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Sei stressato/a: te lo leggo negli occhi, anzi… sul viso

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    Lo stress è una risposta fisiologica del nostro corpo a situazioni percepite come minacciose o difficili. Quando ci troviamo di fronte a una sfida o a un pericolo, il nostro sistema nervoso rilascia una cascata di ormoni, tra cui l’adrenalina e il cortisolo, per prepararci ad affrontare l’evento. Questo fenomeno è conosciuto come la risposta “lotta o fuga” e, in piccole dosi, può essere utile per affrontare situazioni difficili. Tuttavia, quando lo stress diventa cronico, il corpo rimane in uno stato costante di allerta, il che può portare a problemi di salute sia fisici che mentali. Lo stress cronico può influire negativamente su vari sistemi del corpo, inclusi il sistema immunitario, il sistema digestivo e il sistema cardiovascolare. Inoltre, può avere un impatto significativo sulla salute mentale, causando ansia, depressione e altre condizioni psicologiche. Uno degli effetti meno discussi, ma non meno importanti, dello stress cronico è il suo impatto sulla pelle.

    Le maggiori fonti di stress: lavoro, lavoro e ancora lavoro…

    Il lavoro è una delle principali fonti di stress per molte persone. La pressione per raggiungere obiettivi, rispettare scadenze e gestire carichi di lavoro pesanti può portare a livelli elevati di stress. Un ambiente di lavoro tossico, con relazioni difficili tra colleghi o superiori, può ulteriormente esacerbare la situazione.

    Vita famigliare non serena

    Le dinamiche familiari possono essere una fonte significativa di stress. Conflitti con il partner, problemi con i figli o tensioni con altri membri della famiglia possono aumentare i livelli di stress. La mancanza di supporto emotivo e la solitudine possono aggravare ulteriormente la situazione, rendendo difficile gestire lo stress.

    Preoccupazioni finanziarie

    Le preoccupazioni finanziarie rappresentano un’altra grande fonte di stress. Debiti, spese impreviste e incertezza economica possono causare ansia e preoccupazione costanti. La paura di non riuscire a far fronte alle spese quotidiane o di perdere il lavoro può avere un impatto significativo sul benessere mentale e fisico.

    Pressioni sociali

    Le pressioni sociali, come il bisogno di conformarsi a standard di bellezza irrealistici promossi dai media e dai social network, possono causare insicurezza e stress. Inoltre, mantenere un’attiva vita sociale, partecipare a eventi e mantenere relazioni può essere faticoso e stressante.

    Salute fisica ma anche mentale

    Le condizioni di salute croniche sono una fonte costante di preoccupazione e stress. Malattie a lungo termine, dolore cronico e altre condizioni fisiche possono influire negativamente sulla qualità della vita. Inoltre, i disturbi mentali come l’ansia e la depressione possono amplificare la percezione dello stress, rendendo difficile affrontare le sfide quotidiane.

    Come lo stress impatta sulla tua pelle

    Lo stress cronico può manifestarsi sulla pelle in vari modi, aggravando condizioni preesistenti o causandone di nuove. Tra gli effetti più comuni: c’è l’Acne: lo stress può aumentare la produzione di sebo, portando a un’ostruzione dei pori e, di conseguenza, a un aumento dell’acne. Psoriasi ed eczema: Queste condizioni della pelle possono peggiorare sotto stress a causa dell’infiammazione e della risposta immunitaria alterata. Invecchiamento precoce: Lo stress ossidativo danneggia le cellule della pelle, accelerando il processo di invecchiamento e causando rughe e perdita di elasticità. Perdita di luminosità: Lo stress può compromettere la barriera cutanea, rendendo la pelle opaca e disidratata.

    Come Prevenire o Curare i Danni dello Stress sulla Pelle

    Meditazione e Yoga: Queste pratiche aiutano a ridurre lo stress e a migliorare la consapevolezza e la calma mentale.
    Esercizio Fisico: L’attività fisica regolare rilascia endorfine, che sono noti come ormoni della felicità, contribuendo a ridurre lo stress.
    Respirazione Profonda: Tecniche di respirazione profonda possono aiutare a calmare il sistema nervoso e a ridurre i livelli di stress.

