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Beauty

Il segreto di giovinezza arriva dal mare: i polinucleotidi di salmone nel mondo beauty

Purificati e utilizzati in iniezioni o creme, i polinucleotidi promettono di stimolare il collagene e migliorare l’elasticità della pelle. Ma gli esperti invitano alla cautela: serve distinguere tra moda e reale efficacia clinica.

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    In cosmetica, le mode cambiano in fretta. Dopo bava di lumaca, caviale e oro 24 carati, oggi la novità arriva direttamente dal mare: il DNA di salmone. Sui social se ne parla come di una rivoluzione beauty, ma in realtà non si tratta di un’invenzione degli ultimi mesi. Le prime ricerche sull’utilizzo dei polinucleotidi di origine marina, ovvero frammenti purificati del DNA del salmone, risalgono agli anni ottanta.

    L’idea alla base è semplice: questi composti, una volta iniettati o applicati in formulazioni specifiche, stimolerebbero i fibroblasti a produrre più collagene ed elastina, le proteine responsabili della compattezza e della luminosità della pelle. Con l’avanzare dell’età, infatti, i livelli di collagene diminuiscono e compaiono rughe, rilassamento cutaneo e perdita di tono.

    Un trattamento tra medicina estetica e skincare

    Il DNA di salmone è impiegato soprattutto nei trattamenti di biorivitalizzazione, eseguiti da medici estetici tramite microiniezioni sottocutanee. L’obiettivo non è “riempire” come avviene con l’acido ialuronico, ma migliorare la qualità della pelle dall’interno, stimolandone i naturali processi di rigenerazione.

    Accanto alla medicina estetica, il mercato cosmetico ha iniziato a proporre creme e sieri a base di derivati di salmone. È qui che il fenomeno ha trovato terreno fertile tra influencer e beauty blogger, che mostrano su Instagram e TikTok confezioni eleganti e texture luminose, associate a promesse di pelle giovane e radiosa.

    Tra scienza e marketing

    Gli studi condotti finora indicano che i polinucleotidi hanno un’azione idratante e antiossidante, oltre a favorire la cicatrizzazione e il rinnovamento dei tessuti. Non mancano però i distinguo. Gli esperti sottolineano che i benefici dipendono dalla concentrazione, dalla qualità del prodotto e dal tipo di trattamento. Una semplice crema da banco difficilmente può avere gli stessi effetti di un’iniezione effettuata in studio medico.

    «Si tratta di sostanze interessanti e sicure, già utilizzate da tempo in dermatologia e oftalmologia», spiega un dermatologo intervistato dal British Journal of Dermatology. «Ma occorre evitare facili entusiasmi: non è un elisir di eterna giovinezza. I risultati sono graduali e vanno mantenuti nel tempo».

    Costi e controindicazioni

    Un ciclo di trattamenti iniettivi con DNA di salmone può costare diverse centinaia di euro a seduta. Per quanto riguarda i cosmetici da banco, i prezzi variano molto: dai 40 ai 200 euro per un siero. Non esistono controindicazioni gravi note, anche se chi è allergico al pesce dovrebbe informarsi con attenzione prima di provare.

    Una nuova tendenza globale

    In Corea del Sud, patria della skincare innovativa, i prodotti a base di polinucleotidi sono già una realtà consolidata. L’onda lunga è arrivata in Europa e negli Stati Uniti, spinta dal passaparola online e dal desiderio sempre crescente di soluzioni “naturali” ma allo stesso tempo high-tech.

    Come sempre, il confine tra ricerca scientifica e marketing resta sottile. Ma una cosa è certa: il futuro del beauty continua a sorprenderci, e questa volta il segreto della pelle giovane sembra arrivare dalle profondità dell’oceano.

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      Salute

      Un’iniezione per ridare la vista: la nuova frontiera contro la cecità corneale

      Dagli specialisti riuniti al congresso SISO-AIMO di Roma arriva l’annuncio: la terapia cellulare è vicina all’approvazione clinica. Potrà restituire trasparenza alla cornea e vista a chi l’ha perduta, riducendo la necessità di trapianti e la dipendenza dalle donazioni.

