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Sic transit gloria mundi

Conte sogna telefonate infinite a Putin, Grillo sogna teatri pieni: l’ex garante del M5S prepara uno show per sfottere Giuseppi (e salvare il portafogli)

Beppe Grillo, archiviato il ruolo di garante del M5S e con 300mila euro in meno in tasca, si prepara a tornare sul palco per un tour teatrale che promette di sfottere Conte e le nostalgie geopolitiche del leader pentastellato. Dall’idea di “massacrare Putin di telefonate” alla realtà di una politica in frantumi, il nuovo show punterà su sarcasmo, vendetta e monologhi taglienti.

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    Beppe Grillo si rimette in gioco. No, non in politica – quella ormai gli paga poco e lo diverte ancora meno – ma sul palcoscenico, dove può tornare a fare quello che gli riesce meglio: sfottere chiunque si trovi a tiro, con particolare predilezione per Giuseppe Conte. Sì, proprio lui, l’ex premier diventato leader di quel Movimento 5 Stelle che Grillo aveva fondato con la pretesa di cambiare il mondo e che oggi gli sembra solo un triste simulacro di sé stesso. Così, mentre Giuseppi si immagina grande federatore delle forze progressiste, Grillo si chiude nella sua villa a Sant’Ilario per preparare un tour teatrale in cui sparare a zero sull’ex pupillo.

    La guerra personale tra i due va avanti ormai da mesi, con la delicatezza di due rinoceronti in una cristalleria. Grillo, estromesso dal ruolo di garante del Movimento e alleggerito di quei 300mila euro annui che gli spettavano come consulente, ha deciso di vendicarsi nel modo più spettacolare possibile: uno show teatrale che si preannuncia un lungo monologo contro il Mago di Oz – o Oz Onoda, l’ultimo samurai, a seconda dei giorni – e tutto ciò che rappresenta. Perché, se la politica non paga più, gli spettatori forse sì. E Grillo sa bene che, con Conte come bersaglio, il materiale non manca.

    Giuseppe Conte, dal canto suo, non se la passa meglio. Lo immagini seduto alla scrivania, con lo sguardo serio e un telefono in mano, mentre si chiede perché nessuno lo abbia chiamato per risolvere la guerra in Ucraina. “Se fossi stato io presidente del Consiglio – ha recentemente spiegato con tono solenne – avrei massacrato Putin di telefonate. L’avrei sfinito, gli avrei imposto condizioni onorevoli.” E, magari no, non stava scherzando. Nella testa di Conte questa fantapolitica dell’assurdo sembra avere un senso: rompere l’anima a un dittatore per convincerlo a ritirare per sfinimento le truppe con cui ha invaso un Paese vicino, tutto a colpi di squilli e monologhi. Altro che diplomazia. Chissà, forse immagina anche di ricevere il Nobel per la Pace con una motivazione tipo: “Per aver battuto il record di chiamate perse nella storia delle telecomunicazioni.”

    Mentre Conte sogna di essere il mediatore internazionale che risolve tutto con un telefono e una buona dose di insistenza, Grillo si gode lo spettacolo dalla sua villa. Lo immagini che se la ride a crepapelle leggendo i giornali e immaginando Putin rispondere: “Basta, basta Giuseppi! Ritiriamo le truppe, ma smettila di chiamare!” E poi: “Questo lo metto nello spettacolo, non può non far ridere.” Perché sì, nel suo nuovo tour, Conte sarà il protagonista assoluto di una serie infinita di battute e sketch che Grillo sta già preparando con i suoi autori. E poco importa se l’ex avvocato del popolo preferirebbe essere ricordato per la sua “visione geopolitica”. Sul palco di Grillo, sarà ricordato per la sua presunta capacità di logorare persino un dittatore con la potenza del telefono.

    Intanto, il leader del Movimento, tra un’intervista e l’altra, non perde occasione per prendersela con Grillo e la sua “campagna di livore e ingiurie”. E di smarcarsi dagli alleati del PD che più che alleati sembrerebbero i suoi nemici giurati. Lo fa con quella tipica aria di superiorità che nasconde a malapena il nervosismo e confessa: “Io non posso certo competere con Grillo in quanto a sarcasmo e battute.” Un’autodifesa che suona un po’ come un’arrampicata sugli specchi, mentre il comico genovese si prepara a trasformare quelle stesse offese in biglietti venduti.

