Sic transit gloria mundi
Ora basta! La censura a uno scrittore è immorale
La censura a Scurati in Rai mi indigna e mi preoccupa. A che punti è arrivata l’Italia se a uno scrittore si toglie la parola. A quando i primi roghi in piazza per il libri proibiti?

Credo che chi mi conosce sa che in 35 anni di professione giornalistica e in vent’anni di direzioni anche prestigiose e importanti con La Nuova Epoca e Bella mai i sono schierato per una o per l’altra parte politica. Non è nel mio stile: sorrido quando su Facebook – in un post – un lettore accusa LaCityMag di essere di destra e in quello dopo un altro ci taccia di essere di sinistra.
Ma quando è troppo è troppo. Questa volta io sto con Scurati, sto con la Costituzione, con il 25 aprile e con tutto quello che questo ha voluto dire in termine di antifascismo e di libertà. Non credo che occorra essere necessariamente di sinistra per riconoscersi nella lotta di liberazione dall’Antifascismo.
Mio nonno c’era ed era dalla parte giusta e mio zio prete è uno dei Giusti d’Israele perché salvava le famiglie ebree in fuga dai campi. Io sono dalla parte di coloro che presero a calci nel fondoschiena fasciato d’orbace i fascisti e i nazisti e si ripresero l’Italia. Liberali, repubblicani, conservatori, cattolici, monarchici, comunisti, socialisti o semplicemente democratici senza altre etichette, che rischiarono la vita per dare libertà e dignità al nostro Paese.
Per permetterci di parlare liberamente. Non certo per vedere un oscuro funzionario RAI preso da un attacco censorio di clientelarismo preventivo che si permette di togliere la parola a uno scrittore del calibro di Scurati pur di dimostrare il suo zelo. E no… Ora basta. Quando si toglie la parola agli scrittori, quando si mette a tacere la cultura, quando si silenziano giornalisti a furia di inutili, stupide e partigiane accuse di diffamazioni e, come in questo caso, si cerca di cancellare e riscrivere la storia bisogna alzarsi in piedi e dire: “Io non ci sto!”.
Io non ci sto. Io sto con Scurati. Non perché mi piaccia come scrive, anzi… l’ho sempre considerato sopravvalutato da quel punto di vista. Ma perché, come dice una citazione attribuita a Voltaire, forse «non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo».
Tanto più che io con quello che voleva dire l’autore di “M. Il figlio del secolo” prima che la censura lecchina e inginocchiata di qualche inutile passacarte senza storia gli chiudesse la bocca, sono pure totalmente d’accordo.
E poi ti chiedi perché artisti famosi, presentatori, uomini di cultura voltano le spalle a quel cumulo di rovine chiamato RAI per approdare in altri e ben più liberi canali tv? Perché i soldi contano, ma la libertà è un benefit a cui non tutti sono pronti a rinunciare! W l’Italia, W Scurati, W il 25 aprile!
INSTAGRAM.COM/LACITYMAG
Sic transit gloria mundi
Da Sanremo al Circo Massimo, passando per Springsteen: il vero tour dell’estate è quello di Elly Schlein
La segretaria del Pd beccata a San Siro con la compagna Paola Belloni per il concerto di Springsteen. Applausi, selfie (mai pubblicati) e un messaggio chiaro: Elly è ovunque, tranne che dove dovrebbe esserci. E cioè, sul fronte dell’opposizione.

Mentre la destra impone l’agenda e il Paese affoga tra crisi economiche, follie trumpiane e guerra internazionali, Elly Schlein canta “Born to Run” sotto il palco di Bruce Springsteen, abbracciata alla sua compagna Paola Belloni. Una serata da “coppia dem rock” come la chiamano i fan, tra le star di Hollywood e i soliti influencer italiani. Solo che lei non è un’influencer. O non dovrebbe esserlo.
La segretaria del Pd è stata avvistata a San Siro mentre si godeva tre ore di rock e sudore con il “Boss”, circondata da Gigi Hadid, Bradley Cooper e Olivia Wilde. Con lei, la sua compagna storica, Paola Belloni, che a fine serata ha condiviso su Instagram un post pieno di entusiasmo: «Bruce ha cantato, ballato, urlato per tre ore. Steve, operato da quattro giorni, ha suonato con lui. Io, 36 anni, sto abbracciata al Voltaren perché ero sottopalco».
