichici, un dato allarmante che mette in luce la necessità di affrontare questo problema in modo concreto e immediato.
Le conseguenze di questo impatto sulla salute mentale non si limitano alla sfera individuale, ma hanno ripercussioni su scala globale. Oltre alle tragedie personali e familiari, c’è anche un costo economico significativo associato alla perdita di giornate lavorative e alla ridotta produttività causata da depressione e ansia.
In cosa consiste il metodo S.t.o.p.
E’ una sorta di manovra autonoma che può aiutate quando ci si sente enormemente sovraccarichi di lavoro e stress da accumulo.
S: Stoppa l’attività che sta causando stress. È importante riconoscere quando si è sopraffatti e prendersi una pausa per rilassarsi.
T: Respira profondamente e prendi il controllo della situazione. Una respirazione profonda può aiutare a calmare la mente e il corpo.
O: Osserva i tuoi pensieri e le tue emozioni. Identifica le fonti di stress e cerca modi positivi per affrontarle.
P: Procedi con calma e con un piano d’azione. Una volta che hai preso una pausa e hai valutato la situazione, elabora un piano per affrontare il problema in modo efficace.
È fondamentale, dunque, che prendiamo sul serio la questione della salute mentale e lavoriamo insieme per creare un ambiente più sano e sostenibile per tutti. Solo così possiamo sperare di invertire la tendenza attuale e garantire un futuro migliore per le generazioni a venire.
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Benessere
Il cervello inizia a invecchiare a 44 anni: la scoperta che può cambiare la prevenzione del declino cognitivo
Secondo gli scienziati, il calo metabolico cerebrale non è lineare e potrebbe essere rallentato fornendo al cervello carburanti alternativi, come i chetoni. I risultati, pubblicati su PNAS, aprono nuove prospettive nella lotta contro l’Alzheimer.
Quando il cervello inizia davvero a invecchiare
Il cervello non resta giovane per sempre, ma il momento esatto in cui comincia a perdere efficienza è stato a lungo un mistero. Ora, grazie a una ricerca condotta dall’Università Statale di New York a Stony Brook, gli scienziati hanno identificato l’età in cui il cervello entra nella sua “curva di declino”: a partire dai 44 anni.
Non si tratta, però, di un processo costante. Il calo segue un andamento “a S”, spiegano i ricercatori: inizia intorno ai 40 anni, accelera fino ai 67 e rallenta intorno ai 90. A influire non sono solo fattori genetici, ma anche aspetti metabolici e infiammatori che condizionano la capacità dei neuroni di ottenere energia dal glucosio.
Il ruolo dell’insulina: quando i neuroni “restano affamati”
Secondo lo studio, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), la causa principale dell’invecchiamento cerebrale risiede nel metabolismo del glucosio. Con l’età, l’insulina – l’ormone che regola l’assorbimento dello zucchero nelle cellule – diventa meno efficace nel cervello, lasciando i neuroni “affamati” di energia.
“Durante la mezza età, i neuroni sono metabolicamente stressati ma ancora vitali”, ha spiegato la professoressa Lilianne R. Mujica Parodi, coordinatrice della ricerca. “È una fase delicata: il cervello non è ancora danneggiato, ma comincia a fare fatica. Intervenire in questo momento può fare la differenza.”
Chetoni: un carburante alternativo per il cervello
Il team di ricerca ha testato una possibile soluzione: fornire al cervello una fonte alternativa di energia. Gli scienziati hanno somministrato a un gruppo di volontari integratori a base di chetoni, molecole che l’organismo produce naturalmente quando brucia i grassi in assenza di zuccheri.
I risultati sono stati sorprendenti: nelle persone tra i 40 e i 59 anni, i chetoni hanno migliorato la sensibilità all’insulina e stabilizzato l’attività delle reti cerebrali, riducendo i segni del declino cognitivo precoce. L’effetto, invece, è risultato meno evidente nei più giovani e negli anziani.
“Abbiamo osservato che i chetoni riescono a bypassare la resistenza all’insulina e a fornire carburante diretto ai neuroni”, ha aggiunto la professoressa Mujica Parodi. “Questo approccio potrebbe rivoluzionare la prevenzione del declino cognitivo legato all’età e delle patologie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer.”
La ricerca e i suoi protagonisti
Lo studio ha coinvolto oltre 19.000 persone, sottoposte a risonanza magnetica funzionale per analizzare l’attività delle reti cerebrali. Oltre all’ateneo di Stony Brook, hanno partecipato la Mayo Clinic, il Massachusetts General Hospital e il Memorial Sloan Kettering Cancer Center.
