Sic transit gloria mundi
Confessioni d’amore postume: il curioso caso delle mille amanti di Alain Delon
Le confessioni di vecchie fiamme del divo francese fanno notizia, ma sollevano dubbi sull’autenticità delle storie. Perché oggi le bugie, purché intriganti, valgono una copertina?

Nel vasto teatro delle illusioni contemporanee, dove la linea tra realtà e fantasia è più sfumata di un tramonto sull’oceano, ecco spuntare l’ennesima trovata: la confessione tardiva e smaccatamente compiacente di chi ha avuto il piacere, o meglio, il privilegio, di intrattenersi tra le lenzuola con Alain Delon. Sì, proprio lui, il divo francese dal fascino immortale che, oggi, come per magia, diventa l’oggetto di una gara mediatica all’ultima rivelazione. Che sia il desiderio di una fama riflessa o solo il piacere di una vanità tardiva, poco importa. La lista delle sue presunte amanti sembra più un elenco telefonico che la cronaca di una vita amorosa, e il paradosso è che più la lista si allunga, più diventa difficile prendere sul serio chiunque vi si aggiunga.
In un’epoca in cui le fake news sono il pane quotidiano, dove la verità ha perso il suo valore e la bugia ben confezionata si vende meglio di un abito su misura, ecco che il gossip torna a essere la regina delle notizie. Delon, che una volta faceva battere i cuori senza dover muovere un dito, oggi diventa il protagonista involontario di racconti che, a ben vedere, avrebbero potuto essere contenuti in quei diari segreti che le signore nascondevano nei cassetti delle scrivanie, accanto a fazzoletti di seta e lettere d’amore. Ma perché nasconderlo, ora che la discrezione è passata di moda e che il pudore è diventato un concetto obsoleto?
Curiosamente, in questo turbinio di rivelazioni postume, c’è un dettaglio che non passa inosservato: se un uomo si azzarda a fare il conto delle sue conquiste, viene subito tacciato di essere un volgare spaccone, un incallito dongiovanni, uno che, per dirla tutta, farebbe meglio a concentrarsi su altro, tipo tenere allacciati i pantaloni e imparare il significato della parola “rispetto”. Eppure, quando è una donna a uscire allo scoperto, sbandierando la propria avventura sotto le luci della ribalta, tutto cambia: quella che per l’uomo sarebbe un’ostentazione da quattro soldi, per lei diventa motivo d’orgoglio, un’autentica dichiarazione di potere. E i media, solerti e compiacenti, sono lì pronti a trasformare ogni confessione in una storia degna di copertina, perché, diciamocelo, i lettori adorano crogiolarsi nei pettegolezzi.
Non è certo la prima volta che accade, e non sarà l’ultima. Ma l’ironia di questa situazione non sta tanto nel fatto che ogni nome aggiunto alla lista sembra un tentativo disperato di mantenere viva una notorietà sbiadita, quanto nel fatto che nessuno si preoccupa di verificare, di mettere in dubbio, di fare quel sano esercizio di scetticismo che in altre epoche era la regola. Se un tempo la verità si cercava con pazienza, oggi ci si accontenta della prima versione che fa notizia. E così, una dopo l’altra, le presunte amanti del povero Delon vengono alla luce, come funghi dopo una pioggia autunnale, ognuna con la sua piccola fetta di gloria riflessa.
Ma torniamo al punto: se un tempo la riservatezza era una virtù, oggi sembra essere diventata una debolezza. Delon, se potesse, avrebbe forse qualcosa da dire, da ribattere, da chiarire. Ma, sfortunatamente, i morti non parlano, e le loro storie, vere o inventate, diventano campo libero per chiunque voglia appropriarsene. Il divo francese, che ha vissuto una vita intensa e piena, ora si ritrova trasformato in un simbolo postumo di conquiste e amori passeggeri, senza avere la possibilità di smentire o confermare nulla.
Nel frattempo, noi uomini, che siamo ben consapevoli delle nostre debolezze e dei nostri errori, siamo costretti a fare i conti con un doppio standard che non smette mai di stupire. Certo, possiamo raccontare delle nostre avventure, delle nostre amanti, dei nostri fallimenti, ma guai a farlo con troppa leggerezza: il rischio di passare per mascalzoni è dietro l’angolo. Le donne, invece, quando parlano del loro passato sentimentale, lo fanno con quella grazia e quella sicurezza che viene dall’essere, finalmente, padrone della propria storia. E noi, poveri ingenui, possiamo solo ammirare tanta determinazione.
E così, mentre il mondo si divide tra chi applaude e chi storce il naso, tra chi ci crede e chi dubita, l’unica verità che rimane è quella che nessuno saprà mai con certezza. Delon, da icona del cinema a protagonista inconsapevole di racconti da salotto, continuerà a vivere nelle parole degli altri, perché, come si sa, nell’epoca delle fake news, anche le bugie possono diventare storie da copertina.
