Sic transit gloria mundi
Genny Delon, il Don Giovanni del governo: tra amanti segrete e ricatti da telenovela
Non si tratterebbe solo di una relazione extra-coniugale: sarebbero almeno tre le donne coinvolte, tra cui figure dello spettacolo, mentre spuntano foto compromettenti che potrebbero nascondere molto più di una semplice liaison. Intanto, la figura dell’ex ministro vacilla tra minacce di ricatto, missioni diplomatiche segrete e un matrimonio sull’orlo del collasso. Mentre si cerca di soffocare lo scandalo, la verità rischia di esplodere, portando con sé l’immagine distrutta dell’intero governo Meloni.
Sembra che il nostro caro ministro Gennaro Sangiuliano abbia una vita sentimentale degna di un feuilleton ottocentesco, ma con un tocco di commedia all’italiana. E sì, signori, nonostante la figura non propriamente da attore di Hollywood, la calvizie incipiente (di cui anche io so qualcosa) e la tartaruga alla rovescia (e anche qui ce la giochiamo) pare che il nostro genny Delon facesse strage di cuori.
Le donne coinvolte – quelle che Maria Rosaria Boccia ha citato nell’intervista a La7 – sarebbero ben tre, oltre alla nostra Mata Hari di Pompei. E due di queste misteriose figure sarebbero addirittura donne dello spettacolo. Insomma, il nostro Genny Delon non si sarebbe fatto mancare nulla sfarfallando dal Ministero tra presentazioni, prime e inaugurazioni come un farfallone felice.
Ma c’è di più: sembrerebbe che in giro ci siano foto molto, ma molto compromettenti. Che almeno per ora giacerebbero nei cassetti ben chiusi di qualche direttore. Per chi come me ha bazzicato a lungo nell’ambiente delle agenzie fotografiche, questo modus operandi non è certo una novità: il vezzo di ritirare servizi fotografici compromettenti pagandoli a peso d’oro per poi lasciarli marcire nei cassetti.
Ai tempi di Berlusconi, se ti capitava di fotografare lui o qualcuno della sua cerchia o della sua famiglia, sapevi già dove dovevi portare le foto il mattino dopo. Se ritenute sconvenienti o “pericolose” il direttore di turno le avrebbe acquistate, ma non per pubblicarle: finivano nel dimenticatoio dorato degli archivi segreti. E se fotografavi gli Agnelli? Via, dritto al giornale rivale per strappare il prezzo migliore. Un classico…
E qui entra in gioco Alex Fiumara, uno dei più noti paparazzi milanesi, che ci svela l’ennesimo capitolo di questa farsa. Secondo Fiumara, esistono altre fotografie del nostro caro Sangiuliano in compagnia della Boccia, scatti ben più compromettenti di quelli già venduti al settimanale Gente. Fiumara racconta di aver saputo dell’esistenza di queste foto da una fonte interna a un settimanale, che non solo le ha viste, ma ha anche deciso di non pubblicarle. Ma perché? Cosa c’è di così pericoloso in quelle immagini?
Le foto, racconta Fiumara, sarebbero state scattate in Campania e ce ne sarebbe una che ritrae i due mentre escono dal portone di uno studio medico. Ora, non so voi, ma questa storia di foto compromettenti tenute nascoste, di servizi commissionati e poi ritirati, puzza tanto di vecchie tattiche da gossip politico. Il fatto è che qui non si parla solo di materiale da soap turca: queste immagini riguardano l’ex ministro, e potrebbero essere l’ultimo chiodo sulla bara della sua carriera politica. Ma potrebbero danneggiare e non poco, anche l’immagine di un governo che sembra ogni giorno di più uscito da una sceneggiatura di Beautiful.
Anche perché le anticipazioni gustose non mancano. Come quella che racconta di quando il nostro Genny Delon se ne andava in missione ufficiale in Egitto, un viaggio che avrebbe dovuto rafforzare i rapporti culturali tra Roma e Il Cairo. Ma che, a quanto pare, si è trasformato a sua volta in telenovela: la moglie del ministro, Federica Corsini, che di solito non si degnava di seguirlo nelle sue avventure istituzionali, decide improvvisamente di accompagnarlo. Il povero Gennarino, che fino a quel momento aveva raccontato alla sua “assistente” Boccia che il suo matrimonio era ormai un ricordo sbiadito promettendole fuoco e fiamme sotto le piramidi, si ritrova a dover gestire un triangolo amoroso degno di una soap opera.