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      Un’iniezione per ridare la vista

        «Non siamo mai stati così vicini a una cura per la cecità corneale». Con queste parole gli esperti riuniti a Roma per il primo congresso nazionale congiunto della Società Italiana di Scienze Oftalmologiche (SISO) e dell’Associazione Italiana Medici Oculisti (AIMO) hanno annunciato un passo storico nella ricerca: una terapia rigenerativa basata su un’iniezione di cellule endoteliali in grado di rigenerare la cornea malata, evitando il trapianto.

        La nuova tecnica, già testata con risultati incoraggianti e attualmente in fase III di sperimentazione clinica in Nord America, potrebbe rivoluzionare il trattamento di una delle principali cause di perdita della vista a livello globale.

        Cecità corneale: una sfida mondiale

        La cecità corneale colpisce ogni anno circa 10 milioni di persone nel mondo, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si tratta di una condizione provocata da malattie, traumi o infezioni che danneggiano la cornea, la membrana trasparente che consente alla luce di entrare nell’occhio. Quando lo strato più interno, l’endotelio, smette di funzionare correttamente, la cornea perde trasparenza e la vista si offusca fino alla cecità.

        Per oltre un secolo, la soluzione è stata il trapianto di cornea da donatore, un intervento che ha restituito la vista a milioni di persone. Tuttavia, spiega Vincenzo Sarnicola, consigliere SISO e direttore della Clinica degli Occhi Sarnicola di Grosseto, «il trapianto, pur efficace, presenta rischi di rigetto, complicanze e dipende fortemente dalla disponibilità di tessuti donati».

        L’Italia pioniera dei trapianti lamellari

        Negli ultimi vent’anni, la chirurgia oftalmologica ha fatto enormi progressi. I trapianti lamellari, che sostituiscono solo la parte malata della cornea, hanno ridotto l’invasività e migliorato la sopravvivenza dei tessuti trapiantati. L’Italia è stata tra i Paesi pionieri di queste tecniche, che oggi rappresentano lo standard di riferimento.

        Ma resta il problema della carenza di donazioni. «In Italia abbiamo un’eccellente rete di banche degli occhi e un surplus di tessuti, tanto da poterli esportare — spiega Sarnicola — ma in molti Paesi del mondo, dal Sud America all’Asia, la carenza è cronica».

        La svolta: rigenerare invece di trapiantare

        Da qui nasce la promessa della terapia cellulare rigenerativa, che potrebbe superare definitivamente il limite delle donazioni. Il principio è semplice e rivoluzionario: invece di sostituire la cornea danneggiata, si stimola la rigenerazione del suo tessuto endoteliale attraverso una singola iniezione di cellule sane.

        «La tecnica prevede che una piccola quantità di cellule prelevate da una cornea donata venga moltiplicata in laboratorio e poi iniettata nell’occhio del paziente», spiega Sarnicola. «Una volta introdotte, queste cellule si posano sulla superficie interna della cornea e riprendono a funzionare, restituendole trasparenza».

        I risultati dei primi studi, pubblicati su Nature Biotechnology, mostrano che da una sola cornea di un donatore giovane (sotto i 30 anni) si potrebbero ottenere fino a mille dosi cellulari, sufficienti per curare altrettanti pazienti.

        Una speranza concreta per milioni di persone

        «Le terapie cellulari rigenerative rappresentano la vera nuova frontiera della cura per la cecità corneale endoteliale», sottolinea Vito Romano, professore associato di Oftalmologia all’Università di Brescia. «I dati attuali sono straordinariamente positivi: la cornea recupera la trasparenza in poche settimane, senza rigetto e senza necessità di trapianto».

        Se la sperimentazione in corso dovesse confermare i risultati, la terapia potrebbe essere approvata entro pochi anni e diventare una pratica clinica accessibile anche in Italia.