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Sic transit gloria mundi
Da Sanremo al Circo Massimo, passando per Springsteen: il vero tour dell’estate è quello di Elly Schlein
La segretaria del Pd beccata a San Siro con la compagna Paola Belloni per il concerto di Springsteen. Applausi, selfie (mai pubblicati) e un messaggio chiaro: Elly è ovunque, tranne che dove dovrebbe esserci. E cioè, sul fronte dell’opposizione.

Mentre la destra impone l’agenda e il Paese affoga tra crisi economiche, follie trumpiane e guerra internazionali, Elly Schlein canta “Born to Run” sotto il palco di Bruce Springsteen, abbracciata alla sua compagna Paola Belloni. Una serata da “coppia dem rock” come la chiamano i fan, tra le star di Hollywood e i soliti influencer italiani. Solo che lei non è un’influencer. O non dovrebbe esserlo.
La segretaria del Pd è stata avvistata a San Siro mentre si godeva tre ore di rock e sudore con il “Boss”, circondata da Gigi Hadid, Bradley Cooper e Olivia Wilde. Con lei, la sua compagna storica, Paola Belloni, che a fine serata ha condiviso su Instagram un post pieno di entusiasmo: «Bruce ha cantato, ballato, urlato per tre ore. Steve, operato da quattro giorni, ha suonato con lui. Io, 36 anni, sto abbracciata al Voltaren perché ero sottopalco».
Ecco, forse è lì il problema: sottopalco. Sempre lì. Perché Schlein sembra vivere ormai perennemente in una tournée parallela. Dopo i duetti con Annalisa al Pride, il freestyle con J-Ax, il karaoke sanremese, le cover dei Cranberries alla Festa dell’Unità e i video da fangirl per Brunori, il suo Pd sembra più un fan club che un partito d’opposizione.
Che Schlein sia appassionata di musica è noto. Suona la chitarra, si diverte, ha gusti indie e mainstream. Ma c’è chi, tra i suoi stessi elettori, comincia a chiedersi se abbia ben chiaro che la politica non è una scaletta da concerto. La sua compagna chiede rispetto per la privacy — giustamente — ma Elly sotto i riflettori ci si piazza con entusiasmo. Tranne quelli del Parlamento.
Nel frattempo, Fratelli d’Italia avanza, Maloni governa, e l’opposizione viene affidata a una “story” su Instagram o a una pagella social post-Sanremo. I fan saranno anche felici. Gli elettori un po’ meno. Perché se la Schlein non capisce che la sua missione non è ballare coi Boss, ma suonarle alla destra, allora qualcuno dovrebbe suggerirle che forse è arrivato il momento di cambiare palco.
Sic transit gloria mundi
Non plus ultras: condannato l’ex bodyguard di Fedez
Christian Rosiello, vicino alla Curva Sud e per anni guardia del corpo del rapper, finisce nei guai con altri ultrà storici di Milan e Inter

A San Siro, si diceva, le curve comandano. E infatti, per anni, i veri padroni dello stadio sono stati loro: gli ultras della Sud rossonera e della Nord nerazzurra. Ma ora la giustizia presenta il conto. E il conto è salato.
Christian Rosiello, ultrà milanista ed ex bodyguard di Fedez (che non risulta indagato), è stato condannato a quattro anni e venti giorni di reclusione per associazione a delinquere, nel secondo processo abbreviato legato alla maxi inchiesta su estorsioni, traffici illeciti e gestione violenta delle curve dello stadio Meazza.
Con lui, sono finiti condannati anche Francesco Lucci, fratello del più noto Luca Lucci (ex leader della Curva Sud, già condannato), che si è preso 5 anni e 6 mesi, e Riccardo Bonissi, condannato a 3 anni e 8 mesi.
Il verdetto è arrivato dalla sesta sezione penale del Tribunale di Milano, che ha accolto le richieste della Procura dopo un’indagine durata mesi, condotta dalla Digos e dalla Guardia di Finanza. Al centro del fascicolo: un sistema capillare di potere nelle curve, tra minacce ai club, bagarinaggio, vendita abusiva di merchandising e uso sistematico della violenza.
Le nuove condanne arrivano a pochi giorni da quelle inflitte ai vertici storici della tifoseria: Luca Lucci e Andrea Beretta, quest’ultimo ex capo della curva interista, entrambi condannati a 10 anni di carcere.
Il nome di Rosiello, figura nota nell’ambiente milanese anche per essere stato per un periodo nella scorta personale di Fedez, è uno dei più visibili fra quelli emersi nell’inchiesta. Per gli inquirenti, avrebbe avuto un ruolo attivo nell’organizzazione criminale che controllava la Curva Sud.
Un sistema, quello delle curve milanesi, che ora si scopre marcio ben oltre i cori da stadio.
