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Punti di svista

Le parole sono importanti!

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    “Le parole sono importanti”, diceva, anzi, gridava, Nanni Moretti in Palombella rossa. E aveva ragione. Le parole sono importanti, alcune più di altre. Anche in quella politica in cui le parole sono gettate qua e là un po’ troppo a casaccio.

    L’hasthag strumentale

    E così, quando il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte decide di mettere la parola “pace” nel simbolo del suo partito per le prossime elezioni europee, dimostra di non rispettare l’importanza di una parola meravigliosa, commettendo tre gravissimi errori. Il primo e più banale, è quello di trasformare una parola tanto importante in un hashtag, #pace, quasi come si trattasse di un semplice post da buttare lì, tanto per fare. Il secondo, ben peggiore, è strumentalizzare e banalizzare una parola come “pace”. Dove siamo, a Miss Italia? Votatemi perché voglio la pace nel mondo? Ma andiamo…

    Un concetto svuotato e reso slogan

    Compito di un politico sarebbe quello di spiegare come ottenere la pace, piuttosto che sbandierarla. Ed ecco il terzo e più grave errore. Perché quando spiega il suo personalissimo concetto di pace per il conflitto in Ucraina, Conte spiega: “Basta mandare armi all’Ucraina, serve il dialogo”. Ecco allora che la parola “pace” diventa così solo un vuoto e triste slogan.

    Pace o… resa?!?

    Senza armi, senza difese, senza aiuti, l’Ucraina non sarebbe più un Paese sovrano. Semplicemente, non esisterebbe più. Perché l’Ucraina diventerebbe una provincia russa. E allora, caro Conte, se davvero pensa che questa sia la strada giusta e la soluzione migliore, abbia il coraggio di portarla fino in fondo. E sul suo simbolo non scriva la parola “pace” ma usi la parola “resa”. Sarebbe più coerente. Perché sì, le parole sono importanti.

      In primo piano

      Non è solo un gioco (e i sogni possono diventare realtà)

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        Se qualcuno osasse dire che il calcio è soltanto un gioco, raccontategli la storia di José Luís Sanmartín Mato, meglio conosciuto come Joselu, professione calciatore. Non un divo del pallone per intenderci, non esattamente uno di quelli le cui magliette vanno a ruba, nonostante giochi nel club più prestigioso al mondo, il Real Madrid.

        Tutto negli ultimi minuti

        Che incidentalmente è anche la squadra per cui Joselu fa il tifo da sempre. Che meno incidentalmente ha portato alla finale del trofeo più importante al mondo, la Champions League. Era in panchina, come spesso accade, lui che è arrivato al Real come rincalzo dell’ultimo in prestito da una squadra appena retrocessa, solo perché alla fine del mercato non c’era più tempo per portare a termine un acquisto migliore. Ma a meno di dieci minuti dalla fine di Real Madrid-Bayern Monaco, semifinale di Champions, con i tedeschi avanti 1-0, quel volpone di Carlo Ancelotti lo manda in campo. Risultato: due gol e Madrid in finale.

        Non mollare mai

        Fin qui una delle tante belle storie di sport che possono capitare. Il carneade che si trasforma in eroe e di colpo si prende la gloria. Ma nel caso di Joselu c’è di più. Ci sono la tenacia, la voglia di non mollare e la capacità di trasformare in realtà il proprio sogno. Perché se il primo giugno giocherà la finale di Champions con il suo Real, è vero anche che solo due anni fa la finale di Champions del Real l’aveva vista da tifoso qualsiasi, in tribuna. Ed è ancor più verto che dieci anni fa, con un tweet ora tornato virale, chiedeva agli utenti social se potessero consigliargli un link per vedere una partita del Real.

        Nella vita come sul prato verde
        Da spettatore abusivo, a tifoso, a protagonista assoluto, eroe e idolo. Joselu insegna, fa scuola. Va bene il talento e tutto il resto ma credere in qualcosa, sognarla e impegnarsi per ottenerla, fa la differenza. Vale per tutti, nella vita. E nel calcio. Che non è solo un gioco. Anche grazie a Joselu.

