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Sic transit gloria mundi

Zuckerberg si toglie la maschera: Meta abbandona inclusione e diversità per superare (a destra) Elon Musk nei favori di Trump

Con la chiusura dei programmi di diversità e l’allineamento alla nuova amministrazione americana,
Meta abbandona la sua storica bandiera di pari opportunità e inclusione. Zuckerberg rinnega i valori che
aveva dichiarato di voler difendere e si posiziona persino più a destra di Musk, mettendo Facebook e
Instagram al servizio del potere politico.

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    Mark Zuckerberg, quello che un tempo si dipingeva come il profeta dell’inclusione e del progresso, ha deciso di gettare la maschera. Dopo anni passati a vendere l’immagine di un visionario illuminato, il bravo ragazzo di Silicon Valley ha sacrificato ogni principio dichiarato per saltare sul carro di Donald Trump superando a destra persino l’eterno rivale Elon Musk. Dopo l’eliminazione del fact-checking negli Stati Uniti, un regalo confezionato su misura per il ritorno del tycoon alla Casa Bianca, Meta ha annunciato la cancellazione dei programmi di diversità, equità e inclusione (Dei), dimostrando che tutti i discorsi sulla responsabilità sociale erano, in fondo, solo marketing. Insomma, Zuckerberg ora mostra il suo vero volto: quello di un manager interessato solo a consolidare il potere, compiacendo chi detiene le leve del comando.

    Questa svolta è arrivata senza preavviso. Non ci saranno più squadre per garantire pari opportunità nell’assunzione, formazione o scelta dei fornitori. Il messaggio è chiaro: il futuro di Meta non è inclusivo, è esclusivo. Ed esclusivo di chi? Di chi decide cosa si può dire e chi può avere un posto al tavolo.

    Le giustificazioni ufficiali, ovviamente, non mancano. La vicepresidente delle risorse umane, Janelle Gale, ha dichiarato: «Il panorama legale e politico intorno agli sforzi per la diversità, l’equità e l’inclusione negli Usa sta cambiando». Ha aggiunto: «La Corte Suprema degli Stati Uniti ha recentemente preso decisioni che indicano un cambiamento nel modo in cui i tribunali tratteranno i programmi Dei». L’azienda afferma ora di voler «applicare pratiche eque e coerenti che mitigano i pregiudizi per tutti, indipendentemente dal background». In altre parole, si nega la necessità di corsie preferenziali per «supportare meglio le persone sottorappresentate», un obiettivo fino a poco tempo fa centrale nella strategia inclusiva dell’azienda.

    Ma questa spiegazione suona vuota: Meta non si sta adattando, sta scegliendo di allinearsi (a destra). Anzi, sembra quasi entusiasta di cavalcare questa nuova direzione. Con Trump pronto a tornare alla Casa Bianca, Zuckerberg sa benissimo da che parte stare. Il ceo di Meta, che ora parla con orgoglio di avere “maggiore controllo” sulle policy aziendali, non sta solo voltando le spalle ai valori che diceva di sostenere: sta mettendo la sua azienda al servizio di una narrazione politica ben precisa. Non è più un arbitro, ma un giocatore. E come tale ha deciso di muoversi senza più guardare in faccia nessuno.

    La cancellazione dei programmi di diversità non è solo un atto simbolico, è una dichiarazione d’intenti. Nonostante i progressi dichiarati nel 2022, con il 37% della forza lavoro composto da donne e percentuali irrisorie di dipendenti neri (4,9%) e ispanici (6,7%), Meta ha deciso di abbandonare ogni sforzo per migliorare. Invece di affrontare le sue lacune, Meta le nasconde sotto il tappeto. Non c’è più traccia dell’azienda che prometteva di costruire un ambiente sicuro per tutti.

    Il clima dentro Meta è ormai incandescente. Sulla piattaforma interna Workplace, un dipendente ha scritto: “È folle. Tutto questo sta succedendo solo perché il potere è cambiato?”. Roy Austin, vicepresidente dei Diritti Civili, si è dimesso, denunciando un contesto che rende impossibile qualsiasi azione concreta. Le proteste interne crescono, ma sembra che Zuckerberg abbia già deciso di ignorarle.

    E poi ci sono le parole di Biden, che ha definito “vergognosa” l’abolizione del fact-checking, ricordando quanto sia importante combattere la disinformazione. Ma Zuckerberg non sembra minimamente toccato. Anzi, accusa l’amministrazione Biden di averlo costretto a “censurare” contenuti durante la pandemia. È una narrazione comoda, ma suona vuota considerando quante vite sono state salvate evitando che le fake news sui vaccini si diffondessero incontrollate.