Sic transit gloria mundi
Il Papa venuto dal futuro: perché Leone XIV ha già fatto la rivoluzione
Meno proclami, più strategia. Il nuovo Papa non urla, ma agisce: ricompone le fratture interne, cambia il linguaggio, riporta ordine e introduce un modello di leadership a lungo termine. Con un dettaglio non trascurabile: ha iniziato a rivoluzionare tutto… restando apparentemente fermo

Non ha alzato la voce, non ha fatto gesti eclatanti, non ha rovesciato nulla. Eppure Leone XIV ha già fatto la rivoluzione. La sua, a ben vedere, è una delle più subdole ed eleganti operazioni di riforma degli ultimi anni: un cambiamento interno, sottile, profondo, silenzioso. Una rivoluzione nella forma che trasformerà la sostanza.
Il pontificato del primo Papa americano (e peruviano) della storia si annuncia come una fase di transizione, certo, ma anche come un ritorno a una forma più “classica” di conduzione della Chiesa. Senza rinnegare Francesco, ne ha assorbito l’eredità su pace, giustizia sociale e dialogo con i poveri. Ma lo ha fatto spogliandola del pathos sudamericano e della forza mediatica del predecessore. Dove Francesco camminava tra la folla, Prevost resta sullo sfondo. Dove Francesco abbracciava, Leone XIV osserva e media. Ma, attenzione, non è affatto debolezza: è consapevolezza.
Quella che stiamo vedendo non è una virata a destra o a sinistra – categorie che nel mondo ecclesiastico valgono quanto un righello nel mare aperto – ma un aggiustamento di rotta per navigare attraverso acque sempre più torbide: lo scontro tra “correnti” interne alla Curia, la pressione delle opinioni pubbliche globali, la crisi vocazionale e identitaria del clero, la secolarizzazione inarrestabile in Europa e il radicalismo emergente in altre aree del mondo. Tutto questo, Prevost ha deciso di affrontarlo con un’arma che nella Chiesa ha sempre funzionato: il tempo.
Perché è il tempo la vera novità di questo pontificato. Dopo tre papi anziani, l’elezione di un pontefice giovane cambia l’intero scenario: non serve più pensare a soluzioni tampone o a gestioni ordinarie, ma a progetti di lungo corso. Il nuovo Papa può permettersi di ragionare come un costruttore di cattedrali, non come un amministratore in scadenza di mandato.
La sua età è una risorsa politica e strategica, soprattutto in un contesto globale dove i leader sono spesso anziani, stanchi, logorati. Prevost, al contrario, ha tempo e visione. Può permettersi di iniziare ora un’opera di ricucitura interna, di pacificazione tra le varie anime della Chiesa, di ricentratura sul Vangelo come bussola spirituale e geopolitica. Il tutto senza bisogno di proclami roboanti, che a lungo andare stancano.
Il cambio di stile si nota subito anche nella comunicazione. Meno storytelling, più sobrietà. Niente frasi fatte, niente retorica. Il nuovo Papa parla per sottrazione. Non accarezza i media, non cavalca i social. Al massimo li attraversa con passo lento. Eppure, ogni parola è pesata, meditata, calibrata per durare. Come quella con cui ha aperto il suo pontificato: «La pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante, umile e perseverante». Una frase che sembra una carezza, ma che contiene un’architettura spirituale e diplomatica potentissima.
Perché la pace, per Leone XIV, non è solo un auspicio ma un programma. È l’unico ponte possibile tra la Chiesa e il mondo lacerato che la circonda. È anche il punto di continuità più evidente con Papa Francesco: il rifiuto di ogni logica di guerra, la critica al riarmo europeo, l’attenzione ai popoli martoriati da conflitti dimenticati. Ma lo fa con un tono che è tutto suo: meno appelli pubblici, più diplomazia silenziosa.
E se c’è una rivoluzione che Leone XIV ha già messo in atto, è proprio questa: riportare la Chiesa a un ruolo di regia silenziosa, capace di parlare ai potenti con il linguaggio dei secoli, non con i post su X. Capace di tenere il timone dritto, anche quando le onde sono alte e la nave cigola. E soprattutto, capace di non cedere alla tentazione di farsi partito o fazione.
La tentazione, oggi più che mai, sarebbe forte: usare la visibilità globale del papato per occupare spazi politici, influenzare agende, dirigere voti. Ma Prevost non ci casca. Forse perché sa bene che, nella lunga storia della Chiesa, le vere rivoluzioni non le ha fatte chi urlava più forte, ma chi sapeva aspettare.
Leone XIV ha cominciato il suo pontificato con pochi gesti e molte omissioni. Ma proprio in quelle omissioni, nella scelta di non forzare, di non dividere, di non provocare, si sta già costruendo un nuovo modo di essere Papa. Più difficile da raccontare, forse. Ma potenzialmente molto più potente.
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