Sic transit gloria mundi
Quel pasticciaccio brutto del presunto stupro (con richiesta d’archiviazione) e del cronista alla gogna
Una giovane giornalista accusa Nello Trocchia, firma de “Il Domani”, e sua moglie Sara Giudice di tentato stupro. Ma la procura di Roma chiede l’archiviazione per “il fatto che non sussiste”. Una storia di accuse, smentite e ironie del destino, mentre il cronista, solitamente in prima linea contro i potenti, si ritrova per una volta dall’altra parte della barricata.

C’è un’ironia sottile e pungente nel destino, quando decide di riservare il contrappasso perfetto. È la storia di Nello Trocchia, il cronista d’assalto del quotidiano “Il Domani”, noto per il suo approccio senza remore, sempre pronto a gettare il pubblico sguardo sugli altri, spesso senza attendere le verifiche e le conclusioni delle indagini. Questa volta, però, il cronista che si è fatto portavoce di tante coraggiose e interessanti inchieste contro personaggi pubblici e privati si è ritrovato, suo malgrado, al centro di una vicenda che, per una volta, lo ha visto scendere dalla cattedra per occupare quel banco degli imputati che tanto spesso ha contribuito a riempire con altri.
La storia che ha portato alla richiesta di archiviazione
Il “pasticciaccio” inizia in una serata che avrebbe dovuto essere di semplice festa e convivialità. Magari con un pizzico di brivido e qualche trasgressione in più. Nello Trocchia e sua moglie, Sara Giudice, giornalista di La7, erano intenti a festeggiare il compleanno della stessa Giudice in un locale alla moda.
Con loro, amici e colleghi, tra cui la giovane giornalista che qualche tempo dopo avrebbe presentato una denuncia pesantissima: quella di essere stata drogata e poi costretta a subire attenzioni moleste durante il tragitto di ritorno a casa, a bordo di un taxi. Un’accusa che, per un professionista abituato a scavare nelle vite altrui con la lente della pubblica giustizia, ha avuto l’effetto di un fulmine a ciel sereno.
Il racconto della giovane giornalista descrive una notte che si sarebbe trasformata in incubo. Secondo la sua versione, dopo un brindisi e dei festeggiamenti apparentemente innocenti, le sarebbe stato somministrato qualche tipo di sostanza stupefacente, forse sciolta nel bicchiere mentre si trovava distratta. L’incoscienza, o almeno lo stordimento, l’avrebbe colta improvvisamente, rendendola incapace di opporre resistenza quando, sul taxi che la riportava a casa, si sarebbe trovata a subire baci e carezze non voluti da parte della coppia.
Il quadro che emerge dalla sua denuncia è cupo, e dipinge Trocchia e la moglie come complici di un’aggressione sessuale descritta dalla presunta vittima come pianificata e approfittatrice. Ma quello che racconta l’accusatrice è successo davvero? Trocchia, agli inquirenti, ammette il piccante “giochino” a tre, ma non d’aver coinvolto la ragazza suo malgrado.
Indagini e testimonianze
A quel punto, il caso finisce sulla scrivania della pm Barbara Trotta e del magistrato Michele Prestipino, entrambi noti per la loro rigida attenzione alle dinamiche di violenza contro le donne. Gli inquirenti procedono con la consueta scrupolosità, ascoltando la ragazza e chiamando a testimoniare tutti coloro che avevano avuto un ruolo, anche indiretto, quella notte.
Le prove di laboratorio
Ma a controprova c’è il fatto che la ragazza decide di portare in un laboratorio ad analizzare le sue urine. Il responso è positivo al Ghb, ovvero la droga dello stupro. Ma il controesame della procura dà esito negativo. Una nuova consulenza della difesa però contesta la metodologia utilizzata per il responso. La pm rigetta la richiesta di analisi del capello fatta dalla vittima. Il tassista viene convocato e interrogato.
Il tassista, coinvolto nel trasporto dei protagonisti di questa storia, fornisce una versione dei fatti che sembra non corroborare l’accusa. Racconta di aver assistito a una scena intima e affettuosa tra i tre che, sul sedile posteriore del suo taxi, si sarebbero lasciati andare senza troppa vergogna, Ma sottolinea di non aver percepito alcun segnale di coercizione o disagio evidente. Nessuna traccia di violenza o resistenza da parte della presunta vittima, solo gesti e atteggiamenti che, a suo dire, sembravano consenzienti.
La stessa impressione è condivisa da un avventore del locale, che riferisce di aver assistito a una serata trascorsa tra sorrisi e chiacchiere conviviali, senza notare alcun comportamento sospetto o segni di tensione tra i partecipanti.