    Meta non è più un’azienda tecnologica, è una macchina politica al servizio di chi può garantirne il potere. Zuckerberg non vuole più nascondersi dietro ai principi, perché sa che non ne ha più bisogno. E mentre celebra la sua “libertà” ritrovata, il mondo osserva con preoccupazione il tracollo dei valori che avrebbero dovuto definire il futuro delle piattaforme digitali. Non c’è più traccia dell’azienda “liberal” all’avanguardia nell’integrazione e nei diritti civili. Ora c’è solo Meta, pronta a fare qualsiasi cosa per restare in cima. E c’è Zuckerberg, sempre più simile a un imperatore senza regole, guidato da un solo principio: il suo interesse personale.

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      Il re Leone vota per la Lega Nord: Matteo Salvini trasforma un ruggito in propaganda e trova fan pronti a credere all’incredibile

      Matteo Salvini, in piena crisi di consensi e con la Lega in caduta libera nei sondaggi, prova a risalire la china affidandosi a un’improbabile trovata: arruolare il Re Leone. Sentendo il suo nome nella colonna sonora del nuovo film Disney, il Capitano scatena i social tra sarcasmo, commenti increduli e qualche fedele pronto a credere davvero che Mufasa inneggi alla Lega.

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        Il Re Leone? Tifa per Matteo Salvini. È questa la nuova trovata del leader leghista per ravvivare i social e, forse, il morale un po’ a terra del suo partito. È il periodo delle Feste, ma invece di pensare ai buoni propositi, Salvini si è concentrato su un’assonanza decisamente creativa: ha colto l’occasione di una canzone del nuovo film Disney dedicato a Mufasa per far parlare di sé. Sempre in cerca di consenso, il leader leghista ha trasformato una frase in lingua xhosa – uno dei tanti dialetti dell’Africa – in un improbabile endorsement politico, suscitando reazioni tra lo sbigottito e l’ironico, lasciando molti con un sorriso incredulo. Soprattutto di fronte al fatto che, sorprendentemente, c’è anche chi tra i suoi fan sembra prendere la battuta per buona, dimostrando ancora una volta quanto il senso critico sia spesso messo da parte in favore di una devozione cieca al ‘Capitano’.

        Ma andiamo con ordine. In vista del capodanno il vicepremier ha condiviso sui social la locandina del nuovo film del Re Leone, accompagnata da un messaggio che trasuda orgoglio: «Ascoltate le prime parole della canzone di apertura del film». E, certo, le parole “Per Salvini” si sentirebbero chiaramente, o almeno così vorrebbe far credere il nostro protagonista. Mufasa è leghista, quindi? La Disney inneggia al Capitano? Nulla di tutto questo, in realtà. La verità è ovviamente ben diversa: il brano è in lingua africana e dice tutt’altro: «Xesha lifikile», ovvero «il momento è arrivato». Quella chiamata in ballo dal vice premier è solo un’assonanza. Tanto più che il momento di Salvini, almeno stando ai sondaggi, sembra essere passato da un pezzo.

        Ora, si potrebbe pensare che questa operazione fosse un modo per strappare un sorriso ai supporter, magari distraendoli dalla crisi di consensi che attanaglia il suo partito. Ma i commenti sotto il post suggeriscono che l’obiettivo non sia stato centrato. A prenderla in ridere sono pochi. Anzi, la platea dei follower si divide tra coloro che sparano ad alzo zero sul leader leghista e chi non coglie l’evidenza e fantastica sull’endorsement dato dal Re Leone all’amato Matteo. «Quando si dice raschiare il fondo», scrive un utente, mentre qualcun altro aggiunge con un filo di rassegnazione: «Ridendo e scherzando, questo è un nostro ministro. Povera Italia». Ma spicca chi confessa: «Lo avevo notato anch’io». E chi è deciso: «Dice proprio Per Salvini!»

        Insomma, se il piano era guadagnare terreno nel difficile mondo della satira politica, forse è il caso di tornare in riunione. Salvini, con la sua celebre strategia social chiamata «La Bestia», aveva abituato i suoi follower a contenuti polarizzanti e pungenti. Oggi, invece, sembra aver optato per un tono più leggero e giocoso. Che non sempre colpisce nel segno. Sarà un tentativo di rinnovarsi o un segno di debolezza? Difficile dirlo, ma certo è che, a giudicare dai numeri, la strada è tutta in salita.

        Nel 2019, la Lega sfiorava il 34,2% alle elezioni europee, un risultato da capogiro. Oggi, secondo l’ultimo sondaggio SWG, si aggira sotto il 9%. E, come se non bastasse, l’alleata-rivale Giorgia Meloni scavalcato Salvini come numero di followers sui social, lasciando Salvini con un pugno di mosche e, evidentemente, la voglia di farsi notare a tutti i costi.

