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Sic transit gloria mundi

Il ministro dell’apparenza Carlo Nordio e la guerra santa dichiarata a giornalisti e magistrati

Il ministro della Giustizia ha deciso di concentrare i suoi sforzi non sulla lotta alla criminalità organizzata o sulla prevenzione delle violenze domestiche e dei femminicidi, ma sull’approvazione di leggi controverse e sulla limitazione delle intercettazioni. Non manca, poi, l’impegno nel cercare di mettere un bavaglio alla stampa libera, attaccando chiunque tenti di opporsi al suo operato, mentre le carceri italiane versano in condizioni sempre più disastrose.

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    Che Carlo Nordio sia considerato “uno dei ministri più attivi” del governo fa sorridere. E la dice lunga sul livello dei suoi colleghi di Governo. O forse è considerato super impegnato per la sua inclinazione a destreggiarsi tra interviste e convegni, a cui presenzia spesso e volentieri. Ma basta guardare al suo operato per chiedersi: attivo in cosa, esattamente? Di certo, non lo è nel contrastare la criminalità organizzata o nell’affrontare l’aumento preoccupante di violenze domestiche e femminicidi che colpiscono il nostro Paese. O nel trovare soluzioni per risolvere i problemi tremendi delle carceri. In realtà, l’unica cosa in cui appare non solo attivo, ma addirittura solerte, è scontrarsi con giornalisti, stampa libera e, soprattutto, con i suoi stessi colleghi magistrati alla ricerca di tutti i modi impossibili per rendere difficile se non inutile il loro lavoro.

    In due anni di governo, Nordio ha portato a casa una sola legge, quella sull’abuso d’ufficio, approvata il 25 agosto. Ed è così raffazzonata che probabilmente la Corte Costituzionale dovrà rimediare ai danni creati rispedendola al mittente. Insomma, un ministro attivo? Forse sì, ma certamente non nel dare risposte concrete ai problemi che affliggono il sistema giudiziario italiano.

    In questo clima di inazione, Nordio trova però il tempo per ribadire, in ogni occasione pubblica, che non ci sono margini per sollevare questioni di costituzionalità sul reato soppresso di abuso d’ufficio. Ma la realtà lo contraddice: da Perugia è già partito un ricorso, e altri seguiranno. Sarà la Corte Costituzionale a decidere se il vuoto normativo creato da questa riforma sia accettabile o meno. Nel frattempo, il caos regna.

    Norme confuse e rischi per la giustizia
    Non basta l’incertezza creata dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Nordio ha introdotto anche una norma che impone ai pubblici ministeri di interrogare i potenziali arrestati prima di procedere con l’arresto. Un pasticcio che sta già causando problemi alle indagini. Come segnalato da diversi procuratori, tra cui quello di Foggia, far conoscere agli indagati le prove a loro carico potrebbe inquinare le indagini, alimentare alibi fasulli e persino scatenare intimidazioni.

    Una battaglia ideologica, non strutturale
    La battaglia di Nordio non sembra rispondere a nessuna delle necessità concrete della giustizia italiana, bensì a una visione puramente ideologica. Anziché concentrarsi su interventi più urgenti e strutturali, aggrava la repressione verso chi manifesta dissenso e chi, come la stampa libera, ha il compito di vigilare su un mondo – quello della politica – che spesso preferisce le tenebre alla luce, in modo da nascondere le proprie malefatte spazzandole sotto il classico tappeto. Il Guardasigilli sembra più un garante di interessi di parte che un paladino della giustizia.

    Il disastro delle carceri
    Nel frattempo, nelle carceri italiane, le condizioni restano disastrose. Dall’inizio dell’anno, 72 detenuti e 7 agenti penitenziari si sono tolti la vita. Un dato allarmante, ma il nostro prode ministro della Giustizia sembra preferire sfilate internazionali, come l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario a Londra, anziché affrontare le problematiche quotidiane del sistema penitenziario.

    E mentre questo disastro si consuma, Nordio firma insieme a Matteo Piantedosi un disegno di legge sulla sicurezza, che prevede una miriade di nuovi reati improbabili. Che, contro il suo stesso credo garantista, finiranno per riempire le prigioni di nuove tipologie di detenuti: quelli che fanno i blocchi stradali, gli ecologisti troppo accesi, i giornalisti non allineati. Il provvedimento è stato così deriso dall’ex presidente delle Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, che in un editoriale lo ha definito “inutile e pericoloso”, una vera e propria “lenzuolata di reati à go-go”. Tra le assurdità della nuova legge, c’è anche una norma che prevede di incarcerare i figli delle detenute madri, un provvedimento che non risolve alcun problema ma rischia solo di peggiorare le già precarie condizioni delle prigioni italiane.