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          Cronaca

          La garanzia politica dei SE e dei MA

          Il garantismo, un concetto nobile e fondamentale nella giustizia, è spesso abusato nella politica italiana. Esso prevede la presunzione di innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, un principio essenziale che, però, viene spesso strumentalizzato.

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            È una delle parole più usate, se non abusate nella politica di oggi. Nobile e importante. Utilissima, perché fa bello e non impegna. Garantismo, che nell’accezione odierna altro non significa che garantire la presunzione di innocenza per le persone inquisite fino all’ultimo grado di giudizio. Che meraviglia. Come si fa a non essere garantisti? Basta fare il politico e vivere in Italia.

            Garazia, portami via…

            Ogni volta che un politico finisce dentro un’inchiesta giudiziaria, ecco spuntare puntuale la dichiarazione di facciata con proclami del tipo «Sono garantista», «Resto garantista», «Il garantismo è alla base». Wow, che meraviglia! Peccato che nel 90% dei casi (stiamo stretti…) si tratti di una fantastica recita.

            Due pesi, due misure: la solita vecchia storia

            Vale a destra, a sinistra, al centro e per i cespugli sparsi qua e là. Se ad avere problemi con la giustizia è un amico o collega di partito ecco partire lo sventolio della bandiera del garantismo. Se invece a finire sotto inchiesta è un avversario, ecco come per magia spuntare i «ma», i «però» e le questioni di opportunità più disparate.

            È facile essere buoni. difficile essere giusti

            Un garantismo a targhe alterne che sa di ridicolo se non di patetico e non fa altro che aumentare la distanza, già siderale, tra cittadini comuni e politica. Anche su principi sacrosanti come, appunto, il garantismo. Che diventa solo un triste slogan quando fa rima con ipocrisia. Ma sono pronto a essere smentito eh, sia chiaro. In fondo sono garantista…

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              Punti di svista

              Lasciate stare Chiara Ferragni!

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                Ci sono reati, veri o presunti, per cui si trovano centinaia di «se» o di «ma». Ci sono colpevoli, o presunti tali, per cui ci sono seconde chance, ma anche terze, quarte, appelli, contro appelli… Ma ci sono persone, nello specifico una, e reati (al momento soltanto presunti) per cui anche solo l’ipotesi di colpevolezza equivale a una sentenza definitiva. Mi riferisco a Ferragni Chiara da Cremona, professione imprenditrice digitale.

                Chi sbaglia paga… ma per quanto tempo ancora?

                Da mesi non si parla altro che del suo «pandoro gate». In sintesi: nella campagna per promuovere un marchio, unito a un’iniziativa di beneficenza, lei (o più probabilmente chi gestisce i suoi affari) ha fatto un pasticcio, comunicando in maniera sbagliata finalità dell’iniziativa, somme guadagnate e somme donate. Un errore, senza dubbio. Che l’influencer più famosa del mondo ha pagato a carissimo prezzo. Lei ha ammesso le colpe, si è scusata e ha donato un milione di euro all’ospedale regina Margherita di Torino. Ma non è bastato.

                Le ripercussioni sul suo lavoro

                Numerosi marchi l’hanno scaricata, il suo giro d’affari è crollato e il suo futuro professionale è incerto. Ci sta. Ma quante persone nel nostro Paese sbagliano e chiedono scusa? Quanti, invece, negano l’evidenza pur di non ammettere le proprie responsabilità anche se gravi? Quanti se la cavano facendo finta di nulla e vanno avanti come niente fosse? È così in ogni ambito, dalla politica alla società civile.

                La macchina del letame è sempre in azione

                Al di là delle responsabilità che verranno accertate, la marea di letame lanciata addosso a Chiara Ferragni è eccessiva. E probabilmente figlia del fatto che molti, troppi, specie se privi di ogni capacità o talento, godano nel vedere crollare al tappeto chi è arrivato così in alto facendo quello che loro non potranno mai fare. Ha sbagliato Chiara Ferragni, anche nell’ostentare la sua vita da copertina. È giusto che paghi e pagherà. Ma siamo onesti: non ha mica ucciso nessuno. Non è una santa, nemmeno un demonio. La lapidazione in pubblica piazza, il rogo della strega cattiva, la gogna, anche no. Anche meno, dai.

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