Sic transit gloria mundi
Trump e Musk ai ferri corti: lo scazzo tra il tycoon e il miliardario ketaminico
Il presidente USA e il fondatore di Tesla erano destinati a scontrarsi: troppe divergenze su TikTok, intelligenza artificiale e politica estera. Ora Trump flirta con Bill Gates e Starmer, mentre Musk si ritrova fuori dalla stanza dei bottoni.

Meno di dieci giorni di presidenza sono bastati a Trump per far esplodere la tensione con Elon Musk. Dalla vendita di TikTok a Microsoft alla regolamentazione di X nel Regno Unito, passando per il mega-progetto sull’intelligenza artificiale, i due si stanno scannando su tutti i fronti. E mentre Musk prova a infiltrarsi nella politica globale, Trump lo ha escluso dalla West Wing e si tiene buono il premier britannico Starmer.
Musk e Trump, due ego smisurati, due visioni del mondo che sembravano potersi incrociare, almeno nel nome del populismo digitale. E invece, dopo meno di dieci giorni di presidenza, tra il nuovo inquilino della Casa Bianca e il miliardario con tendenze ketaminiche è scoppiata la guerra. Una battaglia che si gioca su almeno tre fronti: TikTok, intelligenza artificiale e politica internazionale.
La prima grande frattura tra i due riguarda il social cinese. Se durante il suo primo mandato Trump era ossessionato dall’idea di bannarlo, oggi ha cambiato idea: TikTok è stato uno strumento fondamentale per la sua rielezione, conquistando il voto dei più giovani, e il tycoon non ha alcuna intenzione di rinunciarvi. Il Congresso ha approvato un bando bipartisan, ma Trump ha subito firmato un ordine esecutivo per prendere tempo e trovare un acquirente americano. Musk si è fatto avanti, sperando di mettere le mani sulla piattaforma, ma il presidente ha preferito rivolgersi altrove.
La scelta è ricaduta su Microsoft, con Bill Gates che ha dato il via libera all’operazione insieme al CEO Satya Nadella. Un colpo basso per Musk, che con Gates ha un rapporto pessimo, fatto di accuse reciproche e insulti sui social. Il fondatore di Tesla, sempre pronto a dare lezioni sul cambiamento climatico, aveva accusato Gates di non investire in auto elettriche, mentre il padre di Microsoft ha replicato definendolo “un miliardario fuori controllo che usa la sua influenza per destabilizzare i governi”. Ora Gates, grazie a Trump, si prende una rivincita colossale, facendo di Microsoft l’unico gigante tech americano con un social di rilievo.
Ma non è solo TikTok a dividere i due. Anche l’intelligenza artificiale è un terreno di scontro. Musk voleva un posto di rilievo nella strategia USA sull’AI, ma Trump ha preferito puntare su Sam Altman, fondatore di OpenAI ed ex socio di Musk, con cui i rapporti sono finiti malissimo. Il nuovo mega-progetto Stargate, che prevede investimenti colossali nei data center, sarà guidato da Altman, Larry Ellison di Oracle e Masayoshi Son di SoftBank. Musk è rimasto fuori dai giochi e si è sfogato su X, deridendo Altman e mettendo in dubbio la fattibilità del piano. Ma la risposta di Altman è stata secca: “Ciò che è grande per l’America non è sempre ottimale per le tue aziende. Prova a pensare più in grande.”
E poi c’è la politica internazionale. Qui Musk sta giocando sporco, cercando di destabilizzare governi che minacciano i suoi interessi. Il primo nemico dichiarato è Keir Starmer, il premier britannico, colpevole di voler introdurre una regolamentazione più stringente per i social network, a partire proprio da X, che sotto Musk è diventato un ricettacolo di fake news e propaganda. Il miliardario ha scatenato una campagna diffamatoria contro Starmer, arrivando perfino ad associarlo a un presunto scandalo legato alla pedofilia.