    Nel frattempo, Grillo non si limita a raccogliere materiale contro Conte: vuole fare cassa e prendersi una rivincita. Dopo il flop del suo ultimo tour, “Io sono un altro”, che tra teatri semivuoti e battute stantie non aveva lasciato il segno, ora punta a un ritorno in grande stile. Sarà un tour tutto “politico”, fatto di monologhi taglienti contro Conte, la classe dirigente del Movimento 5 Stelle e, probabilmente, chiunque si metta sulla sua strada. Perché se c’è una cosa che Grillo ha capito è che, quando la politica ti chiude le porte, il teatro resta sempre un’opzione.

    Mentre Grillo prepara lo show, Conte continua a inseguire il sogno di essere preso sul serio. Ma anche qui non gli va benissimo. Il Pd, che una volta lo definiva “un punto di riferimento fortissimo”, stufo dei suoi chiari di luna, lo considera ora poco più di un alleato scomodo. E il governo Meloni lo ignora con una certa nonchalance. Lui, però, non si arrende. Ogni intervista è un’occasione per parlare di come avrebbe potuto fare meglio, di come gli italiani vogliono la pace e di come lui, a Palazzo Chigi, avrebbe potuto salvare il mondo con una serie di telefonate strategiche. Peccato che, nella realtà, non sia rimasto molto a cui aggrapparsi.

    E così, mentre Grillo affila le sue battute e Conte mette a punto le sue nostalgie geopolitiche, il pubblico si prepara a scegliere da che parte stare. Meglio l’Elevato o il Mago di Oz? Forse nessuno dei due, perché in fondo, che si tratti di politica o di teatro, ciò che conta davvero è che lo spettacolo continui. Su questo, almeno, i due litiganti sembrano essere perfettamente d’accordo.

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      Sic transit gloria mundi

      Con Giannini e Baracoa capiamo perché il piccolo cinema italiano affonda: la crisi nasce soprattutto dall’invisibilità dei suoi titoli più belli.

      Dopo aver visto un’opera intensa come Baracoa, con uno straordinario Giancarlo Giannini, diventa chiaro quanto il sistema continui a privilegiare sempre gli stessi nomi mentre i film più autentici restano confinati in rassegne e passaggi marginali. E mentre gioielli come In Vino Veritas faticano a trovare una sala, il pubblico si allontana, non per disamore ma per mancanza di ciò che l’Italia sa ancora raccontare.

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        Ieri sera ho avuto l’occasione di vedere in anteprima un film italiano davvero bello. Di quelli che ti lasciano gli occhi e il cuore pieni di immagini che ti restano addosso come profumo buono, non riuscivo a pensare ad altro: la crisi del nostro cinema non è una questione di talento mancante, ma di spazi mancati. In sala arrivano sempre gli stessi, i soliti noti, quelli che garantiscono un minimo di visibilità anche quando non portano grandi film. E intanto le opere più sorprendenti, più intime, più originali, restano intrappolate nei festival, nelle rassegne, nei desideri degli autori.

        Lo vediamo tutti: siamo qui a magnificare il Dracula di Luc Besson campione al botteghino, ma lasciatemelo dire, sfigura di fronte al vampiro di Coppola nel Dracula di Bram Stoker. E mentre applaudiamo i soliti blockbuster, nel nostro cinema di casa accadono piccole meraviglie che rischiano di non arrivare mai a destinazione. Prendete In Vino Veritas, carinissimo, con uno straordinario Joe Pantoliano: un attore cult amato da mezzo mondo, volto dei Soprano, di Matrix, di Memento. Un film che meriterebbe un suo spazio naturale, e invece appare e scompare come un frammento di un sogno visto di sfuggita.

        E poi c’è Baracoa. Lasciatemelo dire: un film bellissimo. Uno di quelli che solo noi italiani, quando ci ricordiamo chi siamo, sappiamo fare. Con un Giancarlo Giannini strepitoso, capace di riempire lo schermo anche solo camminando. La sceneggiatura di Filippo Ascione e la regia di Luis Ernesto Doñas costruiscono un racconto che parla di identità, maschere, libertà, famiglia, relazioni. È un film che parla di persone, senza scuse e senza scorciatoie.

        C’è il Generale, interpretato da Giannini, in conflitto con il figlio Pepe (Carlos Luis González), uomo ombroso che vive sul confine dell’illecito, tra il disincanto e il naufragio. C’è un diario scritto in russo, c’è un’amicizia che nasce dalla cura: lo straordinario Yadier Fernández, nel ruolo del medico Jimmi, visita ogni giorno il Generale, lo ascolta, gli parla, si ritrova custode di segreti più grandi di lui. Lo lava. Gli fa compagnia. Gli fa persino tornare il sorriso.