    Alimentazione e Idratazione

    Dieta Equilibrata: Consumare una dieta ricca di antiossidanti, vitamine e minerali può aiutare a migliorare la salute della pelle e a ridurre gli effetti dello stress.
    Idratazione: Bere abbondante acqua è essenziale per mantenere la pelle idratata e luminosa.

    Prenditi cura della tua pelle, lei ti ringrazierà

    Routine di Skincare: Utilizzare prodotti skincare che contengono ingredienti lenitivi come l’aloe vera, la camomilla e la lavanda può aiutare a ridurre l’infiammazione e a calmare la pelle.
    Protezione Solare: Proteggere la pelle dai danni dei raggi UV è fondamentale, soprattutto quando lo stress può rendere la pelle più sensibile.

    Concludendo…

    Riconoscere i fattori che contribuiscono allo stress e comprenderne l’impatto sulla pelle è il primo passo verso una gestione più efficace del proprio benessere. Implementare strategie pratiche per ridurre lo stress e prendersi cura della propria pelle può portare a un miglioramento significativo della salute cutanea e della qualità della vita in generale. Investire nel proprio benessere mentale e fisico è essenziale per mantenere una pelle sana e radiosa nel tempo.

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      Benessere

      Il cervello inizia a invecchiare a 44 anni: la scoperta che può cambiare la prevenzione del declino cognitivo

      Secondo gli scienziati, il calo metabolico cerebrale non è lineare e potrebbe essere rallentato fornendo al cervello carburanti alternativi, come i chetoni. I risultati, pubblicati su PNAS, aprono nuove prospettive nella lotta contro l’Alzheimer.

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        Quando il cervello inizia davvero a invecchiare

        Il cervello non resta giovane per sempre, ma il momento esatto in cui comincia a perdere efficienza è stato a lungo un mistero. Ora, grazie a una ricerca condotta dall’Università Statale di New York a Stony Brook, gli scienziati hanno identificato l’età in cui il cervello entra nella sua “curva di declino”: a partire dai 44 anni.

        Non si tratta, però, di un processo costante. Il calo segue un andamento “a S”, spiegano i ricercatori: inizia intorno ai 40 anni, accelera fino ai 67 e rallenta intorno ai 90. A influire non sono solo fattori genetici, ma anche aspetti metabolici e infiammatori che condizionano la capacità dei neuroni di ottenere energia dal glucosio.

        Il ruolo dell’insulina: quando i neuroni “restano affamati”

        Secondo lo studio, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), la causa principale dell’invecchiamento cerebrale risiede nel metabolismo del glucosio. Con l’età, l’insulina – l’ormone che regola l’assorbimento dello zucchero nelle cellule – diventa meno efficace nel cervello, lasciando i neuroni “affamati” di energia.

        “Durante la mezza età, i neuroni sono metabolicamente stressati ma ancora vitali”, ha spiegato la professoressa Lilianne R. Mujica Parodi, coordinatrice della ricerca. “È una fase delicata: il cervello non è ancora danneggiato, ma comincia a fare fatica. Intervenire in questo momento può fare la differenza.”

        Chetoni: un carburante alternativo per il cervello

        Il team di ricerca ha testato una possibile soluzione: fornire al cervello una fonte alternativa di energia. Gli scienziati hanno somministrato a un gruppo di volontari integratori a base di chetoni, molecole che l’organismo produce naturalmente quando brucia i grassi in assenza di zuccheri.

        I risultati sono stati sorprendenti: nelle persone tra i 40 e i 59 anni, i chetoni hanno migliorato la sensibilità all’insulina e stabilizzato l’attività delle reti cerebrali, riducendo i segni del declino cognitivo precoce. L’effetto, invece, è risultato meno evidente nei più giovani e negli anziani.