    La difesa dei potenti e il bavaglio alla stampa
    Un’altra battaglia su cui Nordio è molto attivo è quella contro la legge Severino, che obbliga gli amministratori locali condannati in primo grado a dimettersi. Per il ministro, questo provvedimento viola la presunzione di innocenza e andrebbe modificato. Ma non si può fare a meno di chiedersi chi Nordio stia cercando di proteggere: i cittadini comuni o i colletti bianchi? La risposta sembra abbastanza chiara.

    E poi c’è la questione delle intercettazioni. Nordio ha fatto capire che il suo obiettivo è quello di limitarne al massimo l’uso, riducendo la loro durata a 45 giorni, a meno che non si tratti di reati gravissimi. Questo, insieme alla riduzione degli ascolti tramite il Trojan e all’impossibilità di intercettare le conversazioni tra avvocati e clienti, mostra chiaramente la sua volontà di ridurre le possibilità di indagine, non di ampliarle.

    Come se non bastasse, il ministro sta cercando di mettere un bavaglio alla stampa, vietando la p Come se non bastasse, il ministro sta cercando di mettere un bavaglio alla stampa, vietando la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare. Un provvedimento che ha sollevato forti critiche da parte di associazioni come la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, che hanno definito la norma “liberticida” e contraria ai principi democratici. La direttiva sulla presunzione di innocenza del 2016 non richiede affatto un bavaglio del genere. Eppure, Nordio sembra deciso a procedere in questa direzione, appoggiato da esponenti della maggioranza.

    L’ambiguità delle regole e l’attacco alla giustizia
    Appare evidente, allora, che dietro l’insistenza con la quale la destra invoca una revisione delle regole in senso restrittivo, e più in generale nel modo in cui continua ad affrontare le questioni della giustizia, vi sia una motivazione di natura ideologica più che giuridica. Lo fanno pensare anche certe ambiguità, per esempio nel distinguere tra regole che riguardano le indagini, e quindi il lavoro dei magistrati, e regole che riguardano la diffusione delle notizie, e quindi il lavoro dei mezzi di informazione.

    Nell’ambiguità, infatti, diventa più facile usare eventuali eccessi della stampa per proporre un irrigidimento delle regole che riguardano gli strumenti investigativi a disposizione di chi indaga. Ed è proprio ciò che sta accadendo: un attacco coordinato che mira non tanto a tutelare i diritti dei cittadini, ma a limitare gli strumenti di chi indaga e di chi racconta la verità.

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      Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”

      Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

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        Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.

        Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.

        Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.

        Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.

        Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.

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          Il Senato salva Sangiuliano dal processo per la “chiave di Pompei”: 112 voti bastano a fermare l’accusa di peculato

          Il caso ruotava attorno al simbolico omaggio di Pompei finito in un regalo privato. La Giunta per le immunità ha riconosciuto l’atto come compiuto nell’interesse pubblico e non come reato ordinario. I legali dell’ex ministro ricordano che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che la chiave era stata acquistata e pagata, diventando sua proprietà.

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            Palazzo Madama ha fatto scudo all’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, bloccando il processo per peculato che rischiava di aprirsi attorno alla “chiave d’onore” di Pompei. Con 112 voti favorevoli e 57 contrari, l’aula del Senato ha respinto l’autorizzazione a procedere, accogliendo la linea della Giunta per le immunità: il gesto di donare la chiave a Maria Rosaria Boccia non costituirebbe reato ordinario, ma un atto riconducibile all’esercizio della funzione di governo e al perseguimento di un interesse pubblico preminente.

            La vicenda aveva incuriosito l’opinione pubblica nei mesi scorsi, trasformandosi in un caso mediatico: la chiave, simbolo del legame con la città archeologica, era stata regalata dall’ex ministro a una conoscente, scatenando polemiche e sospetti di appropriazione indebita. I difensori di Sangiuliano hanno sempre sostenuto la piena legittimità dell’operazione, ricordando che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che, tramite la procedura prevista dalla legge, l’ex ministro aveva acquistato e pagato l’oggetto, diventandone il proprietario a tutti gli effetti.