        Alla morte del Generale, Jimmi promette di portare le sue ceneri a Baracoa, nella casa di famiglia, accanto a quelle della moglie. Parte con Pepe. Ne nasce un on the road dolente e luminoso, una storia di formazione ma anche di riparazione, di pacificazione con ciò che siamo e che, volenti o nolenti, può sempre tornare. È un film che racconta la riscoperta dei legami, vecchi e nuovi, perché — come dice una battuta memorabile — “le rivoluzioni non finiscono mai”.

        Certo, non è un filmone di Hollywood o un episodio di qualche saga di supereroi ipervitaminizzati, ma spero con tutto me stesso che trovi spazio, che venga distribuita, che qualcuno si prenda la responsabilità di farlo arrivare al pubblico. Come accadde a Moccia, che trovò fama nelle fotocopie che i ragazzi si scambiavano a scuola. Ma Baracoa non è Moccia. Ha un pizzico di Almodóvar, un po’ Özpetek, un tanto se stesso. Un gran bel film, insomma.

        E allora mi viene naturale guardare i numeri: solo nel 2024, la Rai ha trasmesso 4.500 film — 1.800 italiani, 1.700 americani, 500 francesi, 150 inglesi, 100 tedeschi. Una mappa immensa. E dentro questa mappa, i nostri piccoli grandi film non trovano più spazio né in sala né in tv. Non trovano casa, non trovano pubblico, non trovano il tempo di esistere davvero.

        Poi ci stupiamo che la gente non vada più al cinema. E invece la risposta è lì, semplice e testarda: il pubblico c’è. Manca ciò che dovremmo offrirgli. Manca la possibilità di vedere le storie che sappiamo ancora raccontare. Buone, vere, nostre.

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          Rita De Crescenzo a Belve: quando il Servizio Pubblico smette di fare cultura e inizia a esaltare il degrado

          Rita De Crescenzo, simbolo di un successo costruito su eccessi e provocazioni, arriva a Belve come ospite del Servizio Pubblico. Una scelta che fa discutere: la Rai trasforma una figura priva di meriti artistici in personaggio televisivo nazionale, sollevando interrogativi sul ruolo stesso della TV pubblica.

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            La notizia dell’intervista di Rita De Crescenzo a Belve ha sollevato un’ondata di polemiche. La tiktoker napoletana, diventata celebre per i suoi video tra musica neomelodica, balli e dirette sopra le righe, sarà tra gli ospiti di Francesca Fagnani nel programma cult di Rai2. Un format che negli anni ha accolto figure di primo piano della politica, dello spettacolo e della cultura, trasformandosi in una sorta di consacrazione mediatica.

            Eppure, questa volta, l’effetto è stato diametralmente opposto: la partecipazione della De Crescenzo è apparsa a molti come un segnale di resa del Servizio Pubblico davanti al degrado dei social. Nessun compenso, dicono fonti interne alla Rai, ma un ritorno d’immagine enorme per la tiktoker, che potrà vantare una ribalta nazionale senza aver speso un euro.

            Il problema non è economico, ma simbolico. Rita De Crescenzo non è un’artista, non è un’attivista, non è una voce culturale o politica: è il prodotto di un certo tipo di popolarità online fatta di eccessi, linguaggio volgare e spettacolarizzazione del quotidiano. Portarla nel salotto televisivo di Francesca Fagnani significa certificare, con il timbro del Servizio Pubblico, un modello che molti considerano pericolosamente regressivo.

            Chi difende la scelta parla di un ritratto “antropologico”, di un fenomeno sociale da osservare più che da celebrare. Ma il rischio, come sempre accade con la televisione, è che la semplice presenza basti a trasformare un caso mediatico in legittimazione culturale.

            Perché la Rai, che per statuto dovrebbe garantire qualità, informazione e crescita culturale, sceglie di offrire spazio a chi incarna tutt’altro? Forse per inseguire ascolti, o per inseguire i social che ormai dettano legge anche in TV. Ma così facendo, il confine tra analisi e spettacolo, tra racconto e compiacimento, si fa sempre più sottile.

            Rita De Crescenzo non è il problema: è il sintomo. Il sintomo di una televisione che ha smesso di selezionare e ha iniziato ad assecondare, di un Servizio Pubblico che invece di educare riflette — e amplifica — il rumore di fondo di un Paese in cerca di attenzione più che di contenuti.

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              Addio a Ace Frehley, lo “Spaceman” dei Kiss: il mio supereroe con la chitarra che sapeva volare

              Con il suo trucco da “Spaceman”, le chitarre che fumavano e i razzi che partivano dal manico, Ace ha trasformato il rock in spettacolo e magia. Lascia un’eredità di suoni, coraggio e umanità: quella di un uomo che ha saputo salvarsi e far sognare milioni di ragazzi.

