Sic transit gloria mundi
Trump contro Harris: l’America sceglie, l’Italia come al solito si spacca (e il governo Meloni trema)
Le elezioni americane scuotono la politica italiana, e la spaccatura è evidente: Meloni cerca di mantenere una facciata diplomatica ma resta schiacciata tra le simpatie atlantiste e il tifo trumpiano. Salvini non si contiene e sogna un ritorno di The Donald, mentre Tajani rimane neutrale. E anche l’opposizione non sfugge alla confusione: Schlein e Conte parlano lingue diverse, e il centrosinistra appare sempre più frammentato.

Con le elezioni americane alle porte, l’Italia guarda oltreoceano ma sembra scorgere il proprio riflesso. Trump e Harris, in gara per la Casa Bianca, sono lontani, ma mai così vicini: se in America si vota per il futuro della nazione, in Italia il test si trasforma in un banco di prova per il governo Meloni. E le crepe sono impossibili da ignorare. Giorgia Meloni, divisa tra l’atlantismo istituzionale e un passato di simpatia per The Donald, cerca di mantenere l’equilibrio, sventolando il vessillo della prudenza. Salvini, invece, non usa mezzi termini e tifa Trump senza remore, proclamandosi paladino della sovranità contro l’“ingerenza” americana: il ritorno di The Donald, ai suoi occhi, è la risposta a un’Italia che ha bisogno di ricalibrare la bussola.
In tutto questo, Tajani recita la parte dell’equilibrista, perfettamente neutrale, cercando di smorzare le tensioni senza perdere punti. A mettere tutti sull’attenti arriva infine il monito di Mattarella, che invita a non farsi dettare l’agenda da oltre oceano. Il presidente difende l’autonomia italiana con parole inequivocabili, ma il messaggio è chiaro: Roma non può permettersi di ondeggiare sulle questioni internazionali.
Il centrosinistra, però, non se la passa meglio: Elly Schlein, leader del PD, si schiera con Harris, ma senza grande convinzione, mentre Giuseppe Conte sceglie la via dell’ambiguità, lontano dalle posizioni americane ma senza sposare neppure Trump. E nel Terzo Polo Renzi e Calenda guardano agli Stati Uniti con un occhio pragmatico, ma lo fanno separatamente. Il voto di domani sarà pure americano, ma l’Italia sembra già immersa nel suo riverbero: le alleanze sono fragili, i partiti litigano, e la politica italiana dimostra, ancora una volta, di non saper camminare in linea retta quando si tratta di affari esteri.
Meloni: l’Atlantista dai piedi di piombo
La Meloni di oggi è una leader a tutto tondo, che ha appreso l’arte della diplomazia con un pragmatismo che stride con il fervore trumpista del passato. La sua posizione verso Harris è di una compostezza quasi istituzionale, molto distante dalle simpatie verso Trump che esprimeva con entusiasmo appena quattro anni fa. La leader di Fratelli d’Italia, pur trovandosi alla guida di un partito che ha sempre visto con favore le politiche di Trump, ha ora scelto di adattarsi al campo democratico, intrecciando alleanze in difesa di Taiwan, sostenendo l’Ucraina e firmando protocolli sul cambiamento climatico. Con il capo del governo italiano al fianco di Biden, l’intera retorica sovranista si stempera: la Meloni di oggi sembra più interessata alla stabilità e all’alleanza transatlantica che a cavalcare onde populiste.
Le contraddizioni, tuttavia, sono evidenti. Dai tempi della sua dichiarazione pro-Trump come “patriota italiana” alle recenti sintonie con Biden – e quindi con Harris – il percorso di Meloni sembra testimoniare un cambiamento strategico che riflette l’evoluzione politica dell’Italia: un Paese che non può permettersi la tentazione isolazionista e guarda a un quadro internazionale più strutturato. Anche figure come Italo Bocchino, vicino a Meloni, vedono con perplessità un Trump rilanciato su posizioni isolazioniste, difficilmente compatibili con un’Italia sempre più impegnata in un’alleanza atlantica convinta.