L’analisi ha messo in evidenza anche due geni chiave nel processo di invecchiamento cerebrale:
- GLUT4, responsabile del trasporto del glucosio nelle cellule, e
- APOE, già noto per il suo ruolo nel rischio di Alzheimer.
Entrambi risultano coinvolti nella perdita di efficienza del metabolismo cerebrale a partire dalla mezza età.
Prevenzione e prossimi passi
Gli autori dello studio sottolineano che si tratta di risultati preliminari, ma aprano una nuova strada per la prevenzione. Intervenire nella “finestra critica” tra i 40 e i 60 anni, fornendo al cervello energia supplementare attraverso integratori o dieta mirata, potrebbe rallentare l’invecchiamento cerebrale prima che compaiano danni irreversibili.
Tuttavia, gli esperti ricordano che non esistono scorciatoie: prima di assumere integratori o cambiare abitudini alimentari è sempre necessario consultare il proprio medico.
Un nuovo modo di guardare alla mezza età
L’idea che il cervello inizi a cambiare già a 44 anni può spaventare, ma è anche un’occasione per intervenire per tempo. Conoscere il momento in cui la mente inizia a perdere efficienza significa poter agire in modo mirato, migliorando alimentazione, attività fisica e salute metabolica.
In fondo, come conclude la professoressa Mujica Parodi, “l’invecchiamento non è un destino ineluttabile, ma un processo che possiamo imparare a comprendere – e forse, un giorno, a rallentare.”
Benessere
La felicità non è uguale per tutti: cosa dice la scienza su emozioni e salute
Nuove ricerche mostrano che i benefici biologici della felicità dipendono da genetica, cultura e condizioni sociali. E che cercare la gioia a tutti i costi può, paradossalmente, farci stare peggio.
Per decenni la scienza ha sostenuto che un atteggiamento positivo sia la chiave per vivere più a lungo e ammalarsi di meno. “La felicità fa bene al cuore”, si ripete spesso — e, in parte, è vero. Numerosi studi psicologici e biologici hanno mostrato che lo stato emotivo influenza il sistema immunitario, l’infiammazione e perfino il metabolismo. Tuttavia, le ricerche più recenti raccontano una realtà più sfumata: la felicità non produce gli stessi effetti su tutti.
Ci sono persone per cui il benessere emotivo si traduce in salute fisica misurabile — meno infiammazione, pressione più bassa, maggiore longevità — e altre per cui l’effetto è quasi nullo.
Quando il corpo “sente” la felicità
Il legame tra emozioni positive e salute è stato osservato in numerosi studi. Quando ci sentiamo felici, il cervello rilascia dopamina, endorfine e ossitocina: sostanze che riducono lo stress, abbassano la pressione sanguigna e potenziano le difese immunitarie. Questi ormoni agiscono come modulatori naturali dell’equilibrio psicofisico.
Ma non tutti li producono o li “ricevono” allo stesso modo. La risposta del corpo a questi neurotrasmettitori varia a seconda della genetica, dell’età e dell’accumulo di stress cronico. “L’effetto biologico della felicità è reale, ma individuale,” spiegano i ricercatori della Harvard T.H. Chan School of Public Health, che hanno recentemente analizzato oltre 200 studi sul tema.
Il ruolo dei geni e del temperamento
Parte della nostra “sensibilità alla felicità” è scritta nel DNA. Alcune varianti genetiche influenzano il modo in cui il cervello elabora dopamina e serotonina, modificando la risposta allo stress. In pratica, due persone che vivono la stessa esperienza positiva possono reagire in modo diverso: una si sentirà rigenerata, l’altra noterà solo un miglioramento temporaneo.
Questa variabilità spiega anche perché la cosiddetta psicologia positiva — il ramo che studia le emozioni benefiche — produca risultati tanto disomogenei: ciò che funziona per uno può non funzionare per un altro.
Felicità: questione di cultura (e di società)
La definizione stessa di felicità cambia nel mondo. Nelle società occidentali è spesso legata a successo, autonomia e realizzazione personale; in quelle orientali, invece, a armonia sociale e appartenenza al gruppo.
Gli studi comparativi, pubblicati sul Journal of Cross-Cultural Psychology, mostrano che nelle culture collettiviste la felicità genera effetti fisici più stabili — minor incidenza di depressione e disturbi cardiovascolari — perché è vissuta come parte di un equilibrio condiviso. Al contrario, nei contesti individualisti la ricerca della felicità tende a essere più fragile e dipendente da risultati o status personali.