Ecco, forse è lì il problema: sottopalco. Sempre lì. Perché Schlein sembra vivere ormai perennemente in una tournée parallela. Dopo i duetti con Annalisa al Pride, il freestyle con J-Ax, il karaoke sanremese, le cover dei Cranberries alla Festa dell’Unità e i video da fangirl per Brunori, il suo Pd sembra più un fan club che un partito d’opposizione.
Che Schlein sia appassionata di musica è noto. Suona la chitarra, si diverte, ha gusti indie e mainstream. Ma c’è chi, tra i suoi stessi elettori, comincia a chiedersi se abbia ben chiaro che la politica non è una scaletta da concerto. La sua compagna chiede rispetto per la privacy — giustamente — ma Elly sotto i riflettori ci si piazza con entusiasmo. Tranne quelli del Parlamento.
Nel frattempo, Fratelli d’Italia avanza, Maloni governa, e l’opposizione viene affidata a una “story” su Instagram o a una pagella social post-Sanremo. I fan saranno anche felici. Gli elettori un po’ meno. Perché se la Schlein non capisce che la sua missione non è ballare coi Boss, ma suonarle alla destra, allora qualcuno dovrebbe suggerirle che forse è arrivato il momento di cambiare palco.
Sic transit gloria mundi
Non plus ultras: condannato l’ex bodyguard di Fedez
Christian Rosiello, vicino alla Curva Sud e per anni guardia del corpo del rapper, finisce nei guai con altri ultrà storici di Milan e Inter

A San Siro, si diceva, le curve comandano. E infatti, per anni, i veri padroni dello stadio sono stati loro: gli ultras della Sud rossonera e della Nord nerazzurra. Ma ora la giustizia presenta il conto. E il conto è salato.
Christian Rosiello, ultrà milanista ed ex bodyguard di Fedez (che non risulta indagato), è stato condannato a quattro anni e venti giorni di reclusione per associazione a delinquere, nel secondo processo abbreviato legato alla maxi inchiesta su estorsioni, traffici illeciti e gestione violenta delle curve dello stadio Meazza.
Con lui, sono finiti condannati anche Francesco Lucci, fratello del più noto Luca Lucci (ex leader della Curva Sud, già condannato), che si è preso 5 anni e 6 mesi, e Riccardo Bonissi, condannato a 3 anni e 8 mesi.
Il verdetto è arrivato dalla sesta sezione penale del Tribunale di Milano, che ha accolto le richieste della Procura dopo un’indagine durata mesi, condotta dalla Digos e dalla Guardia di Finanza. Al centro del fascicolo: un sistema capillare di potere nelle curve, tra minacce ai club, bagarinaggio, vendita abusiva di merchandising e uso sistematico della violenza.
Le nuove condanne arrivano a pochi giorni da quelle inflitte ai vertici storici della tifoseria: Luca Lucci e Andrea Beretta, quest’ultimo ex capo della curva interista, entrambi condannati a 10 anni di carcere.
Il nome di Rosiello, figura nota nell’ambiente milanese anche per essere stato per un periodo nella scorta personale di Fedez, è uno dei più visibili fra quelli emersi nell’inchiesta. Per gli inquirenti, avrebbe avuto un ruolo attivo nell’organizzazione criminale che controllava la Curva Sud.
Un sistema, quello delle curve milanesi, che ora si scopre marcio ben oltre i cori da stadio.
Sic transit gloria mundi
Il Papa venuto dal futuro: perché Leone XIV ha già fatto la rivoluzione
Meno proclami, più strategia. Il nuovo Papa non urla, ma agisce: ricompone le fratture interne, cambia il linguaggio, riporta ordine e introduce un modello di leadership a lungo termine. Con un dettaglio non trascurabile: ha iniziato a rivoluzionare tutto… restando apparentemente fermo

Non ha alzato la voce, non ha fatto gesti eclatanti, non ha rovesciato nulla. Eppure Leone XIV ha già fatto la rivoluzione. La sua, a ben vedere, è una delle più subdole ed eleganti operazioni di riforma degli ultimi anni: un cambiamento interno, sottile, profondo, silenzioso. Una rivoluzione nella forma che trasformerà la sostanza.