        Un futuro in cui la cecità potrà essere curata

        Oggi il trapianto di cornea resta una risorsa preziosa, ma la prospettiva di un trattamento rigenerativo apre scenari fino a poco tempo fa impensabili: curare la cecità senza bisturi, con un’iniezione.

        «Non si tratta solo di restituire la vista — conclude Sarnicola — ma di ridare autonomia e qualità di vita a milioni di persone. È un sogno che sta diventando realtà».

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          Salute

          L’alcol e gli antidepressivi: una questione delicata

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          L'alcol e gli antidepressivi

            Mentre un bicchiere di vino o una birra possono sembrare innocui per molti, per coloro che assumono antidepressivi, l’alcol può rappresentare un rischio significativo. Questa combinazione può avere effetti imprevisti e persino pericolosi sul corpo e sulla mente. Vediamo perché l’abbinamento di alcol e antidepressivi è sconsigliato.

            Effetti collaterali potenziali

            Gli antidepressivi sono progettati per influenzare i neurotrasmettitori nel cervello al fine di trattare disturbi dell’umore come depressione, ansia e disturbo ossessivo-compulsivo. L’alcol, d’altro canto, è un depressivo del sistema nervoso centrale che può accentuare gli effetti collaterali degli antidepressivi. Questo può includere sonnolenza, vertigini, difficoltà di concentrazione e problemi di coordinazione.

            Aumento del rischio di depressione

            Sebbene l’alcol possa inizialmente sembrare un modo per alleviare lo stress o l’ansia, può in realtà esacerbare i sintomi della depressione nel lungo termine. L’alcol è noto per avere effetti depressivi sul sistema nervoso centrale, il che può contrastare gli sforzi per trattare la depressione con farmaci antidepressivi.

            Alterazione dell’efficacia del trattamento

            L’assunzione di alcol mentre si è sotto trattamento con antidepressivi può compromettere l’efficacia del farmaco nel trattare i sintomi. L’alcol può interferire con l’assorbimento e il metabolismo degli antidepressivi nel corpo, riducendo la loro efficacia nel gestire i disturbi dell’umore.

            Rischio di gravi reazioni avverse

            Oltre agli effetti collaterali comuni, l’abbinamento di alcol e antidepressivi può aumentare il rischio di gravi reazioni avverse. Questo può includere aumento della pressione sanguigna, crisi ipertensive, insufficienza respiratoria e comportamento suicida. In alcuni casi estremi, può verificarsi anche il rischio di coma.

            Consigli e precauzioni

            È fondamentale seguire le indicazioni del medico riguardo all’assunzione di antidepressivi e all’evitare l’alcol durante il trattamento. Se si ha il desiderio di bere, è importante discuterne con il proprio medico per valutare i rischi e benefici individuali. Inoltre, è essenziale essere consapevoli dei segnali di reazioni avverse e cercare assistenza medica immediata in caso di emergenza.

            L’interazione tra alcol e antidepressivi può essere pericolosa e sconsigliata. È importante essere consapevoli dei rischi associati e seguire le indicazioni del medico per garantire un trattamento sicuro ed efficace dei disturbi dell’umore. In caso di dubbi o domande, è sempre consigliabile consultare un professionista sanitario. Se ti senti giù, prova a leggere i nostri consigli per raggiungere la gioia.

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              Benessere

              Il cervello inizia a invecchiare a 44 anni: la scoperta che può cambiare la prevenzione del declino cognitivo

              Secondo gli scienziati, il calo metabolico cerebrale non è lineare e potrebbe essere rallentato fornendo al cervello carburanti alternativi, come i chetoni. I risultati, pubblicati su PNAS, aprono nuove prospettive nella lotta contro l’Alzheimer.

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                Quando il cervello inizia davvero a invecchiare

                Il cervello non resta giovane per sempre, ma il momento esatto in cui comincia a perdere efficienza è stato a lungo un mistero. Ora, grazie a una ricerca condotta dall’Università Statale di New York a Stony Brook, gli scienziati hanno identificato l’età in cui il cervello entra nella sua “curva di declino”: a partire dai 44 anni.