Quando voler essere felici diventa stressante
Può sembrare paradossale, ma l’ossessione per la felicità può minare la salute mentale. Psicologi come Iris Mauss, dell’Università della California, parlano di “tirannia della felicità”: la pressione sociale a essere sempre positivi genera senso di colpa quando si provano emozioni negative. Questo porta a frustrazione cronica, stress e insonnia — proprio l’opposto dell’effetto sperato
La felicità che protegge davvero
Non tutte le felicità sono uguali. Gli esperti distinguono tra felicità edonica, legata al piacere momentaneo, e felicità eudaimonica, radicata nel significato e nei valori personali. Solo quest’ultima sembra avere effetti duraturi sulla salute: chi percepisce la propria vita come utile e coerente con i propri ideali mostra livelli più bassi di infiammazione e una maggiore resilienza allo stress.
“Il benessere autentico non dipende dal divertimento, ma dal senso,” sintetizza la psicologa Barbara Fredrickson, tra le maggiori studiose del tema.
Un privilegio (non per tutti)
Gli effetti positivi della felicità, inoltre, non sono uguali in tutti i contesti. Le persone che vivono in situazioni di precarietà economica o discriminazione cronica non riescono a trasformare la gioia in salute. Lo stress continuo, spiegano gli esperti di The Lancet Public Health, può neutralizzare i benefici fisiologici delle emozioni positive. È ciò che oggi viene definito “disuguaglianza del benessere”.
La lezione della scienza
La felicità, dunque, non è una formula universale, ma un equilibrio dinamico tra mente, corpo e contesto. Coltivare relazioni sincere, praticare gratitudine e accettare anche la tristezza come parte naturale della vita sembra più salutare di qualunque “positività forzata”.
Essere felici non significa non soffrire mai, ma imparare a dare senso anche ai momenti difficili. È lì, dicono gli scienziati, che la felicità diventa davvero una forza che guarisce.
Benessere
Due giorni offline: il metodo semplice per liberare la mente
Notifiche spente, tempo reale rallentato, abitudini più consapevoli: il digital detox del weekend è un reset gentile per chi vive con lo smartphone sempre acceso. Basta poco per alleggerire la mente e riattivare l’attenzione.
Perché disconnettersi fa bene
Viviamo dentro un flusso costante di stimoli: aggiornamenti, messaggi, video, notifiche che bussano di continuo. Il risultato è una mente in perenne modalità “allerta”, con effetti su concentrazione, sonno e qualità dell’umore. Un fine settimana di digital detox non è fuga dal mondo, ma una scelta di equilibrio: rallentare l’iperconnessione per lasciare spazio a sensazioni più profonde, ritmi più umani, relazioni più presenti.
Piccoli gesti, grande effetto
Il segreto è la semplicità. Non si tratta di spegnere tutto e isolarsi, ma di impostare confini praticabili:
– notifiche disattivate;
– smartphone lontano dal comodino;
– niente scroll compulsivo;
– lettura al posto dei feed;
– camminate all’aria aperta, meglio se in mezzo al verde.
Anche solo decidere di controllare il telefono a orari specifici restituisce libertà mentale. La casa diventa luogo di respiro, non un prolungamento dei social.
La riscoperta del tempo “vuoto”
Il digital detox funziona perché restituisce una risorsa preziosa: il tempo vuoto, quello che permette di ascoltare i propri pensieri, riflettere, immaginare. È l’occasione per dedicarsi a attività spesso sacrificate: cucinare con calma, leggere un giornale in poltrona, annotare idee su un taccuino, godersi un film senza distrazioni. Anche il camminare diventa un rito: passo lento, occhi che osservano, respiro che si allunga. Un modo naturale per riportare il corpo dentro la presenza.
Benefici visibili e sottili
Dopo un weekend a bassa esposizione digitale, il sonno diventa più profondo, l’umore meno irritabile, l’attenzione più stabile. Si riduce quella sensazione costante di urgenza che accompagna lo smartphone. Tornando online, si nota una maggiore lucidità e una nuova capacità di filtrare i contenuti invece di subirli. È una forma di igiene mentale, delicata ma potente.
Prendersi due giorni senza iperconnessione significa scegliere di tornare al ritmo delle cose che contano. Non è rinuncia: è riconquista.
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