E qui, raccontano i soliti ben informati, la furia della Boccia sarebbe superato i limiti. Già furiosa per i presunti rapporti di Sangiuliano con altre donne, Nostra Signora di Pompei avrebbe raggiunto un livello di irritazione tale da far sembrare l’eruzione del Vesuvio un fuocherello da barbecue.
Per aggiungere un tocco di mistero, in contemporanea con il viaggio, ecco apparire sul crapone cortocrinito del nostro eroe una ferita sospetta. Lui, ovviamente, si è giustificato parlando di un “incidente domestico”, ma, personalmente, non posso fare a meno di chiedermi se non sia il risultato di una scenata violenta della gelosissima esperta pompeiana. Con il ministro che al posto di una vacanza da sogno all’ombra della Sfinge, si ritrova in un vero e proprio incubo, con il rischio di vedere la sua carriera politica andare in fumo, insieme alla sua vita privata.
Ma la domanda che resta è: cosa c’è in quelle foto che non sono state pubblicate? Perché un direttore “amico” ha deciso di ritirarle? Qual è il prezzo pagato da Genny per quel “favore” (perché tutto, poi, ha un prezzo). E cosa potrebbe succedere se venissero alla luce? Una cosa è certa: la commedia all’italiana è viva e vegeta, e ne vedremo ancora delle belle.
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Sic transit gloria mundi
Signorini contro Corona, Corona contro Signorini: la resa dei conti tra ex complici di uno star system che finge di scandalizzarsi
Lo scontro tra Alfonso Signorini e Fabrizio Corona non è uno scandalo morale, ma un regolamento di conti tra due figure cresciute nello stesso sistema televisivo. Un meccanismo noto da decenni, che trasforma il potere in intrattenimento, gli abusi in gossip e l’indignazione in spettacolo, mentre il vero problema resta intatto.
Chiariamo subito un punto, senza ipocrisie né prudenza lessicale: Alfonso Signorini non è il problema. È il sintomo. È la faccia pettinata, rassicurante, televisivamente educata di un meccanismo che da anni scambia il vuoto per spettacolo e il potere per talento. Se oggi è sotto accusa, non è perché abbia inventato qualcosa, ma perché ha incarnato alla perfezione ciò che questo sistema richiede: obbedienza alle dinamiche, cinismo mascherato da ironia, gestione del desiderio altrui come merce di scambio.
E poi c’è Fabrizio Corona. Che improvvisamente scopre di essere il depositario della verità. L’uomo che oggi si atteggia a giustiziere morale è lo stesso che per anni ha campato, prosperato e si è arricchito esattamente grazie a quel mondo che ora finge di voler smascherare. Non è un pentito. È un escluso. E la differenza è enorme.
Il punto non è che Corona parli. Il punto è che reciti la parte di chi “non sapeva”, quando invece sapeva benissimo. Anzi, partecipava. Frequentava. Usava. Guadagnava. Oggi si presenta come se fosse appena entrato in scena, come se non avesse passato una vita a giocare allo stesso tavolo di Signorini, con le stesse regole non scritte, gli stessi silenzi, le stesse ambiguità.
Questo non è uno scandalo. È una resa dei conti. È una guerra tra ex alleati che si conoscono troppo bene. Gente che ha condiviso favori, coperture, opportunità e ipocrisie, e che ora si accoltella a colpi di podcast, interviste e minacce legali. La parola “sistema” viene agitata come una clava, ma non è una scoperta: è la casa in cui hanno abitato entrambi per anni.
La televisione, intanto, osserva compiaciuta. Perché mentre Signorini viene dipinto come il volto del male e Corona come il profeta tardivo, il meccanismo resta intatto. Funziona. Produce ascolti, clip, meme, schieramenti da stadio. Trasforma accuse gravissime in intrattenimento e le lotte di potere in format. E il pubblico fa esattamente ciò che gli viene richiesto: si divide, si indigna, difende il proprio idolo, urla “vergogna” senza mai spostare lo sguardo dal tendone.
Nel frattempo, questioni enormi vengono schiacciate sotto il peso del circo. Perché al di là di Signorini e Corona, entrambi milionari e perfettamente integrati nel sistema che fingono di combattersi, esiste un tema molto più scomodo: gli abusi di potere all’interno dello star system, soprattutto quando il potere passa dal desiderio, dalla promessa, dalla possibilità di “farcela”. Un tema che altrove ha prodotto movimenti come il #MeToo, e che qui viene ridotto a gossip, meme e tifo organizzato.