Salvini: il trumpista a oltranza
Se Meloni ha adottato il linguaggio della diplomazia, Matteo Salvini ha preso come al solito una strada più teatrale, incarnando con entusiasmo la figura del trumpista italiano. Salvini non solo non nasconde la sua preferenza, ma la ostenta: definisce Biden “il peggior presidente degli Stati Uniti”, difende senza riserve i valori “patriottici” dei repubblicani e approva in pieno le loro politiche, soprattutto quelle su famiglia, sicurezza e immigrazione.
Per Salvini, Trump rappresenta un simbolo di libertà e patriottismo che riecheggia la figura di Silvio Berlusconi, secondo lui perseguitato politicamente come l’ex presidente americano. Mentre la Meloni, prudente, evita di prendere una posizione netta, Salvini va dritto al punto: Trump, agli occhi del “Capitano”, è il leader che potrebbe restituire agli Stati Uniti e all’Occidente una nuova identità di destra.
Per l’Italia e il governo, però, questa posizione finisce per creare frizioni. La passione di Salvini per Trump potrebbe complicare il delicato equilibrio diplomatico della maggioranza. Mentre il capo della Lega vola a Washington per partecipare alla campagna elettorale di Trump, la tensione tra le posizioni atlantiste di Meloni e quelle filotrumpiane di Salvini rischia di diventare esplosiva.
Tajani: l’equilibrista che non si sbilancia
In questo scacchiere internazionale, Antonio Tajani gioca il ruolo dell’equilibrista. Incaricato di tessere relazioni con entrambi gli schieramenti americani, Tajani ha scelto un basso profilo, dichiarando di voler mantenere rapporti solidi con gli Stati Uniti indipendentemente dall’esito elettorale. Ma le sue dichiarazioni pubbliche celano una sottile critica a Trump: l’ex presidente non è mai stato un “punto di riferimento” per Forza Italia, un partito che, con Berlusconi, si è sempre mantenuto su posizioni più europeiste e moderate.
Il pragmatismo di Tajani si riflette in una politica estera che non si sbilancia. Tra una frase sibillina e una stretta di mano, il ministro degli Esteri si muove tra le diverse posizioni della maggioranza senza rimanerne ingabbiato. In questo contesto, Tajani appare come un funambolo che cerca di non farsi travolgere dalle dinamiche di potere e dalle tensioni interne, rispettando l’equilibrio senza sbilanciarsi. La sua prudenza è una scelta calcolata, ma non priva di sfide: l’equilibrio che cerca di mantenere diventa ogni giorno più difficile, mentre gli scontri tra Meloni e Salvini continuano ad acuirsi.
L’opposizione: il fronte (non tanto) unito
Se la maggioranza ha le sue divergenze, anche l’opposizione non se la passa meglio. Nel Partito Democratico, Elly Schlein sostiene fermamente Kamala Harris, definendo Trump una “minaccia” per l’Europa. Ma all’interno della coalizione le cose non sono così lineari: Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, mantiene una posizione più ambigua, riflettendo un’identità progressista che, secondo lui, non può dipendere dalla politica americana.
Il Terzo Polo, rappresentato da Matteo Renzi e Carlo Calenda, sostiene a sua volta l’amministrazione democratica, con un occhio critico verso Trump ma senza un entusiasmo troppo evidente per Harris. I centristi vedono in Biden una figura con cui mantenere buoni rapporti, pur adottando un approccio europeista e moderato che li distingue dalla sinistra tradizionale. Anche la sinistra radicale e i Verdi sono divisi: Nicola Fratoianni critica duramente Trump ma non riesce a esprimere lo stesso entusiasmo per Harris, rimanendo su posizioni di una sinistra che guarda alla Francia piuttosto che agli Stati Uniti.
Il monito di Mattarella: autonomia e interesse nazionale
In questo clima di divisione e incertezze, risuonano le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Durante la cerimonia del Ventaglio, Mattarella ha lanciato un messaggio chiaro: “L’Italia e i suoi alleati sostengono l’Ucraina per difendere la pace, non per dettare l’agenda al di là dell’oceano.” Il presidente ha rimarcato l’importanza di mantenere una linea autonoma, ribadendo che le decisioni dell’Italia devono basarsi su principi costituzionali e sull’interesse nazionale, senza farsi condizionare da simpatie o antipatie estere.