La richiesta di archiviazione e il contrappasso del cronista d’assalto
Di fronte a queste testimonianze, che si sommano alla totale mancanza di prove oggettive circa l’alterazione della giovane donna da sostanze narcotiche, la decisione della pm Trotta e del magistrato Prestipino è stata di chiedere l’archiviazione del caso. “Il fatto non sussiste”, recita il documento con cui i due magistrati chiedono di mettere fine alla vicenda giudiziaria.
Ma la storia non finisce qui. Perché il tribunale di Roma, oberato dal sovraccarico di lavoro e dalla cronica carenza di organico, ritarda nel fissare l’udienza per discutere la richiesta di archiviazione. L’udienza viene fissata solo per dicembre, mesi dopo la decisione dei magistrati. Nel frattempo, il caso resta aperto, e la posizione di Trocchia rimane in sospeso.
Ed ecco il contrappasso, con la gogna mediatica inflitta a colui che solitamente la infligge… e poco importa al pubblico vorace se il colpevole c’è o non c’è, se il fatto in questione è o meno reato. Il giornalista finisce sui giornali, con il suo intimo – vizietti compresi – squadernato come su un giornaletto a luci rosse d’antan.
Il paradosso dell’intransigenza
La vicenda ha un sapore quasi beffardo, uno strano scherzo del destino, soprattutto per chi, come Trocchia, si è distinto per un giornalismo senza remore, capace di puntare il dito con vigore anche in assenza di una condanna formale. La sua carriera è costellata di inchieste che hanno esposto presunti scandali e colpevoli, spesso prima che questi avessero l’opportunità di difendersi o di essere giudicati dalla giustizia.
Questa volta, però, l’accusato è lui. E forse questo spiega il silenzio che ha avvolto il cronista nelle settimane successive alla denuncia, mentre attende il verdetto della giustizia con la stessa ansia e incertezza che tante volte ha inflitto ai suoi bersagli.
Un’altra ironia della sorte riguarda la circostanza che, mentre il cronista del “Domani” combatte la sua battaglia per dimostrare l’infondatezza delle accuse, il suo giornale continua a sferrare colpi contro figure pubbliche e avversari politici. È recente, infatti, l’inchiesta pubblicata da “Il Domani” sui presunti finanziamenti ricevuti dall’associazione Acca Larenzia da parte di Fratelli d’Italia. Un’inchiesta condotta con lo stesso piglio risoluto, l’uso spregiudicato di ogni elemento per fare notizia, talvolta anche a costo di oltrepassare il confine tra cronaca e sensazionalismo.
Le reazioni e le prospettive future
Nel frattempo, l’avvocato Grazia Volo, che rappresenta Trocchia, ha già avviato una controffensiva legale. Una denuncia per calunnia contro la giovane giornalista è stata preparata, accusandola di aver mosso accuse false e infondate. L’avvocato Volo ha dichiarato: “Il mio assistito è stato vittima di un attacco ingiusto e strumentale, un tentativo di delegittimazione personale e professionale basato su una ricostruzione dei fatti che non trova alcun riscontro nelle testimonianze e nelle prove raccolte.”
E noi ci uniamo sicuramente al coro: se nulla verrà dimostrato dalla giustizia, se il caso verrà archiviato, Nello Trocchia è da considerarsi innocente a tutti gli effetti. Nel suo intimo, con sua moglie, può fare ciò che gli pare e nessuno può permettersi anche solo di sindacare scelte che sono solo sue e di nessun altro. Questo sia chiaro. Ma il pasticciaccio resta… la gogna pure.
Una riflessione amara
Insomma, questa storia non offre facili conclusioni. C’è un’inchiesta in corso, una richiesta di archiviazione e una serie di accuse che lasciano un’ombra sulla reputazione di tutti gli interessati. Ma quello che emerge con chiarezza è un doppio standard difficile da ignorare. La vicenda diventa una sorta di specchio deformante, che riflette il volto di un giornalismo che, talvolta, sembra dimenticare che anche chi accusa può essere accusato.
Che anche il più implacabile cronista d’assalto può trovarsi sul banco degli imputati. Forse una lezione utile, non solo per Trocchia, ma per tutto il mondo dell’informazione, che spesso si dimentica quanto sia sottile il confine tra il diritto di cronaca e il dovere di rispettare la dignità delle persone.
Foto dal CORRIERE DELLA SERA
INSTAGRAM.COM/LACITYMAG
Sic transit gloria mundi
Da Sanremo al Circo Massimo, passando per Springsteen: il vero tour dell’estate è quello di Elly Schlein
La segretaria del Pd beccata a San Siro con la compagna Paola Belloni per il concerto di Springsteen. Applausi, selfie (mai pubblicati) e un messaggio chiaro: Elly è ovunque, tranne che dove dovrebbe esserci. E cioè, sul fronte dell’opposizione.