Quando Corona pronuncia frasi come «se non andavi a letto con lui, non andavi in televisione», non sta rivelando un segreto arcano. Sta dicendo qualcosa che scrittori, giornalisti e autori raccontano da almeno sessant’anni. Da Truman Capote a Bret Easton Ellis, passando per Aldo Busi e il suo brutale ma onesto “obolo del sofà”. Davvero qualcuno crede che lo star system funzioni per merito puro? Davvero esistono ancora gli ingenui divorati da dinamiche che “non conoscevano”?
La verità è più scomoda: questo sistema è marcio, sì, ma è noto. È accettato. È frequentato. E spesso, finché conviene, è persino difeso da chi oggi grida allo scandalo. Non esistono solo carnefici e vittime immacolate. Esistono zone grigie, compromessi, scelte consapevoli. E raccontarla diversamente serve solo a salvare le coscienze, non a cambiare le cose.
Alla fine, non esplode nessuna verità. Non cade nessun impero. Cambiano i ruoli: chi era dentro ora accusa, chi era al comando ora si difende. Ma il tendone resta in piedi. E chi urla più forte non è il più puro: è semplicemente quello che non ha più nulla da perdere.
Il resto è rumore. E la televisione, come sempre, ringrazia.
Sic transit gloria mundi
Con Giannini e Baracoa capiamo perché il piccolo cinema italiano affonda: la crisi nasce soprattutto dall’invisibilità dei suoi titoli più belli.
Dopo aver visto un’opera intensa come Baracoa, con uno straordinario Giancarlo Giannini, diventa chiaro quanto il sistema continui a privilegiare sempre gli stessi nomi mentre i film più autentici restano confinati in rassegne e passaggi marginali. E mentre gioielli come In Vino Veritas faticano a trovare una sala, il pubblico si allontana, non per disamore ma per mancanza di ciò che l’Italia sa ancora raccontare.
Ieri sera ho avuto l’occasione di vedere in anteprima un film italiano davvero bello. Di quelli che ti lasciano gli occhi e il cuore pieni di immagini che ti restano addosso come profumo buono, non riuscivo a pensare ad altro: la crisi del nostro cinema non è una questione di talento mancante, ma di spazi mancati. In sala arrivano sempre gli stessi, i soliti noti, quelli che garantiscono un minimo di visibilità anche quando non portano grandi film. E intanto le opere più sorprendenti, più intime, più originali, restano intrappolate nei festival, nelle rassegne, nei desideri degli autori.

Lo vediamo tutti: siamo qui a magnificare il Dracula di Luc Besson campione al botteghino, ma lasciatemelo dire, sfigura di fronte al vampiro di Coppola nel Dracula di Bram Stoker. E mentre applaudiamo i soliti blockbuster, nel nostro cinema di casa accadono piccole meraviglie che rischiano di non arrivare mai a destinazione. Prendete In Vino Veritas, carinissimo, con uno straordinario Joe Pantoliano: un attore cult amato da mezzo mondo, volto dei Soprano, di Matrix, di Memento. Un film che meriterebbe un suo spazio naturale, e invece appare e scompare come un frammento di un sogno visto di sfuggita.
E poi c’è Baracoa. Lasciatemelo dire: un film bellissimo. Uno di quelli che solo noi italiani, quando ci ricordiamo chi siamo, sappiamo fare. Con un Giancarlo Giannini strepitoso, capace di riempire lo schermo anche solo camminando. La sceneggiatura di Filippo Ascione e la regia di Luis Ernesto Doñas costruiscono un racconto che parla di identità, maschere, libertà, famiglia, relazioni. È un film che parla di persone, senza scuse e senza scorciatoie.
C’è il Generale, interpretato da Giannini, in conflitto con il figlio Pepe (Carlos Luis González), uomo ombroso che vive sul confine dell’illecito, tra il disincanto e il naufragio. C’è un diario scritto in russo, c’è un’amicizia che nasce dalla cura: lo straordinario Yadier Fernández, nel ruolo del medico Jimmi, visita ogni giorno il Generale, lo ascolta, gli parla, si ritrova custode di segreti più grandi di lui. Lo lava. Gli fa compagnia. Gli fa persino tornare il sorriso.