                Non si tratta, però, di un processo costante. Il calo segue un andamento “a S”, spiegano i ricercatori: inizia intorno ai 40 anni, accelera fino ai 67 e rallenta intorno ai 90. A influire non sono solo fattori genetici, ma anche aspetti metabolici e infiammatori che condizionano la capacità dei neuroni di ottenere energia dal glucosio.

                Il ruolo dell’insulina: quando i neuroni “restano affamati”

                Secondo lo studio, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), la causa principale dell’invecchiamento cerebrale risiede nel metabolismo del glucosio. Con l’età, l’insulina – l’ormone che regola l’assorbimento dello zucchero nelle cellule – diventa meno efficace nel cervello, lasciando i neuroni “affamati” di energia.

                “Durante la mezza età, i neuroni sono metabolicamente stressati ma ancora vitali”, ha spiegato la professoressa Lilianne R. Mujica Parodi, coordinatrice della ricerca. “È una fase delicata: il cervello non è ancora danneggiato, ma comincia a fare fatica. Intervenire in questo momento può fare la differenza.”

                Chetoni: un carburante alternativo per il cervello

                Il team di ricerca ha testato una possibile soluzione: fornire al cervello una fonte alternativa di energia. Gli scienziati hanno somministrato a un gruppo di volontari integratori a base di chetoni, molecole che l’organismo produce naturalmente quando brucia i grassi in assenza di zuccheri.

                I risultati sono stati sorprendenti: nelle persone tra i 40 e i 59 anni, i chetoni hanno migliorato la sensibilità all’insulina e stabilizzato l’attività delle reti cerebrali, riducendo i segni del declino cognitivo precoce. L’effetto, invece, è risultato meno evidente nei più giovani e negli anziani.

                “Abbiamo osservato che i chetoni riescono a bypassare la resistenza all’insulina e a fornire carburante diretto ai neuroni”, ha aggiunto la professoressa Mujica Parodi. “Questo approccio potrebbe rivoluzionare la prevenzione del declino cognitivo legato all’età e delle patologie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer.”

                La ricerca e i suoi protagonisti

                Lo studio ha coinvolto oltre 19.000 persone, sottoposte a risonanza magnetica funzionale per analizzare l’attività delle reti cerebrali. Oltre all’ateneo di Stony Brook, hanno partecipato la Mayo Clinic, il Massachusetts General Hospital e il Memorial Sloan Kettering Cancer Center.

                L’analisi ha messo in evidenza anche due geni chiave nel processo di invecchiamento cerebrale:

                • GLUT4, responsabile del trasporto del glucosio nelle cellule, e
                • APOE, già noto per il suo ruolo nel rischio di Alzheimer.

                Entrambi risultano coinvolti nella perdita di efficienza del metabolismo cerebrale a partire dalla mezza età.

                Prevenzione e prossimi passi

                Gli autori dello studio sottolineano che si tratta di risultati preliminari, ma aprano una nuova strada per la prevenzione. Intervenire nella “finestra critica” tra i 40 e i 60 anni, fornendo al cervello energia supplementare attraverso integratori o dieta mirata, potrebbe rallentare l’invecchiamento cerebrale prima che compaiano danni irreversibili.

                Tuttavia, gli esperti ricordano che non esistono scorciatoie: prima di assumere integratori o cambiare abitudini alimentari è sempre necessario consultare il proprio medico.

                Un nuovo modo di guardare alla mezza età

                L’idea che il cervello inizi a cambiare già a 44 anni può spaventare, ma è anche un’occasione per intervenire per tempo. Conoscere il momento in cui la mente inizia a perdere efficienza significa poter agire in modo mirato, migliorando alimentazione, attività fisica e salute metabolica.

                In fondo, come conclude la professoressa Mujica Parodi, “l’invecchiamento non è un destino ineluttabile, ma un processo che possiamo imparare a comprendere – e forse, un giorno, a rallentare.”

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