Il pontificato del primo Papa americano (e peruviano) della storia si annuncia come una fase di transizione, certo, ma anche come un ritorno a una forma più “classica” di conduzione della Chiesa. Senza rinnegare Francesco, ne ha assorbito l’eredità su pace, giustizia sociale e dialogo con i poveri. Ma lo ha fatto spogliandola del pathos sudamericano e della forza mediatica del predecessore. Dove Francesco camminava tra la folla, Prevost resta sullo sfondo. Dove Francesco abbracciava, Leone XIV osserva e media. Ma, attenzione, non è affatto debolezza: è consapevolezza.
Quella che stiamo vedendo non è una virata a destra o a sinistra – categorie che nel mondo ecclesiastico valgono quanto un righello nel mare aperto – ma un aggiustamento di rotta per navigare attraverso acque sempre più torbide: lo scontro tra “correnti” interne alla Curia, la pressione delle opinioni pubbliche globali, la crisi vocazionale e identitaria del clero, la secolarizzazione inarrestabile in Europa e il radicalismo emergente in altre aree del mondo. Tutto questo, Prevost ha deciso di affrontarlo con un’arma che nella Chiesa ha sempre funzionato: il tempo.
Perché è il tempo la vera novità di questo pontificato. Dopo tre papi anziani, l’elezione di un pontefice giovane cambia l’intero scenario: non serve più pensare a soluzioni tampone o a gestioni ordinarie, ma a progetti di lungo corso. Il nuovo Papa può permettersi di ragionare come un costruttore di cattedrali, non come un amministratore in scadenza di mandato.
La sua età è una risorsa politica e strategica, soprattutto in un contesto globale dove i leader sono spesso anziani, stanchi, logorati. Prevost, al contrario, ha tempo e visione. Può permettersi di iniziare ora un’opera di ricucitura interna, di pacificazione tra le varie anime della Chiesa, di ricentratura sul Vangelo come bussola spirituale e geopolitica. Il tutto senza bisogno di proclami roboanti, che a lungo andare stancano.
Il cambio di stile si nota subito anche nella comunicazione. Meno storytelling, più sobrietà. Niente frasi fatte, niente retorica. Il nuovo Papa parla per sottrazione. Non accarezza i media, non cavalca i social. Al massimo li attraversa con passo lento. Eppure, ogni parola è pesata, meditata, calibrata per durare. Come quella con cui ha aperto il suo pontificato: «La pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante, umile e perseverante». Una frase che sembra una carezza, ma che contiene un’architettura spirituale e diplomatica potentissima.
Perché la pace, per Leone XIV, non è solo un auspicio ma un programma. È l’unico ponte possibile tra la Chiesa e il mondo lacerato che la circonda. È anche il punto di continuità più evidente con Papa Francesco: il rifiuto di ogni logica di guerra, la critica al riarmo europeo, l’attenzione ai popoli martoriati da conflitti dimenticati. Ma lo fa con un tono che è tutto suo: meno appelli pubblici, più diplomazia silenziosa.
E se c’è una rivoluzione che Leone XIV ha già messo in atto, è proprio questa: riportare la Chiesa a un ruolo di regia silenziosa, capace di parlare ai potenti con il linguaggio dei secoli, non con i post su X. Capace di tenere il timone dritto, anche quando le onde sono alte e la nave cigola. E soprattutto, capace di non cedere alla tentazione di farsi partito o fazione.
La tentazione, oggi più che mai, sarebbe forte: usare la visibilità globale del papato per occupare spazi politici, influenzare agende, dirigere voti. Ma Prevost non ci casca. Forse perché sa bene che, nella lunga storia della Chiesa, le vere rivoluzioni non le ha fatte chi urlava più forte, ma chi sapeva aspettare.
Leone XIV ha cominciato il suo pontificato con pochi gesti e molte omissioni. Ma proprio in quelle omissioni, nella scelta di non forzare, di non dividere, di non provocare, si sta già costruendo un nuovo modo di essere Papa. Più difficile da raccontare, forse. Ma potenzialmente molto più potente.
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