        “Abbiamo osservato che i chetoni riescono a bypassare la resistenza all’insulina e a fornire carburante diretto ai neuroni”, ha aggiunto la professoressa Mujica Parodi. “Questo approccio potrebbe rivoluzionare la prevenzione del declino cognitivo legato all’età e delle patologie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer.”

        La ricerca e i suoi protagonisti

        Lo studio ha coinvolto oltre 19.000 persone, sottoposte a risonanza magnetica funzionale per analizzare l’attività delle reti cerebrali. Oltre all’ateneo di Stony Brook, hanno partecipato la Mayo Clinic, il Massachusetts General Hospital e il Memorial Sloan Kettering Cancer Center.

        L’analisi ha messo in evidenza anche due geni chiave nel processo di invecchiamento cerebrale:

        • GLUT4, responsabile del trasporto del glucosio nelle cellule, e
        • APOE, già noto per il suo ruolo nel rischio di Alzheimer.

        Entrambi risultano coinvolti nella perdita di efficienza del metabolismo cerebrale a partire dalla mezza età.

        Prevenzione e prossimi passi

        Gli autori dello studio sottolineano che si tratta di risultati preliminari, ma aprano una nuova strada per la prevenzione. Intervenire nella “finestra critica” tra i 40 e i 60 anni, fornendo al cervello energia supplementare attraverso integratori o dieta mirata, potrebbe rallentare l’invecchiamento cerebrale prima che compaiano danni irreversibili.

        Tuttavia, gli esperti ricordano che non esistono scorciatoie: prima di assumere integratori o cambiare abitudini alimentari è sempre necessario consultare il proprio medico.

        Un nuovo modo di guardare alla mezza età

        L’idea che il cervello inizi a cambiare già a 44 anni può spaventare, ma è anche un’occasione per intervenire per tempo. Conoscere il momento in cui la mente inizia a perdere efficienza significa poter agire in modo mirato, migliorando alimentazione, attività fisica e salute metabolica.

        In fondo, come conclude la professoressa Mujica Parodi, “l’invecchiamento non è un destino ineluttabile, ma un processo che possiamo imparare a comprendere – e forse, un giorno, a rallentare.”

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          Benessere

          La felicità non è uguale per tutti: cosa dice la scienza su emozioni e salute

          Nuove ricerche mostrano che i benefici biologici della felicità dipendono da genetica, cultura e condizioni sociali. E che cercare la gioia a tutti i costi può, paradossalmente, farci stare peggio.

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          felicità

            Per decenni la scienza ha sostenuto che un atteggiamento positivo sia la chiave per vivere più a lungo e ammalarsi di meno. “La felicità fa bene al cuore”, si ripete spesso — e, in parte, è vero. Numerosi studi psicologici e biologici hanno mostrato che lo stato emotivo influenza il sistema immunitario, l’infiammazione e perfino il metabolismo. Tuttavia, le ricerche più recenti raccontano una realtà più sfumata: la felicità non produce gli stessi effetti su tutti.

            Ci sono persone per cui il benessere emotivo si traduce in salute fisica misurabile — meno infiammazione, pressione più bassa, maggiore longevità — e altre per cui l’effetto è quasi nullo.

            Quando il corpo “sente” la felicità

            Il legame tra emozioni positive e salute è stato osservato in numerosi studi. Quando ci sentiamo felici, il cervello rilascia dopamina, endorfine e ossitocina: sostanze che riducono lo stress, abbassano la pressione sanguigna e potenziano le difese immunitarie. Questi ormoni agiscono come modulatori naturali dell’equilibrio psicofisico.

            Ma non tutti li producono o li “ricevono” allo stesso modo. La risposta del corpo a questi neurotrasmettitori varia a seconda della genetica, dell’età e dell’accumulo di stress cronico. “L’effetto biologico della felicità è reale, ma individuale,” spiegano i ricercatori della Harvard T.H. Chan School of Public Health, che hanno recentemente analizzato oltre 200 studi sul tema.