Ma Trump ha sorpreso tutti. Durante un volo sull’Air Force One, ha detto ai giornalisti: “Sta facendo un buon lavoro”, riferendosi proprio al leader laburista. Una frase che ha mandato Musk su tutte le furie e che lascia intendere che il presidente voglia coltivare un rapporto con Londra. La ragione è semplice: i dazi contro l’Europa. Trump ha già annunciato tariffe contro Messico, Canada e Colombia, mentre con l’UE ha usato solo minacce. Il motivo? Prima di scatenare una guerra commerciale con Bruxelles, vuole discutere con Londra e capire se può trovare una sponda per danneggiare l’Europa senza trascinare il Regno Unito nel caos economico.
Musk si trova così tagliato fuori dalla Casa Bianca. Non ha ottenuto l’acquisto di TikTok, è stato escluso dal piano AI, non ha una sponda con Trump sulla questione UK e non ha nemmeno ricevuto l’ufficio che sperava nella West Wing. L’architetto di questa esclusione è Susie Wiles, capo di gabinetto di Trump, soprannominata “Ice Baby” per la sua freddezza. Sarebbe stata lei a bloccare le ambizioni di Musk, vedendo in lui solo un problema.
Il mondo repubblicano, quello più vicino a Trump, si sta sempre più allontanando dal miliardario sudafricano. Steve Bannon, il guru della destra sovranista, ha più volte definito Musk “un globalista che gioca sporco con la Cina”, un’accusa che pesa nell’America trumpiana, sempre più ostile a Pechino.
Trump, dal canto suo, ha capito che Musk è un alleato troppo ingombrante e imprevedibile. Finché gli serviva la sua influenza su X, l’ha tenuto vicino, ma ora, con il potere in mano, ha deciso di scaricarlo. Il miliardario ha perso il suo accesso privilegiato alla politica americana e, per quanto possa provare a vendicarsi via social, la realtà è che senza l’appoggio della Casa Bianca rischia di diventare solo un altro magnate tech con manie di grandezza.
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Sic transit gloria mundi
Selfie col Papa morto. Scusate, ma non meritiamo nemmeno l’Apocalisse
Non bastavano le dirette, i microfoni puntati ai passanti, le lacrime prefabbricate davanti alla Basilica. Adesso c’è anche la fila per il selfie col cadavere. Non per un saluto, non per pregare. Ma per “condividere l’esperienza” come se fosse un brunch con vista cupola. Ché se non lo posti, non è morto nessuno.

Un cadavere al centro della scena. Un corpo santo, riverito, amato, che ha guidato la Chiesa per oltre un decennio. E attorno, come mosche sul sacrario, si muove un’umanità deformata, irreversibilmente corrotta dal culto dell’apparenza. Altro che pellegrinaggio. Altro che raccoglimento. È la sagra del selfie post mortem.
Il Papa è morto, viva il contenuto. Si entra in Basilica non per fede, ma per feed. Si sfila davanti alla salma di Francesco come in un’attrazione macabra da Luna Park liturgico, con decine di telefonini spianati, schermi accesi, occhi lucidi non per commozione ma per la saturazione dello schermo. Un addetto ogni metro bisbiglia “no foto, no video”, come un mantra disperato. Nessuno lo ascolta.
Ci sono ragazze in posa con la boccuccia da duck face, signore che si immortalano col fazzoletto all’occhio, padri che riprendono i figli davanti al feretro come se fosse la giostra dei cavallini. C’è chi azzarda uno zoom, chi aggiusta la luce, chi chiede a un passante di scattare meglio. Come se dietro non ci fosse un Pontefice, ma una statua di cera da Madame Tussauds.
È questo il nuovo culto: il cordoglio condiviso in stories da 15 secondi, magari con sottofondo musicale. “Ciao Francesco, mi mancherai 😢🙏” – emoji, filtro seppia, hashtag #PapaForever. Una preghiera non detta, ma taggata.
Intorno, i microfoni delle tv infilano il naso ovunque, cacciando frasi da trafiletto e lacrime usa e getta. “Cosa significava per lei Papa Francesco?” chiede una giornalista con lo stesso tono con cui a Riccione ti domandano “Che crema prendi sul cono?”. La risposta è sempre uguale: “Un padre, un faro, un vuoto incolmabile”. Come se il dolore avesse un copione.
Nel frattempo, chi ha superato il cordone delle troupe diventa a sua volta reporter di sé stesso. Impugna il telefono, si gira verso la camera, e immortala il momento più sacro e intimo di tutta la liturgia cristiana con la naturalezza di un ragazzino al concerto di Ultimo.
