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Sic transit gloria mundi

Scontri di potere: Giorgia Meloni e la famiglia Berlusconi in rissa per il trono

Mentre Meloni esige fedeltà e sacrifici dalla galassia Fininvest, sospettando manovre oscure di Gianni Letta, la famiglia Berlusconi risponde con delusione e distacco. E tra tasse di successione scomparse e ospitate sospette, la coalizione rischia di implodere. Chi cadrà per primo?

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    Benvenuti nel Gioco dei Troni in salsa italiana, dove la politica si intreccia con il dramma, il potere con il tradimento, e dove non c’è spazio per i deboli. Al centro della scena, come un’attuale Cersei Lannister, troviamo la premier Giorgia Meloni, una leader decisa a consolidare il suo dominio, anche a costo di far saltare in aria l’intera coalizione. Ma se c’è una famiglia che non si è mai piegata, quella è la famiglia Berlusconi, che sembra aver trovato un nuovo motivo per fare la guerra a Palazzo Chigi.

    E la norma anti tasse dov’è?

    La miccia è stata accesa con la cancellazione di una norma fiscale, apparentemente innocua, che avrebbe potuto far risparmiare alla famiglia Berlusconi la bellezza di 423 milioni di euro in tasse di successione. Inserita in sordina nella riforma fiscale dal viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, un uomo di Fratelli d’Italia, la norma avrebbe consentito agli eredi che continuano l’attività di famiglia di beneficiare di uno sconto significativo sulle imposte.

    Sparita nel nulla

    Un vero e proprio regalo, stando a quanto pubblicato dal Fatto Quotidiano. Eppure, come per magia, la norma è sparita dalla versione finale del decreto. Meloni, sempre attenta a consolidare la sua immagine di leader imparziale, sembra aver deciso che il gioco non valeva la candela, lasciando i Berlusconi a bocca asciutta.

    L’onnipresente Gianni letta

    Ma il vero fulcro della trama si sviluppa attorno a Gianni Letta, il burattinaio di lungo corso della politica italiana, da sempre vicino alla famiglia Berlusconi. Per Meloni, Letta rappresenta la quintessenza del pericolo: un uomo capace di tessere alleanze nascoste, di creare trame sotterranee e, soprattutto, di lavorare per quella che lei teme essere l’imboscata democratica definitiva.

    Forza Italia e PD?

    L’alleanza tra Forza Italia e Partito Democratico, che secondo la premier potrebbe nascere dalle ceneri di un centrodestra in disfacimento. Tajani, uomo di punta di Forza Italia, si trova ora in una posizione delicata: Meloni gli ha chiesto esplicitamente di demansionare Letta, una richiesta che suona tanto come un ultimatum quanto come una dichiarazione di guerra.

    Ormai è guerra fredda

    E mentre Mediaset diventa il campo di battaglia perfetto per questa guerra fredda, un’altra scintilla ha infiammato la già tesa situazione. Maria Rosaria Boccia, imprenditrice e al centro di un recente scandalo con l’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, è stata invitata a parlare su “Cartabianca”, trasmissione delle reti Mediaset.

    Per Meloni, non c’è dubbio: questa è una chiara manovra di Pier Silvio Berlusconi per minare la sua autorità e preparare il terreno per una futura alleanza contro di lei. La premier non ha gradito, vedendo in quell’ospitata una pugnalata alle spalle.

    Tensione sulla Rai

    Nel frattempo, la tensione cresce anche attorno alla Rai, con la nomina di Simona Agnes alla presidenza, una mossa che Meloni attribuisce direttamente all’influenza nefasta di Letta. L’ossessione della premier per Letta si è trasformata in una caccia alle streghe interna, con FdI che ora vede complotti ovunque, sospettando che ogni movimento, ogni decisione, possa essere parte di un piano più grande per estrometterla dal potere.

    Alleanze che si spezzano e alleanze che si stringono

    E così, il gioco dei troni entra nella sua fase più critica. Le fazioni si formano, le alleanze si stringono e si spezzano, mentre Marina Berlusconi prepara le sue mosse. Sarà a Roma a fine settembre, per inaugurare il nuovo Mondadori Store, un evento che potrebbe trasformarsi in una vetrina per le sue ambizioni politiche.

