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Punti di svista

Il rigore che ci vuole per punire i vigliacchi social

L’attaccante del Como Patrick Cutrone, cresciuto nelle giovanili del Milan, si sfoga per i messaggi vergognosi da lui ricevuti dopo un rigore fallito. Commenti non solo odiosi ma anche surreali… visto che lui è stato fra i protagonisti (14 gol e 5 assist in 32 presenze) della promozione in Serie A della sua squadra attuale…

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    «Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore…», cantava De Gregori. Ma quando pubblicò una delle sue canzoni più celebri, La leva calcistica della classe ‘68, non aveva fatto i conti con i social network e su quanto possano essere utilizzati in maniera infima.

    Augurare la morte a chi fallisce un penalty: succede pure questo

    Succede che Patrick Cutrone, attaccante del Como, sbagli un calcio di rigore decisivo, nei minuti di recupero, nella gara contro l’Udinese. È successo a lui come ad altri nel passato, succederà ancora. Piccolo dramma sportivo ma, oggettivamente, nulla di irreparabile, specie alla terza giornata di campionato. Eppure, eccoli i fenomeni dei social. In questo caso molto più che odiatori. La pagina Instagram di Cutrone è stata infatti intasata di insulti, alcuni gravissimi, in cui si augura la morte a lui e ai suoi figli. Inaccettabile.

    Leoni… vigliacchi

    Il calciatore non ci sta, mostra parte di questi vergognosi messaggi (ovviamente provenienti da account anonimi, perché i cuor di leone virtuali sono profondamente vigliacchi, sempre) e scrive: «Accetto le critiche, com’è giusto che sia ma queste cose non le lascio passare». E ha ragione, da vendere. Banale esprimere solidarietà a Cutrone.

    Ci vogliono regole (e pene) precise

    L’augurio è che la polizia postale rintracci quei cretini e, oltre a metterli di fronte alla loro pochezza umana, meglio se pubblicamente, gli faccia mettere anche mano al portafoglio. Una bella e cospicua donazione a qualche associazione caritatevole sarebbe una bellissima e sacrosanta lezione. Per tutti.

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      Un eroe normale, non degno di un paese (non) civile

      Un eroe involontario, che ha ritenuto solo di fare la cosa giusta in un frangente drammatico. E che lascia tutti attoniti ed amareggiati,

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        La storia di Michele, il ragazzo di Mestre ucciso per aver difeso una ragazza da una rapina, lascia addosso un senso di ingiustizia misto ad ammirazione. Perché Michele ha fatto quello che molti di noi, forse, non avrebbero il coraggio di fare: non si è girato dall’altra parte mentre qualcuno era in pericolo. Ha avuto coraggio. E ha pagato con la vita.

        Il coraggio di preoccuparsi per gli altri

        Sicuramente qualcuno avrà pensato “poteva farsi gli affari suoi”, qualcun altro si sarà chiesto se ne valeva la pena. Domande e riflessioni lecite e normali, in un mondo di indifferenti. La via più semplice è quella di farsi gli affari propri, è vero. Se lo avesse fatto anche lui, nessuno avrebbe potuto giudicare quel ragazzo che passava di lì, che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma Michele non lo ha fatto, non si è voltato dall’altra parte, non si è fatto gli affari propri. Ha scelto di fare la cosa giusta, quella che riteneva giusta. E suo malgrado è diventato un eroe.

        L’amaro in bocca

        Ma la sua storia lascia anche un profondo senso di amarezza. Perché mai in un Paese civile fare la cosa giusta, essere altruista, e non girarsi dall’altra parte di fronte a un’ingiustizia, dovrebbe costare la vita. In un Paese davvero civile, non si diventa eroe in questo modo. Michele lo è diventato un eroe, purtroppo. E questo non può che fare tristezza.

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          La triste disfida tra rapper diventa un patetico show

          Fedez e Tony Effe a caccia di visualizzazioni e di like, chissenefrega se la musica viene relegata all’ultimo posto… l’importante è fare notizia, sempre e comunque.

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            Mi si nota più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Il dubbio amletico di Nanni Moretti in Ecce Bombo non esiste nel mondo del rap. Di certo ci si fa notare quando si è notati, anche se per farlo si sfiora il patetico. Per informazioni citofonare a Fedez e Tony Effe, che si sono contesi le prime pagine dei giornali non grazie a qualche strofa potente o a un nuovo sound rivoluzionario, ma grazie all’ultimo tragico e patetico episodio di una presunta “guerra tra rapper” che ispira un po’ di tenerezza e molta tristezza.

            Che barba, che noia…

            Il re delle polemiche su Instagram contro il campione dei trapper con la vocale mononota. E se già state sbuffando, avete ragione. Questo dissing, più che una sfida epica tra titani, sembra la trama di un film di serie B che nessuno vuole vedere, ma che alla fine tutti guardano, magari per sentirsi superiori.

            Sberleffi, insulti… ma la musica dov’è?!?

            In realtà quello che va in scena è una triste battaglia a caccia di un consenso più effimero che reale. Da un lato l’icona del rap diventato personaggio dei social e della tv, dall’altra il cattivo che cerca di accreditarsi come duro scimmiottando i gangsta rap americani. Ma in fondo, quello che rimane, è solo una guerra di like e visualizzazioni in cui la musica non conta nulla. E qualcuno, visti i risultati, potrebbe dire “meno male”. Perché mentre loro si azzuffano a suon di frecciatine, la colonna sonora di questo triste spettacolo è sempre più inascoltabile.

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              La differenza fra legittima difesa e vendetta

              Un recente caso di cronaca ci stimola ad interrogarci sulla follia della giustizia “fatta in casa”. Anche se abbiamo subito un grave torto dovremmo sempre ricordarci che viviamo in uno stato di diritto… e non nel Far West.

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                Viene derubata della borsa, sale in macchina, insegue il ladro, lo raggiunge e lo investe, passandogli sopra due, tre, quattro volte, uccidendolo. E poi va via come se nulla fosse. Il fatto di cronaca in sè è aberrante ma il problema, ahinoi, è un altro. Perché in tanti, troppi, hanno pensato e detto che in fondo “ha fatto bene”, che si tratta di “legittima difesa” ma anche che quel ladro “se l’è cercata”, fino al tanto immancabile quando idiota “uno di meno”.

                Rabbia sì, omicidio no

                Bisogna essere chiari: la rabbia e la frustrazione sono comprensibili, anche una reazione scomposta, al limite. Ma questa, nello specifico, non è autodifesa, non è legittima difesa. È vendetta. È un omicidio. E vendetta e omicidio non sono accettabili, non siamo nel far West.

                Il caos della giustizia fai-da-te

                Va bene lamentarsi che viviamo nell’insicurezza, che i processi sono lunghi e che le pene per chi delinque spesso sono troppo blande ma alimentare la visione per cui la vendetta è la risposta porta solo al caos. Ognuno diventa giudice, giuria e boia. E questo è inaccettabile. O è davvero questo il mondo in cui vogliamo vivere? Quello in cui ognuno si erge a vendicatore e si fa giustizia da solo? Non facciamo confusione o populismo da quattro soldi. Ricordiamoci che viviamo in uno stato di diritto. Sempre, non solo quando fa comodo a noi.

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