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Benessere

Vitamina D, quanto sole serve per ricaricarla?

La vitamina D, conosciuta anche come “vitamina del sole”, è un nutriente essenziale per il nostro organismo. Svolge diverse funzioni importanti e aiuta il corpo ad assorbire il calcio. Una carenza di vitamina D può aumentare il rischio di rachitismo nei bambini e di osteomalacia negli adulti.

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    La vitamina D è un nutriente essenziale per la salute. L’esposizione al sole è il modo migliore per produrla, ma è importante farlo in modo sicuro e responsabile. Essa gioca un ruolo importante nel funzionamento del sistema immunitario, aiutando a combattere le infezioni.

    Alcuni studi hanno collegato livelli adeguati di vitamina D ad un minor rischio di malattie croniche come cancro, malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2. Il nostro corpo è in grado di produrre vitamina D autonomamente quando la pelle viene esposta alla luce solare. I raggi UVB del sole attivano un processo che porta alla sintesi della vitamina D nella pelle.

    Quanta esposizione al sole è necessaria?
    La quantità di sole necessaria per produrre una quantità sufficiente di vitamina D varia in base a diversi fattori e la capacità della pelle di sintetizzare la vitamina D diminuisce con l’età. Le persone con la pelle più chiara (fototipi 1 e 2) producono vitamina D più velocemente di quelle con la pelle più scura (fototipi 4 e 5). Le persone che vivono a latitudini più elevate ricevono meno luce solare UVB durante tutto l’anno. La luce solare UVB è più intensa nelle ore centrali della giornata (tra le 10:00 e le 16:00).

    In generale, si consiglia di esporre al sole viso, mani e avambracci per 10-15 minuti al giorno, 2-3 volte a settimana, senza protezione solare. È importante evitare le scottature solari, che possono danneggiare la pelle e aumentare il rischio di cancro.

    Consigli per una corretta esposizione al sole
    Esporsi al sole nelle ore centrali della giornata (tra le 10:00 e le 16:00).
    Iniziare con brevi esposizioni e aumentare gradualmente la durata.
    Evitare le scottature solari.
    Usare la protezione solare se l’esposizione al sole è prolungata.
    Prestare attenzione alle persone con la pelle chiara, i bambini e gli anziani, che sono più a rischio di carenza di vitamina D.

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      Benessere

      Quando l’accumulo diventa una malattia: la disposofobia

      Dalla raccolta ossessiva di oggetti fino all’impossibilità di liberarsene, l’“hoarding disorder” non è un semplice vizio ma una vera e propria patologia riconosciuta, con conseguenze gravi sulla vita sociale e familiare di chi ne soffre.

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      disposofobia

        Può capitare a tutti di tenere in fondo all’armadio un vestito a cui siamo affezionati o conservare oggetti che pensiamo possano tornare utili. Ma quando la difficoltà a separarsi dalle cose diventa ingestibile e gli spazi vitali della casa si trasformano in depositi. Non parliamo più di semplice nostalgia o disordine: siamo di fronte al disturbo da accumulo, noto anche come disposofobia.

        Secondo le stime internazionali, la sindrome colpisce tra il 2 e il 5% della popolazione nei paesi occidentali, sebbene in Italia manchino rilevazioni ufficiali. Negli anni il fenomeno è entrato anche nella cultura popolare, grazie a programmi televisivi come Sepolti in casa, che mostrano le vite complicate degli accumulatori compulsivi.

        Il disturbo è stato a lungo considerato una manifestazione del disturbo ossessivo-compulsivo, ma solo con il DSM-5 (2013) ha ottenuto una classificazione autonoma. Le persone che ne soffrono accumulano oggetti senza ordine, spesso privi di reale utilità o valore. Arrivando a occupare stanze intere e a vivere in condizioni insalubri. In alcuni casi, l’accumulo riguarda perfino animali, come gatti o cani, una forma nota come animal hoarding.

        Le conseguenze non sono solo materiali. Chi soffre di disposofobia tende a isolarsi, compromette la vita familiare e riduce drasticamente i contatti sociali. A ciò si aggiunge la frequente presenza di altri disturbi, come ansia, depressione o deficit dell’attenzione. A differenza dei pazienti ossessivo-compulsivi, che percepiscono il disagio delle loro compulsioni, molti accumulatori non ritengono patologico il proprio comportamento, rendendo ancora più difficile l’intervento.

        Le cause sono molteplici: fattori genetici, alterazioni neurobiologiche nei lobi frontali, traumi o eventi stressanti. Un modello di riferimento, proposto dagli studiosi Frost e Hartl, mette in luce deficit cognitivi, legami affettivi disfunzionali con gli oggetti e credenze errate sulla loro importanza.

        Fondamentale è distinguere l’accumulo dalla collezione. Un collezionista ordina e valorizza ciò che possiede; un accumulatore, invece, smarrisce il controllo e lascia che gli oggetti invadano gli spazi essenziali della vita quotidiana.

        Il trattamento più efficace, secondo gli esperti, è la terapia cognitivo-comportamentale, che aiuta il paziente a riconoscere i meccanismi che lo spingono ad accumulare. A migliorare le capacità decisionali e a sperimentare strategie pratiche per ridurre progressivamente il disordine. In alcuni casi può essere utile anche il supporto farmacologico.

        Il disturbo non coinvolge solo il diretto interessato, ma spesso trascina con sé partner, figli e familiari, costretti a vivere in ambienti compromessi o ad affrontare conflitti dolorosi. Anche per loro un sostegno psicologico può rappresentare un aiuto prezioso.