            Il ruolo dei geni e del temperamento

            Parte della nostra “sensibilità alla felicità” è scritta nel DNA. Alcune varianti genetiche influenzano il modo in cui il cervello elabora dopamina e serotonina, modificando la risposta allo stress. In pratica, due persone che vivono la stessa esperienza positiva possono reagire in modo diverso: una si sentirà rigenerata, l’altra noterà solo un miglioramento temporaneo.

            Questa variabilità spiega anche perché la cosiddetta psicologia positiva — il ramo che studia le emozioni benefiche — produca risultati tanto disomogenei: ciò che funziona per uno può non funzionare per un altro.

            Felicità: questione di cultura (e di società)

            La definizione stessa di felicità cambia nel mondo. Nelle società occidentali è spesso legata a successo, autonomia e realizzazione personale; in quelle orientali, invece, a armonia sociale e appartenenza al gruppo.

            Gli studi comparativi, pubblicati sul Journal of Cross-Cultural Psychology, mostrano che nelle culture collettiviste la felicità genera effetti fisici più stabili — minor incidenza di depressione e disturbi cardiovascolari — perché è vissuta come parte di un equilibrio condiviso. Al contrario, nei contesti individualisti la ricerca della felicità tende a essere più fragile e dipendente da risultati o status personali.

            Quando voler essere felici diventa stressante

            Può sembrare paradossale, ma l’ossessione per la felicità può minare la salute mentale. Psicologi come Iris Mauss, dell’Università della California, parlano di “tirannia della felicità”: la pressione sociale a essere sempre positivi genera senso di colpa quando si provano emozioni negative. Questo porta a frustrazione cronica, stress e insonnia — proprio l’opposto dell’effetto sperato

            La felicità che protegge davvero

            Non tutte le felicità sono uguali. Gli esperti distinguono tra felicità edonica, legata al piacere momentaneo, e felicità eudaimonica, radicata nel significato e nei valori personali. Solo quest’ultima sembra avere effetti duraturi sulla salute: chi percepisce la propria vita come utile e coerente con i propri ideali mostra livelli più bassi di infiammazione e una maggiore resilienza allo stress.

            “Il benessere autentico non dipende dal divertimento, ma dal senso,” sintetizza la psicologa Barbara Fredrickson, tra le maggiori studiose del tema.

            Un privilegio (non per tutti)

            Gli effetti positivi della felicità, inoltre, non sono uguali in tutti i contesti. Le persone che vivono in situazioni di precarietà economica o discriminazione cronica non riescono a trasformare la gioia in salute. Lo stress continuo, spiegano gli esperti di The Lancet Public Health, può neutralizzare i benefici fisiologici delle emozioni positive. È ciò che oggi viene definito “disuguaglianza del benessere”.

            La lezione della scienza

            La felicità, dunque, non è una formula universale, ma un equilibrio dinamico tra mente, corpo e contesto. Coltivare relazioni sincere, praticare gratitudine e accettare anche la tristezza come parte naturale della vita sembra più salutare di qualunque “positività forzata”.

            Essere felici non significa non soffrire mai, ma imparare a dare senso anche ai momenti difficili. È lì, dicono gli scienziati, che la felicità diventa davvero una forza che guarisce.

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              Salute

              Artrite reumatoide, la malattia inizia anni prima dei dolori: svelata la fase invisibile

              Lo studio, pubblicato su Science Translational Medicine, rivela come alterazioni profonde di cellule immunitarie, anticorpi e processi epigenetici siano già presenti anni prima dei sintomi: scoperte che aprono alla possibilità di diagnosi e interventi preventivi.

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              Artrite reumatoide

                Il dolore articolare non è l’inizio dell’artrite reumatoide, ma solo la punta dell’iceberg. Molto prima che compaiano rigidità e infiammazione, il sistema immunitario ha già avviato un processo silenzioso e diffuso che coinvolge l’intero organismo. È quanto emerge da una vasta ricerca condotta da un consorzio di istituzioni statunitensi – tra cui l’Allen Institute, l’Università del Colorado Anschutz, la University of California San Diego e il Benaroya Research Institute – che ha ricostruito in modo dettagliato le fasi più precoci della malattia autoimmune. I risultati, pubblicati su Science Translational Medicine, rappresentano una delle mappe immunologiche più complete disponibile finora.