Mentre la destra impone l’agenda e il Paese affoga tra crisi economiche, follie trumpiane e guerra internazionali, Elly Schlein canta “Born to Run” sotto il palco di Bruce Springsteen, abbracciata alla sua compagna Paola Belloni. Una serata da “coppia dem rock” come la chiamano i fan, tra le star di Hollywood e i soliti influencer italiani. Solo che lei non è un’influencer. O non dovrebbe esserlo.
La segretaria del Pd è stata avvistata a San Siro mentre si godeva tre ore di rock e sudore con il “Boss”, circondata da Gigi Hadid, Bradley Cooper e Olivia Wilde. Con lei, la sua compagna storica, Paola Belloni, che a fine serata ha condiviso su Instagram un post pieno di entusiasmo: «Bruce ha cantato, ballato, urlato per tre ore. Steve, operato da quattro giorni, ha suonato con lui. Io, 36 anni, sto abbracciata al Voltaren perché ero sottopalco».
Ecco, forse è lì il problema: sottopalco. Sempre lì. Perché Schlein sembra vivere ormai perennemente in una tournée parallela. Dopo i duetti con Annalisa al Pride, il freestyle con J-Ax, il karaoke sanremese, le cover dei Cranberries alla Festa dell’Unità e i video da fangirl per Brunori, il suo Pd sembra più un fan club che un partito d’opposizione.
Che Schlein sia appassionata di musica è noto. Suona la chitarra, si diverte, ha gusti indie e mainstream. Ma c’è chi, tra i suoi stessi elettori, comincia a chiedersi se abbia ben chiaro che la politica non è una scaletta da concerto. La sua compagna chiede rispetto per la privacy — giustamente — ma Elly sotto i riflettori ci si piazza con entusiasmo. Tranne quelli del Parlamento.
Nel frattempo, Fratelli d’Italia avanza, Maloni governa, e l’opposizione viene affidata a una “story” su Instagram o a una pagella social post-Sanremo. I fan saranno anche felici. Gli elettori un po’ meno. Perché se la Schlein non capisce che la sua missione non è ballare coi Boss, ma suonarle alla destra, allora qualcuno dovrebbe suggerirle che forse è arrivato il momento di cambiare palco.
Sic transit gloria mundi
Non plus ultras: condannato l’ex bodyguard di Fedez
Christian Rosiello, vicino alla Curva Sud e per anni guardia del corpo del rapper, finisce nei guai con altri ultrà storici di Milan e Inter

A San Siro, si diceva, le curve comandano. E infatti, per anni, i veri padroni dello stadio sono stati loro: gli ultras della Sud rossonera e della Nord nerazzurra. Ma ora la giustizia presenta il conto. E il conto è salato.
Christian Rosiello, ultrà milanista ed ex bodyguard di Fedez (che non risulta indagato), è stato condannato a quattro anni e venti giorni di reclusione per associazione a delinquere, nel secondo processo abbreviato legato alla maxi inchiesta su estorsioni, traffici illeciti e gestione violenta delle curve dello stadio Meazza.
Con lui, sono finiti condannati anche Francesco Lucci, fratello del più noto Luca Lucci (ex leader della Curva Sud, già condannato), che si è preso 5 anni e 6 mesi, e Riccardo Bonissi, condannato a 3 anni e 8 mesi.
Il verdetto è arrivato dalla sesta sezione penale del Tribunale di Milano, che ha accolto le richieste della Procura dopo un’indagine durata mesi, condotta dalla Digos e dalla Guardia di Finanza. Al centro del fascicolo: un sistema capillare di potere nelle curve, tra minacce ai club, bagarinaggio, vendita abusiva di merchandising e uso sistematico della violenza.
Le nuove condanne arrivano a pochi giorni da quelle inflitte ai vertici storici della tifoseria: Luca Lucci e Andrea Beretta, quest’ultimo ex capo della curva interista, entrambi condannati a 10 anni di carcere.
Il nome di Rosiello, figura nota nell’ambiente milanese anche per essere stato per un periodo nella scorta personale di Fedez, è uno dei più visibili fra quelli emersi nell’inchiesta. Per gli inquirenti, avrebbe avuto un ruolo attivo nell’organizzazione criminale che controllava la Curva Sud.
Un sistema, quello delle curve milanesi, che ora si scopre marcio ben oltre i cori da stadio.