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                Ci sono artisti che non si limitano a suonare: accendono un immaginario. Ace Frehley era uno di questi. Per chi è cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta, lui non era solo il chitarrista dei Kiss, ma un supereroe in carne e ossa, uno di quelli che scendevano dal palco avvolti nel fumo, con la chitarra che sputava fuoco e gli occhi pieni di stelle. Lo chiamavano The Spaceman, l’uomo venuto dallo spazio, ma in realtà veniva dal Bronx, con una Gibson in mano e un sorriso timido dietro il trucco argentato.

                Ace se n’è andato, a 74 anni – il giorno del mio compleanno e non è stato davvero un ben regalo – dopo un’emorragia cerebrale che lo aveva colpito nei giorni scorsi. E con lui se ne va un pezzo di infanzia, di ribellione, di sogno. Perché chi ha amato i Kiss – quelli veri, quelli del 1975 di Rock and Roll All Nite e del trucco come armatura – sa che il suono di Ace era la scintilla che faceva partire l’esplosione. Ogni assolo sembrava un decollo, ogni nota un razzo che bucava il buio.

                Nel pantheon del rock, Frehley era l’anima più ironica, più fragile, più umana del gruppo. Gene Simmons e Paul Stanley erano i generali, lui era l’astronauta. Il suo “Space Ace” nasceva come il personaggio di un fumetto, ma divenne presto una leggenda viva, capace di unire il virtuosismo alla teatralità, la tecnica alla fantasia. Le sue chitarre fumavano, letteralmente. Le sue dita correvano leggere e incendiate, e noi ragazzi lo guardavamo come si guarda un eroe di un film che non finisce mai.

                Nel 1982 lasciò la band, quando i Kiss decisero di togliere il trucco e affrontare il mondo a viso scoperto. Ace non ci riuscì. Aveva bisogno del suo personaggio, di quella maschera che non nascondeva, ma liberava. Continuò da solo, con i Frehley’s Comet, alternando tour, eccessi, cadute e rinascite. Negli anni Novanta tornò per una reunion trionfale: la vecchia banda di nuovo insieme, quattro maschere, quattro archetipi, un suono che sembrava ancora nuovo.

                Nel 2014 entrò nella Rock and Roll Hall of Fame, dove i Kiss furono premiati come una delle band più influenti della storia. Era felice, e commosso. Nelle ultime interviste aveva detto di voler essere ricordato “come un uomo schietto, fedele alla propria musica, rispettato dai colleghi”. Lo era. Aggiungeva: “Ho portato felicità a molte persone, e tanti ragazzi mi dicono di essere riusciti a disintossicarsi grazie a me. Se ce l’ho fatta io, possono farcela anche loro”. Era questo il suo vero superpotere: non la chitarra che lanciava razzi, ma il coraggio di dire che la fragilità non è una vergogna.

                Paul Stanley lo ricordava così: «Nel 1974 lo sentii suonare in una stanza d’albergo. Pensai: vorrei che quel ragazzo fosse nella mia band. Era Ace». Gene Simmons ha scritto: «I nostri cuori sono spezzati. Nessuno potrà mai eguagliare la sua eredità. Amava i suoi fan, e ci mancherà per sempre». Peter Criss, il batterista con cui aveva condiviso la nascita della leggenda, ha aggiunto: «Era mio fratello. È morto serenamente, circondato da chi lo amava. La sua eredità vivrà nei cuori di milioni di persone».

                Ace era uno di quei pochi che riuscivano a restare bambini anche sul palco. Quando lo vedevi sorridere sotto la maschera d’argento, capivi che dietro al rock c’era un’anima buona. Uno che non cercava di essere un dio, ma un amico. Forse per questo lo abbiamo amato così tanto. Perché in quel trucco c’era il sogno di ognuno di noi: salire su un palco e non avere più paura.

                Oggi che la notizia corre tra social e redazioni, chi lo ha ascoltato da ragazzo sente un vuoto diverso, personale. È la fine di un’epoca, quella in cui il rock aveva ancora la forza di sembrare eterno. Ace Frehley era il suono della libertà, il fumo che saliva da una chitarra in fiamme, il sorriso dietro la maschera di uno Spaceman che non voleva tornare sulla Terra.

                E mentre la sua musica continua a girare nei vinili graffiati delle nostre camerette, viene naturale pensare che sì, forse aveva ragione lui: la sua eredità durerà centinaia d’anni. Perché chi ti insegna a sognare non muore mai davvero.

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