            Il voto in aula è arrivato dopo una giornata di interventi accesi, tra ironie e schermaglie politiche. Il leghista Gian Marco Centinaio ha scherzato in diretta: «Lasciamo i colleghi nella suspense… Sim Salabim!», strappando un sorriso in un dibattito altrimenti teso.

            Non solo Sangiuliano: nella stessa seduta, Palazzo Madama ha affrontato altre questioni di immunità parlamentare. Maurizio Gasparri ha incassato il via libera dell’aula sulla sua insindacabilità per le frasi rivolte al magistrato Luca Tescaroli nel 2023, giudicate collegate ad atti parlamentari come interrogazioni e interventi in aula. A favore hanno votato 117 senatori, mentre 23 – tra M5s e Avs – hanno detto no.

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              Sic transit gloria mundi

              “Comunisti no, gay solo se non sculettano”. Il delirio dello chef stellato in cerca di personale

              Dalla nostalgia per la cucina “da caserma” agli insulti ai giovani cuochi, passando per i tatuaggi di Mussolini e la svastica: lo chef stellato Paolo Cappuccio racconta il suo personale concetto di rigore. Un concentrato di luoghi comuni, rancore sociale e arroganza padronale condito da accuse pesanti e zero autocritica.

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                C’è chi usa i social per condividere piatti e ricette. E poi c’è Paolo Cappuccio, chef napoletano classe 1977, che ha preferito farlo per pubblicare un post a metà tra la bacheca fascistoide e lo sfogo da bar sport. Il testo – rimosso dopo insulti e minacce di morte – vietava l’assunzione di «fancazzisti, comunisti, drogati, ubriachi e per orientamento sessuale». E ora lo chef stellato, lungi dal fare marcia indietro, rivendica ogni parola.

                «Da dopo il Covid i dipendenti fanno quello che vogliono», attacca. «Un cuoco arriva in ritardo e ti dice che se non ti va bene se ne va. Lo riprendi? Si mette in malattia. E il medico lo giustifica pure». Il quadro che dipinge è quello di un’Italia dove gli chef sono martiri e gli stagisti dei ricattatori seriali. Ma per Cappuccio la colpa non è solo dei giovani. È dei “comunisti”.

                «Il dipendente comunista lo riconosci subito», assicura con inquietante certezza. «Si lamenta della mensa, vuole sapere la tredicesima prima ancora di iniziare. Quelli di destra invece sono operosi e vogliono diventare titolari. La differenza è abissale». E pazienza se nel 2025 parlare così significa semplicemente fare propaganda da osteria.

                Poi ce l’ha con MasterChef, i “cuochi cocainomani del Nord”, i dipendenti con le “devianze sessuali”. E con chi? Con chi osa presentarsi col “pantalone calato” o, peggio, «con i tacchi a sculettare in cucina». Come si distingue, secondo lui, un gay accettabile da uno “sbagliato”? Non lo dice, ma lo fa capire. La linea è sottile, quanto una padella sporca: «Se sei serio e lavori, sei dei nostri. Altrimenti, no».

                Quando si parla dei tatuaggi – Mussolini, svastica, Altare della Patria – si passa dal ridicolo al tragico. «Se vietano la falce e martello mi cancello la svastica», dice con candore. «Per me è solo una protesta». Non contro la storia o i crimini del nazismo, ma «contro i radical chic che parlano di poveri e poi vanno in Costa Azzurra». Applausi. Ironici.

                «Siamo schiavi dei dipendenti», si lamenta ancora. Una frase che detta da un datore di lavoro suona quanto meno surreale, se non offensiva. Ma l’uomo non fa una piega. Anzi, rilancia: «Nel mio albergo ho beccato anche un pedofilo. Ma non l’ho potuto licenziare. Giusta causa? Non esiste».

                Che lo chef abbia avuto esperienze negative con parte del suo personale non è in discussione. Che la sua risposta sia un mix di disprezzo sociale, semplificazioni ideologiche e pregiudizi sessisti, purtroppo neppure. Se i giovani cuochi fuggono da brigate tossiche, forse una riflessione servirebbe. Ma a Cappuccio non interessa. Troppo impegnato a contare i “like” tra nostalgici e reazionari.

                E, si spera, a cancellare le prenotazioni di chi, la roba cucinata da uno chef così, non vuole neppure annusarla da lontano.

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