E allora via alla processione di immagini: la salma, lo sfondo, il volto commosso ma ben inquadrato. Si fotografa il lutto, si monetizza l’assenza. Si incornicia la morte per mostrare che c’eravamo, che anche noi abbiamo visto, scattato, condiviso. Un’ostensione di narcisismo planetario, con la scusa della fede.
Questo non è il funerale di un Papa. È il reality della nostra fine culturale. Il rogo dell’intimità, il tracollo del senso, l’ultima unzione del buon gusto. Non siamo più nemmeno capaci di tacere davanti a un morto, figuriamoci se possiamo capire cosa sia il sacro. La sola liturgia che conosciamo è quella del pollice sullo schermo.
Davvero: che razza di umanità siamo diventati, se ci sentiamo in diritto di fare la gallery anche col pontefice defunto alle spalle? Dove pensiamo di arrivare con la nostra smania di esserci, anche nel lutto, anche nel dolore, anche davanti alla morte?
Forse non ci meritiamo nemmeno l’Apocalisse. Forse meritiamo solo noi stessi. Con i nostri filtri, i nostri telefoni, i nostri selfie davanti all’Altissimo. Letteralmente.
Sic transit gloria mundi
Editoriale: Caro Vance, Dio non costruisce muri
Dal pranzo con Meloni ai riti di Pasqua, JD Vance si presenta come il volto nuovo del conservatorismo Usa. Ma sotto la superficie devota resta il marchio di un populismo aggressivo che inneggia alla chiusura e alla discriminazione.

Caro vicepresidente Vance,
le abbiamo viste le foto con San Pietro sullo sfondo, le frasi a effetto sullo “spirito umano che si innalza” e il sorriso soddisfatto immortalato tra un rigatone alla gallinella di mare e un selfie davanti a Castel Sant’Angelo.
Abbiamo letto anche i suoi tweet carichi di devozione e ammirazione per Roma, “costruita da persone che amavano Dio e l’umanità”.
Belle parole, davvero. Peccato che suonino tremendamente vuote, dette da chi nella pratica politica costruisce muri, non ponti.
Perché vede, signor Vance, Dio — almeno quello predicato da quella Chiesa che lei tanto cita — non si è mai occupato di respingere disperati né di sospettare dei diversi.
Dio non ha chiesto ai suoi fedeli di barricarsi dietro una cultura monolitica, né di temere la libertà di pensiero.
Dio, nella narrazione evangelica, accoglie, non divide.
Un concetto semplice, che però sembra essersi perso nei meandri della sua agenda politica.
Mentre in Italia ammiccava sorridente a Giorgia Meloni e riceveva l’applauso dei nostri vicepremier Salvini e Tajani, negli Stati Uniti lei porta avanti una visione del mondo che sa di epoche che credevamo sepolte:
- Libertà di parola sì, ma solo per chi la pensa come lei.
- Famiglia tradizionale sì, ma senza spazi per chi vive diversamente.
- Occidente da salvare sì, ma difendendolo con la paura e la chiusura.
Lei si presenta come il paladino dei valori cristiani, ma si scaglia contro l’immigrazione, contro i diritti delle minoranze, contro la cultura del rispetto.
In nome di che cosa? Di un’idea di “ordine naturale” che sembra più vicina al darwinismo sociale che alla carità cristiana.
Non sfugge a nessuno, poi, il tempismo perfetto della sua visita romana: Pasqua, San Pietro, riti solenni.
E magari, chissà, un incontro con il Papa, se le agende lo permetteranno.
Un Papa che, ogni volta che apre bocca, sembra predicare esattamente il contrario di quello che lei incarna: apertura, accoglienza, dialogo, misericordia.
Le sue parole, caro Vance, parlano di Dio.
Ma i suoi atti parlano di paura.
Le sue foto raccontano una fede plastificata, da social network, che nulla ha a che vedere con l’amore per il prossimo.
Quel prossimo che, nei suoi discorsi, è sempre una minaccia da respingere, mai un fratello da abbracciare.
La verità, signor vicepresidente, è che non basta camminare in Vaticano per essere cristiani.
