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Sic transit gloria mundi

Soldi, caviale e bagasce: i numeri e le parole dei cortigiani di Toti

In un momento in cui la politica è sotto i riflettori per scandali e corruzione, l’indagine su Toti e i suoi associati offre uno sguardo sconcertante su un mondo di potere, lussuria e mancanza di scrupoli. Resta da vedere come si evolverà questo dramma giudiziario e quali saranno le sue conseguenze per il panorama politico italiano

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    Nelle segrete stanze delle intercettazioni sul caso di Genova emergono frammenti di una realtà tanto scandalosa quanto sorprendente. “La migliore amica? Una bagasc** alla quale va fatto il regalo più brutto che c’è,” si legge in uno scambio registrato. Il lato oscuro della vita politica è svelato in tutta la sua cruda verità, con figure di potere coinvolte in trame intricate e abusi di lusso.

    Il protagonista di questo dramma giudiziario è Giovanni Toti, presidente di centrodestra della Regione Liguria, ora agli arresti domiciliari per presunta corruzione. Tuttavia, è la sua cerchia più stretta a rivelare i dettagli più scabrosi. Aldo Spinelli, re del porto di Genova, e Paolo Emilio Signorini, ex capo dell’autorità portuale genovese, emergono come figure centrali, con i loro viaggi a Montecarlo e il lusso sfrenato che li circonda.

    Nei documenti giudiziari, Montecarlo si distingue come luogo preferito per i weekend di Signorini, citato ripetutamente nelle intercettazioni. Spinelli, al contrario, sembra essere il mecenate di Signorini, pagando i suoi conti, nonostante la sua posizione pubblica. Ma non è solo il lusso a dominare le conversazioni registrate; ci sono anche parole colorite e volgari, riflesso di una cultura politica distorta e corruttibile.

    La lista delle spese di Signorini durante i suoi soggiorni a Monaco è impressionante, con bracciali Cartier, conti al Buddha Bar e molto altro. “Quindi massaggio finale in camera, anche questo ovviamente a scrocco. E hotel di lusso. Bracciali Cartier. Borse di Chanel. Ogni scandalo ha i suoi feticci. E il suo vocabolario.” Ma nonostante la quantità di denaro coinvolto, gli arresti e i sequestri preventivi ordinati dal Tribunale sembrano relativamente modesti.

    Il confronto tra Signorini e Spinelli rivela un mondo di lussi e privilegi, con l’ex vantandosi persino di una carta di credito con un limite di spesa di mezzo milione di dollari. Le parole più frequenti nelle intercettazioni oscillano tra il linguaggio volgare e termini legati alla corruzione e al lusso.

    Ma non è solo la corruzione a dominare il quadro; la parola “interesse pubblico” appare solo una volta nelle intercettazioni, lasciando intravedere la distanza tra la politica e il bene comune.

    In un momento in cui la politica è sotto i riflettori per scandali e corruzione, l’indagine su Toti e i suoi associati offre uno sguardo sconcertante su un mondo di potere, lussuria e mancanza di scrupoli.

    All’interno delle 654 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, emergono dettagli che gettano luce su un mondo di lusso e corruzione. Montecarlo, noto paradiso del gioco d’azzardo, domina la classifica delle parole più citate, con variazioni come Monte Carlo e Monaco, totalizzando ben 857 menzioni. Questo luogo sembra essere la destinazione preferita per i weekend di Signorini, e anche Spinelli non esita a contribuire alle spese, nonostante la posizione pubblica di Signorini come presidente dell’Autorità di sistema portuale della Liguria.

    Al secondo posto per citazioni troviamo una figura enigmatica, “compare”, menzionata 408 volte nelle intercettazioni, ma la cui identità rimane oscura. Tuttavia, il casinò di Monte Carlo si fa strada nelle conversazioni con 182 citazioni, seguito da espressioni colorite come “belin”, ripetute 170 volte, riflettendo il linguaggio volgare e colloquiale utilizzato nelle discussioni.

    Ma non è solo il lusso a catturare l’attenzione delle autorità giudiziarie. Le parole “finalmente arrivano i soldi” si ripetono 167 volte, con riferimento non al valore delle tangenti, ma al costo delle opere da sbloccare con la presunta corruzione. Nonostante la vastità delle spese riportate dall’elenco compilato dai magistrati, che include acquisti come bracciali Cartier e conti al Buddha Bar, il totale contestato si ferma a 74.246,78 euro, dimostrando una relativa modestia rispetto ai grandi scandali del passato.