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Sic transit gloria mundi
Il Senato salva Sangiuliano dal processo per la “chiave di Pompei”: 112 voti bastano a fermare l’accusa di peculato
Il caso ruotava attorno al simbolico omaggio di Pompei finito in un regalo privato. La Giunta per le immunità ha riconosciuto l’atto come compiuto nell’interesse pubblico e non come reato ordinario. I legali dell’ex ministro ricordano che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che la chiave era stata acquistata e pagata, diventando sua proprietà.

Palazzo Madama ha fatto scudo all’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, bloccando il processo per peculato che rischiava di aprirsi attorno alla “chiave d’onore” di Pompei. Con 112 voti favorevoli e 57 contrari, l’aula del Senato ha respinto l’autorizzazione a procedere, accogliendo la linea della Giunta per le immunità: il gesto di donare la chiave a Maria Rosaria Boccia non costituirebbe reato ordinario, ma un atto riconducibile all’esercizio della funzione di governo e al perseguimento di un interesse pubblico preminente.
La vicenda aveva incuriosito l’opinione pubblica nei mesi scorsi, trasformandosi in un caso mediatico: la chiave, simbolo del legame con la città archeologica, era stata regalata dall’ex ministro a una conoscente, scatenando polemiche e sospetti di appropriazione indebita. I difensori di Sangiuliano hanno sempre sostenuto la piena legittimità dell’operazione, ricordando che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che, tramite la procedura prevista dalla legge, l’ex ministro aveva acquistato e pagato l’oggetto, diventandone il proprietario a tutti gli effetti.
Il voto in aula è arrivato dopo una giornata di interventi accesi, tra ironie e schermaglie politiche. Il leghista Gian Marco Centinaio ha scherzato in diretta: «Lasciamo i colleghi nella suspense… Sim Salabim!», strappando un sorriso in un dibattito altrimenti teso.
Non solo Sangiuliano: nella stessa seduta, Palazzo Madama ha affrontato altre questioni di immunità parlamentare. Maurizio Gasparri ha incassato il via libera dell’aula sulla sua insindacabilità per le frasi rivolte al magistrato Luca Tescaroli nel 2023, giudicate collegate ad atti parlamentari come interrogazioni e interventi in aula. A favore hanno votato 117 senatori, mentre 23 – tra M5s e Avs – hanno detto no.
Sic transit gloria mundi
“Comunisti no, gay solo se non sculettano”. Il delirio dello chef stellato in cerca di personale
Dalla nostalgia per la cucina “da caserma” agli insulti ai giovani cuochi, passando per i tatuaggi di Mussolini e la svastica: lo chef stellato Paolo Cappuccio racconta il suo personale concetto di rigore. Un concentrato di luoghi comuni, rancore sociale e arroganza padronale condito da accuse pesanti e zero autocritica.

C’è chi usa i social per condividere piatti e ricette. E poi c’è Paolo Cappuccio, chef napoletano classe 1977, che ha preferito farlo per pubblicare un post a metà tra la bacheca fascistoide e lo sfogo da bar sport. Il testo – rimosso dopo insulti e minacce di morte – vietava l’assunzione di «fancazzisti, comunisti, drogati, ubriachi e per orientamento sessuale». E ora lo chef stellato, lungi dal fare marcia indietro, rivendica ogni parola.
«Da dopo il Covid i dipendenti fanno quello che vogliono», attacca. «Un cuoco arriva in ritardo e ti dice che se non ti va bene se ne va. Lo riprendi? Si mette in malattia. E il medico lo giustifica pure». Il quadro che dipinge è quello di un’Italia dove gli chef sono martiri e gli stagisti dei ricattatori seriali. Ma per Cappuccio la colpa non è solo dei giovani. È dei “comunisti”.
«Il dipendente comunista lo riconosci subito», assicura con inquietante certezza. «Si lamenta della mensa, vuole sapere la tredicesima prima ancora di iniziare. Quelli di destra invece sono operosi e vogliono diventare titolari. La differenza è abissale». E pazienza se nel 2025 parlare così significa semplicemente fare propaganda da osteria.