                Il lavoro si basa sul monitoraggio, durato sette anni, di persone portatrici degli anticorpi anti-peptidi citrullinati ciclici (ACPA), biomarcatori che aumentano in modo significativo il rischio di sviluppare l’artrite reumatoide. In questo lungo follow-up, i ricercatori hanno osservato una trasformazione progressiva delle cellule immunitarie, segno che l’organismo è già immerso in una condizione infiammatoria sistemica ben prima delle manifestazioni cliniche.

                Il dato forse più sorprendente è proprio questo: gli individui a rischio mostrano profili infiammatori molto simili a quelli dei pazienti con artrite reumatoide conclamata. Non una semplice predisposizione, quindi, ma una malattia già in corso, anche se invisibile. Il modello tradizionale, che vede l’artrite reumatoide come patologia principalmente articolare, appare riduttivo: la nuova evidenza suggerisce che la malattia abbia radici profonde nel sistema immunitario nel suo complesso.

                Analizzando cellule e segnali molecolari, gli studiosi hanno individuato anomalie coordinate in più rami dell’immunità. I linfociti B – responsabili della produzione di anticorpi – risultavano in una condizione iper-attiva e pro-infiammatoria. Ancora più rilevanti le alterazioni dei linfociti T helper, con particolare espansione delle sottopopolazioni simili alle Tfh17, note per favorire la formazione di autoanticorpi. Una crescita clonale anomala che suggerisce un sistema immunitario già pronto ad attaccare i tessuti dell’organismo.

                A colpire gli scienziati è stata anche la scoperta di modificazioni epigenetiche nei linfociti T naive, cioè cellule “vergini” che non dovrebbero presentare segni di attivazione. La loro riprogrammazione indica un processo patologico che penetra fino alle radici del sistema immunitario: una sorta di precondizionamento che prepara le future risposte autoimmuni.

                Un altro indizio della rivoluzione silenziosa in corso arriva dai monociti circolanti. Nel sangue di individui a rischio, queste cellule presentavano un profilo molecolare quasi identico a quello dei macrofagi che si trovano nelle articolazioni infiammate dei pazienti con malattia attiva. Una sorta di “prova generale” dell’attacco che avverrà successivamente a livello articolare.

                “Questa ricerca dimostra che l’artrite reumatoide inizia molto prima dei primi sintomi e ci permette di pianificare strategie basate su dati per interrompere la progressione della malattia”, ha spiegato Mark Gillespie, ricercatore dell’Allen Institute e co-autore senior dello studio.

                Le implicazioni cliniche potrebbero essere rivoluzionarie. Riconoscere biomarcatori e firme immunologiche della fase preclinica potrebbe consentire di individuare, tra gli individui ACPA-positivi, chi svilupperà la malattia e chi invece resterà asintomatico. Come sottolinea Kevin Deane, fra gli autori principali, questa comprensione apre la strada a nuove possibilità di prevenzione e trattamenti più tempestivi, mirati a fermare l’autoimmunità prima che causi danni articolari permanenti.

                Restano tuttavia domande cruciali: quali fattori genetici, ambientali o infettivi innescano questo processo anni prima? Quali meccanismi determinano chi sviluppa la malattia e chi no? E soprattutto: quali terapie potrebbero bloccare l’autoimmunità senza interferire con le difese fisiologiche dell’organismo?

                La ricerca ha posto le basi per un cambio di paradigma: non più attendere l’infiammazione articolare, ma intercettare la malattia nella sua fase invisibile, quando esiste ancora la possibilità di cambiarne il destino. Una prospettiva che, per milioni di persone, potrebbe significare evitare anni di dolore e disabilità.

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