    In questo scenario da incubo per la premier, Gianni Letta continua a ricevere nel suo studio del Nazareno, a pochi passi dalla sede del Partito Democratico, ricordando a tutti che “dieci minuti non si negano a nessuno”.

    Mentre Meloni rimane rinchiusa nel suo palazzo, forse ignara di ciò che sta accadendo a Milano e Torino, il terreno sotto di lei inizia a tremare. I rapporti tra la premier e la famiglia Berlusconi si deteriorano, e lo spettro di una coalizione disgregata diventa sempre più reale. Come andrà a finire questo intricato gioco di potere? Chi sarà il prossimo a cadere?

    In fondo, il caso Boccia è solo la punta dell’iceberg di una paranoia crescente che minaccia di far implodere Fratelli d’Italia e con essa l’intera coalizione. Ma, come diceva qualcuno, in questo gioco di troni, o vinci o muori. E la guerra è appena iniziata.

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      Rita De Crescenzo a Belve: quando il Servizio Pubblico smette di fare cultura e inizia a esaltare il degrado

      Rita De Crescenzo, simbolo di un successo costruito su eccessi e provocazioni, arriva a Belve come ospite del Servizio Pubblico. Una scelta che fa discutere: la Rai trasforma una figura priva di meriti artistici in personaggio televisivo nazionale, sollevando interrogativi sul ruolo stesso della TV pubblica.

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        La notizia dell’intervista di Rita De Crescenzo a Belve ha sollevato un’ondata di polemiche. La tiktoker napoletana, diventata celebre per i suoi video tra musica neomelodica, balli e dirette sopra le righe, sarà tra gli ospiti di Francesca Fagnani nel programma cult di Rai2. Un format che negli anni ha accolto figure di primo piano della politica, dello spettacolo e della cultura, trasformandosi in una sorta di consacrazione mediatica.

        Eppure, questa volta, l’effetto è stato diametralmente opposto: la partecipazione della De Crescenzo è apparsa a molti come un segnale di resa del Servizio Pubblico davanti al degrado dei social. Nessun compenso, dicono fonti interne alla Rai, ma un ritorno d’immagine enorme per la tiktoker, che potrà vantare una ribalta nazionale senza aver speso un euro.

        Il problema non è economico, ma simbolico. Rita De Crescenzo non è un’artista, non è un’attivista, non è una voce culturale o politica: è il prodotto di un certo tipo di popolarità online fatta di eccessi, linguaggio volgare e spettacolarizzazione del quotidiano. Portarla nel salotto televisivo di Francesca Fagnani significa certificare, con il timbro del Servizio Pubblico, un modello che molti considerano pericolosamente regressivo.

        Chi difende la scelta parla di un ritratto “antropologico”, di un fenomeno sociale da osservare più che da celebrare. Ma il rischio, come sempre accade con la televisione, è che la semplice presenza basti a trasformare un caso mediatico in legittimazione culturale.

        Perché la Rai, che per statuto dovrebbe garantire qualità, informazione e crescita culturale, sceglie di offrire spazio a chi incarna tutt’altro? Forse per inseguire ascolti, o per inseguire i social che ormai dettano legge anche in TV. Ma così facendo, il confine tra analisi e spettacolo, tra racconto e compiacimento, si fa sempre più sottile.

        Rita De Crescenzo non è il problema: è il sintomo. Il sintomo di una televisione che ha smesso di selezionare e ha iniziato ad assecondare, di un Servizio Pubblico che invece di educare riflette — e amplifica — il rumore di fondo di un Paese in cerca di attenzione più che di contenuti.

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          Addio a Ace Frehley, lo “Spaceman” dei Kiss: il mio supereroe con la chitarra che sapeva volare

          Con il suo trucco da “Spaceman”, le chitarre che fumavano e i razzi che partivano dal manico, Ace ha trasformato il rock in spettacolo e magia. Lascia un’eredità di suoni, coraggio e umanità: quella di un uomo che ha saputo salvarsi e far sognare milioni di ragazzi.

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            Ci sono artisti che non si limitano a suonare: accendono un immaginario. Ace Frehley era uno di questi. Per chi è cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta, lui non era solo il chitarrista dei Kiss, ma un supereroe in carne e ossa, uno di quelli che scendevano dal palco avvolti nel fumo, con la chitarra che sputava fuoco e gli occhi pieni di stelle. Lo chiamavano The Spaceman, l’uomo venuto dallo spazio, ma in realtà veniva dal Bronx, con una Gibson in mano e un sorriso timido dietro il trucco argentato.