Non basta commuoversi davanti a una basilica per redimersi da un’agenda politica costruita sull’esclusione e sull’odio mascherato da valori.
Forse, la prossima volta che visiterà Roma, dovrebbe fermarsi davvero un momento.
E magari ricordarsi che, in quella città che tanto ammira, la parola “cattolico” significa “universale”.
Non “nostro”, non “di chi ce lo merita”, non “di chi rientra nei nostri parametri”.
Universale.
E Dio, per fortuna, resta di tutti.
Anche di quelli che lei vorrebbe lasciare fuori dalle sue mura immaginarie.
Buon viaggio di ritorno, Mr. Vance.
E se trova il tempo, magari, provi anche a costruire qualche ponte vero.
Ne abbiamo tutti un disperato bisogno.
Sic transit gloria mundi
Trump ribattezza Giorgia Meloni: “Georgia”, come lo Stato. Altro che alleanza speciale
Meloni vola alla Casa Bianca sognando l’asse sovranista, ma finisce archiviata da Trump come “Georgia”. Un errore? O il solito modo di umiliare gli interlocutori senza nemmeno sforzarsi di ricordare come si chiamano?

Tanto entusiasmo, tante strette di mano, tanti sorrisi. E alla fine, Giorgia Meloni è diventata… Georgia.
Donald Trump, fedele alla sua tradizione di finezza diplomatica, ha deciso di archiviare così l’incontro alla Casa Bianca: un post euforico su Truth in cui ribattezza la premier italiana con il nome di uno Stato americano. Una nuova perla per il tycoon, che dopo “Giuseppi” Conte firma un’altra memorabile gaffe da album.
«La premier Georgia Meloni ama il suo Paese. FANTASTICA!!!», scrive Trump, regalando alla storia la nuova caricatura di un rapporto che avrebbe dovuto sancire l’alleanza tra due campioni del sovranismo mondiale.
Ma che, a ben vedere, si è risolta come sempre in una scrollata di spalle americana: grazie del viaggio, cara, e ora vai a sistemarti nella collezione di “cosi” che ho incontrato.
Il paragone è inevitabile. Quando non ti ricordi il nome dell’amico del bar, lo chiami “coso”. Quando Trump non si ricorda (o non si sforza di ricordare) il nome di un capo di governo, lo ribattezza a piacere. E la leggerezza con cui liquida i suoi interlocutori non è mai casuale: è un modo per ribadire, senza troppi complimenti, chi conta davvero e chi invece no.
Giorgia, pardon, Georgia, si è presentata piena di buone intenzioni: dialogo transatlantico, negoziati sui dazi, mediazione con l’Unione europea. Peccato che, agli occhi di Trump, il suo destino si sia compiuto in cinque secondi netti: sorrisi, foto di rito, complimenti generici («una persona molto speciale»), e infine l’assegnazione del nuovo nome da battaglia.
Un destino comune a tutti quelli che orbitano, più o meno inconsapevoli, nell’universo egocentrico del tycoon.
E se Giuseppe Conte ha pagato “Giuseppi” con anni di scherni e meme, prepariamoci: “Georgia Meloni” diventerà il tormentone perfetto per gli avversari politici, i social, e magari anche per qualche editorialista poco incline all’ossequio.
Il più grande paradosso? Giorgia Meloni era partita per Washington con il sogno di essere riconosciuta come interlocutrice privilegiata della nuova destra americana. È tornata a casa con un nome nuovo, e nemmeno troppo originale.
Difficile costruire un asse sovranista quando il tuo presunto alleato non ti riconosce nemmeno al momento di taggare il post celebrativo.
Nel frattempo, Trump — che della politica internazionale ha la stessa visione con cui si sceglie il menù di un fast food — continua a inanellare lapsus che sono in realtà piccoli atti di dominio. Se ti chiamo con il nome sbagliato, dice implicitamente, non sei poi così importante.
E allora, che la premier italiana si chiami Giorgia, Georgia o semplicemente “coso”, poco importa: l’importante è aver fatto la foto, aver raccolto gli applausi dei sostenitori e aver confermato, ancora una volta, che tra Washington e Roma la distanza non è solo geografica.
È anche — e soprattutto — gerarchica.
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