        La disposofobia, insomma, non è una mania innocua: riconoscerla come malattia significa offrire a chi ne soffre e a chi gli sta accanto una concreta possibilità di recuperare qualità di vita e relazioni sane.

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          Benessere

          Crescere con un genitore narcisista: le ferite invisibili sui figli

          Scarsa empatia, bisogno di controllo e amore condizionato: dieci tratti disfunzionali che segnano l’infanzia e possono lasciare tracce fino all’età adulta.

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          narcisista

            Il narcisismo non è solo un tratto di personalità, ma uno spettro che va da una normale attenzione per sé fino a un disturbo clinico, il Disturbo Narcisistico di Personalità. Quando un genitore presenta forti tratti narcisistici, i figli rischiano di crescere in un ambiente emotivamente instabile. Studi recenti (Little, 2024; Torres, 2023) hanno mostrato come questa forma di genitorialità possa condizionare profondamente lo sviluppo psicologico, arrivando perfino a trasmettersi da una generazione all’altra.

            Un bambino che cresce con un genitore narcisista spesso sperimenta insicurezza, vergogna, difficoltà nel costruire fiducia e fatica a sviluppare relazioni sane. Le competenze genitoriali risultano limitate, con conseguenze sul piano emotivo e sociale che possono emergere anche nell’età adulta.

            Gli psicologi individuano almeno dieci modalità attraverso cui la genitorialità narcisistica si manifesta in modo disfunzionale. La prima è l’egocentrismo: l’attenzione del genitore è rivolta a se stesso, con poca disponibilità a riconoscere i bisogni affettivi del figlio. A questa si lega la grandiosità. Che può portare a sfruttare i successi dei figli come riflesso del proprio prestigio, oppure a punire duramente in caso di delusione.

            La limitata capacità di accudimento e la bassa tolleranza alla frustrazione fanno sì che comportamenti infantili normali vengano percepiti come minacce all’immagine del genitore, con reazioni sproporzionate. Spesso emerge anche un bisogno eccessivo di controllo, che ostacola lo sviluppo dell’autonomia e della fiducia in sé.

            Un altro aspetto critico riguarda l’incapacità di amare il figlio per ciò che è: l’affetto diventa condizionato, generando nei bambini la sensazione di non essere mai abbastanza. A questo si aggiunge la disregolazione emotiva del genitore, che rende imprevedibile il clima familiare.

            Il quadro è aggravato da una distorsione della realtà, che impedisce al bambino di costruire un’immagine di sé solida. E da una mancanza di empatia, che compromette lo sviluppo dell’attaccamento sicuro. Infine, il modello relazionale offerto dal genitore narcisista è spesso malsano, perché induce il figlio a soddisfare i bisogni emotivi dell’adulto, anziché il contrario.

            Le conseguenze? Figli che diventano adulti fragili, con difficoltà a fidarsi, bassa autostima e relazioni sentimentali segnate da dinamiche disfunzionali. Tuttavia, come ricordano gli esperti, la consapevolezza è il primo passo per interrompere il ciclo. Riconoscere queste dinamiche può permettere di costruire un futuro diverso, più sano e libero.

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              Benessere

              Sudare è bello: perché il caldo ti fa bene (se lo sai usare)

              Tra saune naturali e docce tiepide, ecco come sfruttare il caldo a tuo favore. Il segreto è assecondarlo, non combatterlo.

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                L’estate è una stagione estrema. Ci lamentiamo del caldo, del sudore, dell’afa che ci incolla alle sedie e ci mozza il respiro. Eppure, se impariamo ad ascoltare il corpo, scopriremo che lui, in fondo, sa benissimo cosa fare. Sudare è un atto naturale, benefico, spesso sottovalutato. Non è solo una risposta automatica al caldo: è uno degli strumenti più raffinati del nostro organismo per proteggerci.

                Attraverso la sudorazione, eliminiamo tossine, abbassiamo la temperatura corporea e stimoliamo persino il metabolismo. Il sudore, infatti, non è nemico ma alleato. E no, non è solo acqua salata: contiene enzimi, minerali, persino molecole antibatteriche.

                Anche la pelle ringrazia: sudare libera i pori, favorisce l’ossigenazione dei tessuti e può rendere l’incarnato più sano e luminoso. A patto, ovviamente, di non ostacolare il processo con prodotti occlusivi, fondotinta a prova di cemento o creme troppo pesanti. Dopo una buona sudata, basta una detersione delicata e un’idratazione profonda con prodotti leggeri e restitutivi.

                Un trucco antichissimo, ma ancora attualissimo, è la doccia tiepida. A differenza di quella fredda (che dà sollievo immediato ma breve), la doccia tiepida rilassa i vasi sanguigni e potenzia il raffreddamento naturale del corpo. Un gesto semplice, ma estremamente efficace.

                Anche lo stretching o una pratica di yoga nelle ore più calde – purché in un ambiente ventilato – può trasformare il calore in un alleato: il corpo, più flessibile e meno contratto, si muove meglio e rilascia tensioni accumulate.

                E la notte? Sudare durante il sonno è normale, anzi utile: aiuta a mantenere la temperatura stabile. Meglio allora usare lenzuola in lino o cotone, fresche e traspiranti, e magari concedersi una camomilla o una tisana rilassante prima di dormire. Con il caldo non si combatte, si collabora. E quando smettiamo di resistere, il corpo fa il resto.

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