            Ace se n’è andato, a 74 anni – il giorno del mio compleanno e non è stato davvero un ben regalo – dopo un’emorragia cerebrale che lo aveva colpito nei giorni scorsi. E con lui se ne va un pezzo di infanzia, di ribellione, di sogno. Perché chi ha amato i Kiss – quelli veri, quelli del 1975 di Rock and Roll All Nite e del trucco come armatura – sa che il suono di Ace era la scintilla che faceva partire l’esplosione. Ogni assolo sembrava un decollo, ogni nota un razzo che bucava il buio.

            Nel pantheon del rock, Frehley era l’anima più ironica, più fragile, più umana del gruppo. Gene Simmons e Paul Stanley erano i generali, lui era l’astronauta. Il suo “Space Ace” nasceva come il personaggio di un fumetto, ma divenne presto una leggenda viva, capace di unire il virtuosismo alla teatralità, la tecnica alla fantasia. Le sue chitarre fumavano, letteralmente. Le sue dita correvano leggere e incendiate, e noi ragazzi lo guardavamo come si guarda un eroe di un film che non finisce mai.

            Nel 1982 lasciò la band, quando i Kiss decisero di togliere il trucco e affrontare il mondo a viso scoperto. Ace non ci riuscì. Aveva bisogno del suo personaggio, di quella maschera che non nascondeva, ma liberava. Continuò da solo, con i Frehley’s Comet, alternando tour, eccessi, cadute e rinascite. Negli anni Novanta tornò per una reunion trionfale: la vecchia banda di nuovo insieme, quattro maschere, quattro archetipi, un suono che sembrava ancora nuovo.

            Nel 2014 entrò nella Rock and Roll Hall of Fame, dove i Kiss furono premiati come una delle band più influenti della storia. Era felice, e commosso. Nelle ultime interviste aveva detto di voler essere ricordato “come un uomo schietto, fedele alla propria musica, rispettato dai colleghi”. Lo era. Aggiungeva: “Ho portato felicità a molte persone, e tanti ragazzi mi dicono di essere riusciti a disintossicarsi grazie a me. Se ce l’ho fatta io, possono farcela anche loro”. Era questo il suo vero superpotere: non la chitarra che lanciava razzi, ma il coraggio di dire che la fragilità non è una vergogna.

            Paul Stanley lo ricordava così: «Nel 1974 lo sentii suonare in una stanza d’albergo. Pensai: vorrei che quel ragazzo fosse nella mia band. Era Ace». Gene Simmons ha scritto: «I nostri cuori sono spezzati. Nessuno potrà mai eguagliare la sua eredità. Amava i suoi fan, e ci mancherà per sempre». Peter Criss, il batterista con cui aveva condiviso la nascita della leggenda, ha aggiunto: «Era mio fratello. È morto serenamente, circondato da chi lo amava. La sua eredità vivrà nei cuori di milioni di persone».

            Ace era uno di quei pochi che riuscivano a restare bambini anche sul palco. Quando lo vedevi sorridere sotto la maschera d’argento, capivi che dietro al rock c’era un’anima buona. Uno che non cercava di essere un dio, ma un amico. Forse per questo lo abbiamo amato così tanto. Perché in quel trucco c’era il sogno di ognuno di noi: salire su un palco e non avere più paura.

            Oggi che la notizia corre tra social e redazioni, chi lo ha ascoltato da ragazzo sente un vuoto diverso, personale. È la fine di un’epoca, quella in cui il rock aveva ancora la forza di sembrare eterno. Ace Frehley era il suono della libertà, il fumo che saliva da una chitarra in fiamme, il sorriso dietro la maschera di uno Spaceman che non voleva tornare sulla Terra.

            E mentre la sua musica continua a girare nei vinili graffiati delle nostre camerette, viene naturale pensare che sì, forse aveva ragione lui: la sua eredità durerà centinaia d’anni. Perché chi ti insegna a sognare non muore mai davvero.

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              Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”

              Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

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                Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.

                Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.

                Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.

                Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.

                Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.

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