    Tuttavia, ciò non significa che il lusso e il potere non abbiano lasciato il loro segno. L’elenco delle regalie calcolate dai magistrati fa comunque il suo effetto, con spese certe durante i soggiorni a Monaco che si snocciolano per quattro pagine e mezzo. Il totale da dicembre 2021 ad agosto 2023, contestato nell’atto di accusa, si ferma a 74.246 euro e 78 centesimi: dai 15 euro di bibite al minibar del 10 luglio 2022 ai 7.100 euro del bracciale Cartier comprato venti giorni dopo, passando per i 254 euro di conto del Buddha Bar.

    Le intercettazioni offrono uno sguardo surreale su questo mondo, con Spinelli che si vanta di un’eccessiva spesa con la carta di credito della banca di Monte Carlo, facendo salire il limite di spesa a cinquecentomila dollari. Anche il presidente del porto di Genova sembra essere coinvolto in questo circolo di lusso e corruzione, con esclamazioni come “Un albero di Natale!” che testimoniano una cultura dilagante di eccesso e spreco.

    La successiva parola più citata nelle intercettazioni è “ca**o”, con ben 127 ripetizioni, seguita da “Riesi”, località siciliana che emerge con 122 citazioni. Secondo l’accusa, questa città sarebbe stata coinvolta in pratiche di corruzione legate a favori politici a favore di Giovanni Toti, in cambio di benefici come assunzioni e alloggi popolari.

    Segue poi la parola “massaggio”, con 114 citazioni, incluso il suo plurale, evidenziando un possibile coinvolgimento in attività di lusso e piaceri personali. “Gioco” e “giocare” totalizzano 112 citazioni, mentre “corruzione” emerge con 92 menzioni, sottolineando il tema centrale delle indagini.

    Altre parole rilevanti includono “figlia” (76 citazioni), “carta di credito” (43 citazioni), “regalo” (40 citazioni), “vantaggio” (33 citazioni) e “moglie” (27 citazioni). La connessione tra il mondo mafioso e il lusso è evidente con parole come “mafioso” e “lusso”, citate 21 volte.

    Anche termini come “cosca” (20 citazioni) e “cricca” (12 citazioni) suggeriscono un coinvolgimento in attività illecite e connivenze. L’indagine rivela anche un linguaggio volgare e denigratorio, con parole come “schifo” (10 citazioni) e “troi***” (5 citazioni), utilizzate in contesti offensivi

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      “Il Papa sapeva di poter morire”: il racconto drammatico del medico che l’ha salvato

      Sergio Alfieri, il chirurgo che ha seguito il Pontefice per 38 giorni durante il ricovero d’emergenza al Gemelli, racconta i momenti più critici e le due crisi respiratorie in cui si temeva il peggio. “Disse: non molliamo. Poi offrì la pizza ai medici.”

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        “È brutto”. Così, in un pomeriggio di fine febbraio, Papa Francesco rompe il silenzio mentre fatica a respirare. Siamo al 28 febbraio, e il Pontefice è ricoverato al Gemelli da quattordici giorni. Un broncospasmo lo colpisce all’improvviso, provocandogli fame d’aria. Chiede aiuto.

        “Sì, quello è stato il momento peggiore”, confessa il professor Sergio Alfieri, coordinatore dell’équipe medica che ha curato il Papa per 38 giorni. “Per la prima volta ho visto le lacrime agli occhi ad alcune persone che stavano intorno a lui. Persone che, ho compreso in questo periodo, gli vogliono sinceramente bene, come a un padre. Eravamo tutti consapevoli che la situazione si era aggravata e c’era il rischio che potesse non farcela”.

        A quel punto, il dilemma. “Dovevamo scegliere se fermarci e lasciarlo andare oppure tentare con tutte le terapie e i farmaci possibili, correndo il rischio di danneggiare altri organi. Alla fine abbiamo preso questa strada”.

        Chi decise? “Decide sempre il Santo Padre. Ha delegato ogni tipo di scelta sanitaria a Massimiliano Strappetti, il suo assistente sanitario personale che conosce perfettamente le sue volontà”. Ma Francesco fu chiaro: “Provate tutto, non molliamo”. E nessuno mollò.

        Il Papa era consapevole? “Sì, sempre. Anche nei momenti più gravi era vigile. Quella sera fu terribile. Sapeva, come noi, che poteva non superare la notte. E ha voluto da subito che gli dicessimo la verità”.

        Ci fu un’altra crisi. “Stavamo uscendo dal periodo più duro. Mentre mangiava ha avuto un rigurgito e ha inalato. In questi casi si rischia la morte improvvisa. Fu terribile. Pensammo davvero di non farcela”.

        Francesco, anche in quell’occasione, era lucido. “Ce lo ha detto: si rendeva conto di tutto. Credo che la sua consapevolezza lo abbia tenuto in vita. Mi disse: ‘Ho metodo e regola’. Ha risorse incredibili, oltre a un cuore fortissimo”.

