Sic transit gloria mundi
La campagna elettorale di Trump si tinge di gossip: tra attentati e fake news, spunta un’ombra nera…
Tra attentati, teorie cospirative e fake news che fanno rabbrividire anche i più cinici, la campagna elettorale americana trova il suo nuovo ingrediente: il gossip. E questa volta il protagonista è proprio Donald Trump, beccato dai tabloid in compagnia della controversa Laura Loomer. La domanda è: cosa ne pensa Melania?

La campagna elettorale americana di quest’anno sembra uscita direttamente da un film di cappa e spada, ma con un tocco di reality show. Abbiamo tutto: complotti, attentati, fake news che spuntano come funghi e, ovviamente, sparate acchiappalike. Mancava solo una cosa per rendere questo spettacolo completo: un po’ di sano gossip. Ma niente paura, ci ha pensato Donald Trump a colmare il vuoto.
Trump e Laura Loomer: una coppia da incubo?
Ebbene sì, proprio lui. Secondo i tabloid d’Oltreoceano, il buon vecchio Donald avrebbe qualcosa di più di un’amicizia con Laura Loomer, l’influencer complottista e passionista di estrema destra che non lo lascia un secondo. Insomma, una vera e propria ombra nera. Se si potesse riassumere la storia in un titolo di film, potrebbe essere “Il tycoon e la cospirazionista”. Ma mentre il figlio Donald Jr si concede cene romantiche con ricche ereditiere della Florida, papà Trump sembra preferire compagnie decisamente più inquietanti.
Melania, dove sei?
Ora, diciamoci la verità: di Melania non si vede traccia da un po’. Sarà un caso? Intanto, Loomer diventa sempre più presente nella vita pubblica di Trump. La segue ovunque, dall’aereo per Philadelphia al confronto tv con Kamala Harris, fino alla cerimonia in ricordo dell’11 settembre. E come ciliegina sulla torta, ci sono anche le foto in cui Trump la cinge per la vita a Mar-a-Lago, con un’aria che ha fatto alzare più di un sopracciglio.
La regina delle bufale: da Springfield alla Casa Bianca
Ma chi è questa Loomer? Per chi non la conoscesse, è l’influencer che riesce a combinare una teoria cospirativa al giorno (se non di più). È la stessa che ha diffuso la storia degli haitiani che rapiscono cani e gatti a Springfield, Ohio, per mangiarseli. Una bufala così grossa che Trump non ha potuto fare a meno di rilanciarla durante il dibattito con Kamala Harris, suscitando ilarità e sconcerto in egual misura.
Quando il gossip supera la politica
Se pensavate che le battaglie elettorali fossero fatte solo di programmi politici e comizi, è il momento di aggiornare il vostro vocabolario. Oggi la politica si fa anche con i meme, i complotti e, ovviamente, con un po’ di pepe gossipparo. Trump, scegliendo di circondarsi di personaggi come Loomer, sembra aver trovato la formula perfetta per mantenere alta l’attenzione, anche se questo significa alienarsi il consenso degli elettori più moderati.
Lo scontro tra i repubblicani: non tutti apprezzano Loomer
Ma non tutti nel partito repubblicano apprezzano la presenza ingombrante di Loomer. L’influencer è stata criticata perfino da Marjorie Taylor Greene, una che di solito non si fa certo problemi a lanciare attacchi controversi. Ma quando Loomer ha insinuato che la Casa Bianca, sotto Kamala Harris, “puzzerebbe di curry”, anche Greene ha dovuto prendere le distanze. Insomma, Loomer è riuscita nell’impresa di spaccare persino il fronte più agguerrito del trumpismo.
E ora?
Il bello deve ancora venire. Con Trump sempre più legato a Loomer e la campagna elettorale che si fa sempre più bizzarra, non ci resta che aspettare il prossimo colpo di scena. Perché in questa corsa alla Casa Bianca, sembra proprio che tutto possa succedere. Ma una cosa è certa: il gossip ha fatto il suo ingresso trionfale, e non sembra intenzionato a lasciarci.
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Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”
Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.
Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.
Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.
Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.
Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.
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Il Senato salva Sangiuliano dal processo per la “chiave di Pompei”: 112 voti bastano a fermare l’accusa di peculato
Il caso ruotava attorno al simbolico omaggio di Pompei finito in un regalo privato. La Giunta per le immunità ha riconosciuto l’atto come compiuto nell’interesse pubblico e non come reato ordinario. I legali dell’ex ministro ricordano che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che la chiave era stata acquistata e pagata, diventando sua proprietà.