Sic transit gloria mundi
Il Papa venuto dal futuro: perché Leone XIV ha già fatto la rivoluzione
Meno proclami, più strategia. Il nuovo Papa non urla, ma agisce: ricompone le fratture interne, cambia il linguaggio, riporta ordine e introduce un modello di leadership a lungo termine. Con un dettaglio non trascurabile: ha iniziato a rivoluzionare tutto… restando apparentemente fermo

Non ha alzato la voce, non ha fatto gesti eclatanti, non ha rovesciato nulla. Eppure Leone XIV ha già fatto la rivoluzione. La sua, a ben vedere, è una delle più subdole ed eleganti operazioni di riforma degli ultimi anni: un cambiamento interno, sottile, profondo, silenzioso. Una rivoluzione nella forma che trasformerà la sostanza.
Il pontificato del primo Papa americano (e peruviano) della storia si annuncia come una fase di transizione, certo, ma anche come un ritorno a una forma più “classica” di conduzione della Chiesa. Senza rinnegare Francesco, ne ha assorbito l’eredità su pace, giustizia sociale e dialogo con i poveri. Ma lo ha fatto spogliandola del pathos sudamericano e della forza mediatica del predecessore. Dove Francesco camminava tra la folla, Prevost resta sullo sfondo. Dove Francesco abbracciava, Leone XIV osserva e media. Ma, attenzione, non è affatto debolezza: è consapevolezza.
Quella che stiamo vedendo non è una virata a destra o a sinistra – categorie che nel mondo ecclesiastico valgono quanto un righello nel mare aperto – ma un aggiustamento di rotta per navigare attraverso acque sempre più torbide: lo scontro tra “correnti” interne alla Curia, la pressione delle opinioni pubbliche globali, la crisi vocazionale e identitaria del clero, la secolarizzazione inarrestabile in Europa e il radicalismo emergente in altre aree del mondo. Tutto questo, Prevost ha deciso di affrontarlo con un’arma che nella Chiesa ha sempre funzionato: il tempo.
Perché è il tempo la vera novità di questo pontificato. Dopo tre papi anziani, l’elezione di un pontefice giovane cambia l’intero scenario: non serve più pensare a soluzioni tampone o a gestioni ordinarie, ma a progetti di lungo corso. Il nuovo Papa può permettersi di ragionare come un costruttore di cattedrali, non come un amministratore in scadenza di mandato.
La sua età è una risorsa politica e strategica, soprattutto in un contesto globale dove i leader sono spesso anziani, stanchi, logorati. Prevost, al contrario, ha tempo e visione. Può permettersi di iniziare ora un’opera di ricucitura interna, di pacificazione tra le varie anime della Chiesa, di ricentratura sul Vangelo come bussola spirituale e geopolitica. Il tutto senza bisogno di proclami roboanti, che a lungo andare stancano.
Il cambio di stile si nota subito anche nella comunicazione. Meno storytelling, più sobrietà. Niente frasi fatte, niente retorica. Il nuovo Papa parla per sottrazione. Non accarezza i media, non cavalca i social. Al massimo li attraversa con passo lento. Eppure, ogni parola è pesata, meditata, calibrata per durare. Come quella con cui ha aperto il suo pontificato: «La pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante, umile e perseverante». Una frase che sembra una carezza, ma che contiene un’architettura spirituale e diplomatica potentissima.
Perché la pace, per Leone XIV, non è solo un auspicio ma un programma. È l’unico ponte possibile tra la Chiesa e il mondo lacerato che la circonda. È anche il punto di continuità più evidente con Papa Francesco: il rifiuto di ogni logica di guerra, la critica al riarmo europeo, l’attenzione ai popoli martoriati da conflitti dimenticati. Ma lo fa con un tono che è tutto suo: meno appelli pubblici, più diplomazia silenziosa.
E se c’è una rivoluzione che Leone XIV ha già messo in atto, è proprio questa: riportare la Chiesa a un ruolo di regia silenziosa, capace di parlare ai potenti con il linguaggio dei secoli, non con i post su X. Capace di tenere il timone dritto, anche quando le onde sono alte e la nave cigola. E soprattutto, capace di non cedere alla tentazione di farsi partito o fazione.
La tentazione, oggi più che mai, sarebbe forte: usare la visibilità globale del papato per occupare spazi politici, influenzare agende, dirigere voti. Ma Prevost non ci casca. Forse perché sa bene che, nella lunga storia della Chiesa, le vere rivoluzioni non le ha fatte chi urlava più forte, ma chi sapeva aspettare.
Leone XIV ha cominciato il suo pontificato con pochi gesti e molte omissioni. Ma proprio in quelle omissioni, nella scelta di non forzare, di non dividere, di non provocare, si sta già costruendo un nuovo modo di essere Papa. Più difficile da raccontare, forse. Ma potenzialmente molto più potente.
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