        Il 14 febbraio si convinse a ricoverarsi. “Stava male da giorni, ma resisteva per rispetto degli impegni del Giubileo. Quando cominciò a respirare male capì che non poteva più aspettare. Arrivò sofferente, ma in poche ore aveva già ritrovato il buon umore”.

        E non perse l’ironia. “Una mattina lo salutai: ‘Buongiorno Santo Padre’. Mi rispose: ‘Buongiorno Santo Figlio’. Era il suo modo di dire che si sentiva meglio. Il fisico affaticato, ma la testa è quella di un cinquantenne”.

        Il Papa cercò gli altri pazienti. “Appena si è sentito meglio, ha voluto girare per il reparto. Non voleva che si chiudessero le stanze. Ha cercato gli sguardi degli altri malati. Un giorno è uscito dalla sua stanza cinque volte, forse di più”.

        E poi, la pizza. “Diede dei soldi a un collaboratore e offrì la pizza a chi lo aveva assistito. Quando mi disse ‘Sono ancora vivo, quando torniamo a casa?’, capii che aveva deciso di rientrare. Il giorno dopo si affacciò alla finestra, cercò il microfono e parlò con la signora con i fiori gialli”.

        Il Papa sapeva che alcuni lo credevano morto? “Sì, era informato. E ha reagito con la solita ironia”.

        Che cosa ricorda di più? “Quando, nel periodo più difficile, mi stringeva la mano per qualche minuto come a cercare conforto”.

        Ora il Papa è a casa, ma con prescrizioni: “Due mesi di convalescenza protetta. Deve evitare contatti con gruppi o bambini. Quando è andato via ci siamo promessi di non sprecare la fatica fatta. Ma lui è il Papa: non siamo noi a dettare i comportamenti”.

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          Sic transit gloria mundi

          Quando Benigni smonta il nazionalismo: l’Europa è un sogno, non una minaccia

          Mentre la premier Meloni piega il Manifesto di Ventotene alla sua narrazione, Benigni illumina la prima serata Rai con un monologo potente: l’Unione europea come baluardo contro le guerre e i muri del nazionalismo. Una lezione d’amore e di libertà che spazza via ogni retorica.

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            I sogni hanno sempre quella capacità beffarda di arrivare quando meno te li aspetti. A volte coincidono con la realtà, e a volte la smentiscono. E allora accade che, mentre Giorgia Meloni in Parlamento storce il naso sul Manifesto di Ventotene, come se stesse parlando di una favola scritta per ingenui, Roberto Benigni – in eurovisione, sulla Rai di Stato – restituisce al pubblico italiano e a milioni di cittadini europei la vera grandezza di quel sogno.

            Sì, perché l’utopia di Spinelli, Rossi e Colorni – uomini che la libertà l’hanno immaginata da un carcere fascista – non è una paginetta da archiviare come “retorica da globalisti”. È l’atto di nascita di un’Europa che, tra mille contraddizioni, ha provato a guarire le ferite delle sue guerre e dei suoi totalitarismi. Un’Europa che ha cercato di non farsi più dominare dall’ossessione per la frontiera e dalla paura del diverso.

            Ecco, Benigni l’ha raccontata con la grazia e l’ironia che gli riconosciamo da sempre, ma con il passo fermo di chi sa che questo è il tempo giusto per ricordare certi valori. La Rai, di certo, non aveva calcolato l’effetto di questo tempismo micidiale: da una parte la presidente del Consiglio che legge Ventotene come se fosse un fastidioso documento di altri tempi; dall’altra l’artista che, in prima serata, ribadisce che l’Unione Europea è una delle invenzioni più straordinarie della storia contemporanea.

            Ma il punto non è solo questo. È che l’intervento di Benigni è stato tutto fuorché evasivo: ha messo il dito nella piaga, parlando di nazionalismi che si travestono da patriottismo e di politiche che si nutrono di paure. Ha citato Walter Benjamin e ha ricordato a un Paese assopito che la paura genera le peggiori follie umane. Un comico, sì. Ma qui il clown non faceva ridere: faceva pensare.

            Mentre Meloni, con l’aria di chi deve liberarsi di un fardello ingombrante, liquidava Ventotene come un testo manipolabile a uso e consumo del presente, Benigni ne ha ripreso l’essenza vera: il coraggio di un’Europa federale, capace di unirsi senza violenza, di mettere al centro l’uomo e non solo lo Stato-nazione.

            Non so se in via Teulada fossero davvero consapevoli della portata del messaggio. Forse è stato solo un miracolo del palinsesto. Ma tant’è: il risultato è che ieri sera l’Italia ha ascoltato, seduta davanti alla tv, due narrazioni opposte. Da un lato, la nostalgia per la vecchia fortezza assediata. Dall’altro, l’invito a immaginare ancora l’Europa come un sogno possibile.