Palazzo Madama ha fatto scudo all’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, bloccando il processo per peculato che rischiava di aprirsi attorno alla “chiave d’onore” di Pompei. Con 112 voti favorevoli e 57 contrari, l’aula del Senato ha respinto l’autorizzazione a procedere, accogliendo la linea della Giunta per le immunità: il gesto di donare la chiave a Maria Rosaria Boccia non costituirebbe reato ordinario, ma un atto riconducibile all’esercizio della funzione di governo e al perseguimento di un interesse pubblico preminente.
La vicenda aveva incuriosito l’opinione pubblica nei mesi scorsi, trasformandosi in un caso mediatico: la chiave, simbolo del legame con la città archeologica, era stata regalata dall’ex ministro a una conoscente, scatenando polemiche e sospetti di appropriazione indebita. I difensori di Sangiuliano hanno sempre sostenuto la piena legittimità dell’operazione, ricordando che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che, tramite la procedura prevista dalla legge, l’ex ministro aveva acquistato e pagato l’oggetto, diventandone il proprietario a tutti gli effetti.
Il voto in aula è arrivato dopo una giornata di interventi accesi, tra ironie e schermaglie politiche. Il leghista Gian Marco Centinaio ha scherzato in diretta: «Lasciamo i colleghi nella suspense… Sim Salabim!», strappando un sorriso in un dibattito altrimenti teso.
Non solo Sangiuliano: nella stessa seduta, Palazzo Madama ha affrontato altre questioni di immunità parlamentare. Maurizio Gasparri ha incassato il via libera dell’aula sulla sua insindacabilità per le frasi rivolte al magistrato Luca Tescaroli nel 2023, giudicate collegate ad atti parlamentari come interrogazioni e interventi in aula. A favore hanno votato 117 senatori, mentre 23 – tra M5s e Avs – hanno detto no.
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“Comunisti no, gay solo se non sculettano”. Il delirio dello chef stellato in cerca di personale
Dalla nostalgia per la cucina “da caserma” agli insulti ai giovani cuochi, passando per i tatuaggi di Mussolini e la svastica: lo chef stellato Paolo Cappuccio racconta il suo personale concetto di rigore. Un concentrato di luoghi comuni, rancore sociale e arroganza padronale condito da accuse pesanti e zero autocritica.

C’è chi usa i social per condividere piatti e ricette. E poi c’è Paolo Cappuccio, chef napoletano classe 1977, che ha preferito farlo per pubblicare un post a metà tra la bacheca fascistoide e lo sfogo da bar sport. Il testo – rimosso dopo insulti e minacce di morte – vietava l’assunzione di «fancazzisti, comunisti, drogati, ubriachi e per orientamento sessuale». E ora lo chef stellato, lungi dal fare marcia indietro, rivendica ogni parola.
«Da dopo il Covid i dipendenti fanno quello che vogliono», attacca. «Un cuoco arriva in ritardo e ti dice che se non ti va bene se ne va. Lo riprendi? Si mette in malattia. E il medico lo giustifica pure». Il quadro che dipinge è quello di un’Italia dove gli chef sono martiri e gli stagisti dei ricattatori seriali. Ma per Cappuccio la colpa non è solo dei giovani. È dei “comunisti”.
«Il dipendente comunista lo riconosci subito», assicura con inquietante certezza. «Si lamenta della mensa, vuole sapere la tredicesima prima ancora di iniziare. Quelli di destra invece sono operosi e vogliono diventare titolari. La differenza è abissale». E pazienza se nel 2025 parlare così significa semplicemente fare propaganda da osteria.
Poi ce l’ha con MasterChef, i “cuochi cocainomani del Nord”, i dipendenti con le “devianze sessuali”. E con chi? Con chi osa presentarsi col “pantalone calato” o, peggio, «con i tacchi a sculettare in cucina». Come si distingue, secondo lui, un gay accettabile da uno “sbagliato”? Non lo dice, ma lo fa capire. La linea è sottile, quanto una padella sporca: «Se sei serio e lavori, sei dei nostri. Altrimenti, no».
Quando si parla dei tatuaggi – Mussolini, svastica, Altare della Patria – si passa dal ridicolo al tragico. «Se vietano la falce e martello mi cancello la svastica», dice con candore. «Per me è solo una protesta». Non contro la storia o i crimini del nazismo, ma «contro i radical chic che parlano di poveri e poi vanno in Costa Azzurra». Applausi. Ironici.
«Siamo schiavi dei dipendenti», si lamenta ancora. Una frase che detta da un datore di lavoro suona quanto meno surreale, se non offensiva. Ma l’uomo non fa una piega. Anzi, rilancia: «Nel mio albergo ho beccato anche un pedofilo. Ma non l’ho potuto licenziare. Giusta causa? Non esiste».
Che lo chef abbia avuto esperienze negative con parte del suo personale non è in discussione. Che la sua risposta sia un mix di disprezzo sociale, semplificazioni ideologiche e pregiudizi sessisti, purtroppo neppure. Se i giovani cuochi fuggono da brigate tossiche, forse una riflessione servirebbe. Ma a Cappuccio non interessa. Troppo impegnato a contare i “like” tra nostalgici e reazionari.
E, si spera, a cancellare le prenotazioni di chi, la roba cucinata da uno chef così, non vuole neppure annusarla da lontano.
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