Poi ce l’ha con MasterChef, i “cuochi cocainomani del Nord”, i dipendenti con le “devianze sessuali”. E con chi? Con chi osa presentarsi col “pantalone calato” o, peggio, «con i tacchi a sculettare in cucina». Come si distingue, secondo lui, un gay accettabile da uno “sbagliato”? Non lo dice, ma lo fa capire. La linea è sottile, quanto una padella sporca: «Se sei serio e lavori, sei dei nostri. Altrimenti, no».
Quando si parla dei tatuaggi – Mussolini, svastica, Altare della Patria – si passa dal ridicolo al tragico. «Se vietano la falce e martello mi cancello la svastica», dice con candore. «Per me è solo una protesta». Non contro la storia o i crimini del nazismo, ma «contro i radical chic che parlano di poveri e poi vanno in Costa Azzurra». Applausi. Ironici.
«Siamo schiavi dei dipendenti», si lamenta ancora. Una frase che detta da un datore di lavoro suona quanto meno surreale, se non offensiva. Ma l’uomo non fa una piega. Anzi, rilancia: «Nel mio albergo ho beccato anche un pedofilo. Ma non l’ho potuto licenziare. Giusta causa? Non esiste».
Che lo chef abbia avuto esperienze negative con parte del suo personale non è in discussione. Che la sua risposta sia un mix di disprezzo sociale, semplificazioni ideologiche e pregiudizi sessisti, purtroppo neppure. Se i giovani cuochi fuggono da brigate tossiche, forse una riflessione servirebbe. Ma a Cappuccio non interessa. Troppo impegnato a contare i “like” tra nostalgici e reazionari.
E, si spera, a cancellare le prenotazioni di chi, la roba cucinata da uno chef così, non vuole neppure annusarla da lontano.
Sic transit gloria mundi
Da Sanremo al Circo Massimo, passando per Springsteen: il vero tour dell’estate è quello di Elly Schlein
La segretaria del Pd beccata a San Siro con la compagna Paola Belloni per il concerto di Springsteen. Applausi, selfie (mai pubblicati) e un messaggio chiaro: Elly è ovunque, tranne che dove dovrebbe esserci. E cioè, sul fronte dell’opposizione.

Mentre la destra impone l’agenda e il Paese affoga tra crisi economiche, follie trumpiane e guerra internazionali, Elly Schlein canta “Born to Run” sotto il palco di Bruce Springsteen, abbracciata alla sua compagna Paola Belloni. Una serata da “coppia dem rock” come la chiamano i fan, tra le star di Hollywood e i soliti influencer italiani. Solo che lei non è un’influencer. O non dovrebbe esserlo.
La segretaria del Pd è stata avvistata a San Siro mentre si godeva tre ore di rock e sudore con il “Boss”, circondata da Gigi Hadid, Bradley Cooper e Olivia Wilde. Con lei, la sua compagna storica, Paola Belloni, che a fine serata ha condiviso su Instagram un post pieno di entusiasmo: «Bruce ha cantato, ballato, urlato per tre ore. Steve, operato da quattro giorni, ha suonato con lui. Io, 36 anni, sto abbracciata al Voltaren perché ero sottopalco».
Ecco, forse è lì il problema: sottopalco. Sempre lì. Perché Schlein sembra vivere ormai perennemente in una tournée parallela. Dopo i duetti con Annalisa al Pride, il freestyle con J-Ax, il karaoke sanremese, le cover dei Cranberries alla Festa dell’Unità e i video da fangirl per Brunori, il suo Pd sembra più un fan club che un partito d’opposizione.
Che Schlein sia appassionata di musica è noto. Suona la chitarra, si diverte, ha gusti indie e mainstream. Ma c’è chi, tra i suoi stessi elettori, comincia a chiedersi se abbia ben chiaro che la politica non è una scaletta da concerto. La sua compagna chiede rispetto per la privacy — giustamente — ma Elly sotto i riflettori ci si piazza con entusiasmo. Tranne quelli del Parlamento.
Nel frattempo, Fratelli d’Italia avanza, Maloni governa, e l’opposizione viene affidata a una “story” su Instagram o a una pagella social post-Sanremo. I fan saranno anche felici. Gli elettori un po’ meno. Perché se la Schlein non capisce che la sua missione non è ballare coi Boss, ma suonarle alla destra, allora qualcuno dovrebbe suggerirle che forse è arrivato il momento di cambiare palco.
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