            E quando accade questo, quando un artista riesce a fare educazione civica meglio di una lezione scolastica, vuol dire che un pezzo di servizio pubblico – magari a sua insaputa – ha fatto centro. Per una volta, lasciando da parte i siparietti e i fronzoli.

            Benigni non è più da anni quel giullare scatenato che faceva arrossire l’Italia democristiana. Ma oggi, davanti a questa crisi di valori collettiva, riesce ancora ad accendere le luci dove altri si limitano a spegnerle. E chissà che, tra i sorrisi e l’emozione, qualcuno ieri non abbia finalmente capito perché Ventotene è tutto fuorché carta straccia.

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              Tesla sotto assedio: incendi, svastiche e boicottaggi. È bufera mondiale su Musk, “l’imperatore dell’autogol”

              Dopo l’Oregon, anche Francia, Paesi Bassi e Australia si ribellano. Sui social piovono accuse di “fascismo” contro Elon Musk. Intanto il titolo crolla e le vendite in Europa registrano un tonfo senza precedenti. E persino i suoi stessi dipendenti lo sfidano in fabbrica

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                Tesla è sotto attacco. Non solo a parole, ma con gesti eclatanti. Scritte violente, auto imbrattate o incendiate e persino bombe molotov: la protesta globale contro Elon Musk e le sue “nazi-car”, come ormai vengono ribattezzate da chi le contesta, ha assunto le sembianze di una vera e propria guerriglia. E no, questa volta non si tratta di qualche flame su X, il social di Musk, ma di una catena di episodi concreti, tra Stati Uniti, Australia ed Europa.

                Tutto comincia il 20 gennaio a Salem, Oregon, dove un concessionario Tesla viene attaccato nel cuore della notte. Bottiglie incendiarie vengono lanciate contro le vetrine e le auto esposte. I danni superano il mezzo milione di dollari. Ma è solo l’inizio: da quel momento i raid si susseguono uno dopo l’altro, tra incendi dolosi, pneumatici rubati e auto Tesla imbrattate con escrementi, vernice rossa e insulti che evocano il nazismo.

                Le immagini delle Tesla marchiate con svastiche o imbrattate di fango e formaggini fanno il giro del mondo. A Seattle vanno in fumo quattro Cybertruck; a Tigard, ancora in Oregon, vengono esplosi colpi d’arma da fuoco contro uno showroom. In Australia compare su una vetrina la scritta «vuoi davvero guidare una swasticar?»; in Olanda, il messaggio è ancora più esplicito: «Fuck off fascist». A Tolosa, in Francia, vengono incendiate una dozzina di Tesla parcheggiate fuori da un concessionario.

                Ma la bufera non si ferma qui. Elon Musk, nel frattempo, sembra fare di tutto per buttare benzina sul fuoco. Su X arriva l’ennesimo scivolone: un post che solleva Hitler, Stalin e Mao dalle responsabilità delle loro stragi, attribuendole ai burocrati. Una provocazione che rinfocola le critiche e alimenta la rabbia dei contestatori. “Musk si vanta di poter spegnere Starlink con un bottone, davvero gli lascereste in mano anche la vostra auto?”, scrivono in molti sotto l’hashtag #boycottTesla. E sui social, insieme al meme del “Musk con la mano tesa”, spunta pure lo slogan più ripetuto dai contestatori: «Non comprare una nazi-car».

                Nel frattempo, anche dentro Tesla le cose vanno male. Nella gigafactory di Berlino il sindacato IG Metall denuncia pratiche scorrette da parte dell’azienda che chiederebbe ai dipendenti di rivelare informazioni private sulle malattie, violando la loro privacy. Un ulteriore scossone per un’azienda in difficoltà.

                Il conto? Salato. Da inizio 2025, le azioni Tesla hanno perso oltre il 40% del valore, scendendo bruscamente dopo i record toccati a dicembre. Il mercato europeo è in caduta libera: -76% di vendite in Germania a febbraio, -45% in Francia, -42% in Svezia. In Cina le consegne sono precipitate del 49%. La nuova Model Y non basta a risollevare le sorti del marchio e l’immagine di Musk, tra accuse di autoritarismo e autogol comunicativi, sembra più offuscata che mai.

                Ora anche le strade si ribellano. Gli showroom diventano bersagli e le Tesla parcheggiate finiscono nel mirino di chi non sopporta più l’impero Musk. Un imperatore senza festa, che rischia di veder evaporare il suo regno elettrico sotto il peso di un boicottaggio globale.

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