Alla morte del Generale, Jimmi promette di portare le sue ceneri a Baracoa, nella casa di famiglia, accanto a quelle della moglie. Parte con Pepe. Ne nasce un on the road dolente e luminoso, una storia di formazione ma anche di riparazione, di pacificazione con ciò che siamo e che, volenti o nolenti, può sempre tornare. È un film che racconta la riscoperta dei legami, vecchi e nuovi, perché — come dice una battuta memorabile — “le rivoluzioni non finiscono mai”.
Certo, non è un filmone di Hollywood o un episodio di qualche saga di supereroi ipervitaminizzati, ma spero con tutto me stesso che trovi spazio, che venga distribuita, che qualcuno si prenda la responsabilità di farlo arrivare al pubblico. Come accadde a Moccia, che trovò fama nelle fotocopie che i ragazzi si scambiavano a scuola. Ma Baracoa non è Moccia. Ha un pizzico di Almodóvar, un po’ Özpetek, un tanto se stesso. Un gran bel film, insomma.
E allora mi viene naturale guardare i numeri: solo nel 2024, la Rai ha trasmesso 4.500 film — 1.800 italiani, 1.700 americani, 500 francesi, 150 inglesi, 100 tedeschi. Una mappa immensa. E dentro questa mappa, i nostri piccoli grandi film non trovano più spazio né in sala né in tv. Non trovano casa, non trovano pubblico, non trovano il tempo di esistere davvero.
Poi ci stupiamo che la gente non vada più al cinema. E invece la risposta è lì, semplice e testarda: il pubblico c’è. Manca ciò che dovremmo offrirgli. Manca la possibilità di vedere le storie che sappiamo ancora raccontare. Buone, vere, nostre.
Sic transit gloria mundi
Rita De Crescenzo a Belve: quando il Servizio Pubblico smette di fare cultura e inizia a esaltare il degrado
Rita De Crescenzo, simbolo di un successo costruito su eccessi e provocazioni, arriva a Belve come ospite del Servizio Pubblico. Una scelta che fa discutere: la Rai trasforma una figura priva di meriti artistici in personaggio televisivo nazionale, sollevando interrogativi sul ruolo stesso della TV pubblica.
La notizia dell’intervista di Rita De Crescenzo a Belve ha sollevato un’ondata di polemiche. La tiktoker napoletana, diventata celebre per i suoi video tra musica neomelodica, balli e dirette sopra le righe, sarà tra gli ospiti di Francesca Fagnani nel programma cult di Rai2. Un format che negli anni ha accolto figure di primo piano della politica, dello spettacolo e della cultura, trasformandosi in una sorta di consacrazione mediatica.
Eppure, questa volta, l’effetto è stato diametralmente opposto: la partecipazione della De Crescenzo è apparsa a molti come un segnale di resa del Servizio Pubblico davanti al degrado dei social. Nessun compenso, dicono fonti interne alla Rai, ma un ritorno d’immagine enorme per la tiktoker, che potrà vantare una ribalta nazionale senza aver speso un euro.
Il problema non è economico, ma simbolico. Rita De Crescenzo non è un’artista, non è un’attivista, non è una voce culturale o politica: è il prodotto di un certo tipo di popolarità online fatta di eccessi, linguaggio volgare e spettacolarizzazione del quotidiano. Portarla nel salotto televisivo di Francesca Fagnani significa certificare, con il timbro del Servizio Pubblico, un modello che molti considerano pericolosamente regressivo.
Chi difende la scelta parla di un ritratto “antropologico”, di un fenomeno sociale da osservare più che da celebrare. Ma il rischio, come sempre accade con la televisione, è che la semplice presenza basti a trasformare un caso mediatico in legittimazione culturale.
Perché la Rai, che per statuto dovrebbe garantire qualità, informazione e crescita culturale, sceglie di offrire spazio a chi incarna tutt’altro? Forse per inseguire ascolti, o per inseguire i social che ormai dettano legge anche in TV. Ma così facendo, il confine tra analisi e spettacolo, tra racconto e compiacimento, si fa sempre più sottile.
Rita De Crescenzo non è il problema: è il sintomo. Il sintomo di una televisione che ha smesso di selezionare e ha iniziato ad assecondare, di un Servizio Pubblico che invece di educare riflette — e amplifica — il rumore di fondo di un Paese in cerca di attenzione più che di contenuti.
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