        Ma torniamo al nostro Re Leone. Salvini è noto per la sua capacità di cavalcare l’onda dei meme e dei tormentoni social. Tuttavia, arrivare a suggerire che i versi cantati da un leone sudafricano in una pellicola americana cantino il suo nome sembrerebbe un po’ azzardato anche per lui. Soprattutto visto che si tratta di un film che affronta ideali di inclusione che con la Lega hanno davvero ben poco a che fare. Insomma, è come se, dopo aver provato ogni carta disponibile, il Capitano avesse deciso di affidarsi alla magia Disney per risalire nei sondaggi.

        D’altronde, Matteo Salvini ci ha abituati a momenti di creatività assoluta. Ricordiamo tutti le sue dirette Facebook dalla cucina o dal terrazzo, tra panini con la Nutella e improbabili invettive contro Bruxelles. E le stories a base di salciccia, polenta e ogni ghiottoneria possibile in cui mischiava sagre di paese con editti politici contro immigrati e centri sociali. Forse stavolta, però, ha superato sé stesso, portando la narrazione politica al livello del cinema d’animazione. Chi può dirlo, magari nei prossimi giorni vedremo un post in cui si attribuirà il sostegno del cast di Frozen. O dei Fantastici Quattro.

        In tutto ciò resta una domanda: cosa pensano i suoi elettori di questo approccio sempre più distante dai temi concreti? Una parte di loro potrebbe apprezzare la leggerezza e l’ironia. Un’altra credere davvero che il Re Leone voti per la Lega. Ma c’è anche chi, guardando al calo verticale dei consensi, si aspetterebbe meno social e più soluzioni concrete. Salvini, d’altra parte, è maestro nel gestire la narrazione: se la realtà non lo favorisce, può sempre modellarla a suo piacimento. Anche se significa arruolare un leone animato come improbabile alleato.

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          Sic transit gloria mundi

          Trump e il delirio coloniale: “Gli USA prenderanno il controllo di Gaza e deporteranno 1,7 milioni di palestinesi”

          Nel corso di una conferenza stampa con Benjamin Netanyahu, Donald Trump ha annunciato un piano che sembra uscito da un manuale di pulizia etnica: l’esilio forzato di 1,7 milioni di abitanti di Gaza e il controllo statunitense sulla Striscia. Nessun dettaglio su come intenda farlo, nessuna considerazione per i palestinesi. Solo un’idea pericolosa che rischia di incendiare il Medio Oriente.

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            C’è qualcosa di profondamente delirante nel piano di Donald Trump per Gaza, annunciato con la solita nonchalance nella East Room della Casa Bianca, accanto a un compiaciuto Benjamin Netanyahu. L’ex presidente USA ha proposto, con una leggerezza inquietante, di prendere il controllo della Striscia e “spostare” 1,7 milioni di palestinesi in un “buono, fresco e bello pezzo di terra” altrove.

            Come se fosse un trasloco. Come se non stessimo parlando di persone che vivono sulla loro terra, da generazioni, e che non hanno alcuna intenzione di lasciarla.

            Un piano senza precedenti: l’arroganza di un colonialismo moderno

            La proposta di Trump, se mai dovesse essere presa sul serio, rappresenterebbe una delle più grandi violazioni del diritto internazionale degli ultimi decenni. Un trasferimento forzato di popolazione, un’espropriazione di massa, un’occupazione di fatto da parte degli Stati Uniti, con la promessa – nemmeno tanto chiara – di “sviluppare” Gaza.

            Svilupparla per chi? Per gli sfollati che non ci saranno più? Per una popolazione sostituita? O forse per una gestione diretta che favorisca altri interessi?

            Gaza, i palestinesi e l’opposizione del mondo arabo

            C’è un dettaglio che Trump si ostina a ignorare: i palestinesi non vogliono andarsene. Gli abitanti di Gaza hanno ripetuto in ogni modo possibile che la loro terra è la loro casa, e nessuna potenza straniera ha il diritto di esiliarli. Anche le nazioni arabe vicine, da sempre contrarie alla deportazione dei palestinesi, hanno ribadito la loro opposizione. Eppure Trump va avanti, dichiarando con assoluta convinzione che Egitto e Giordania sarebbero dalla sua parte.

            In che modo, esattamente? Nessun leader arabo ha mai detto di essere disposto ad accogliere una massa di rifugiati forzati. Eppure, nella sua narrativa semplificata, Trump racconta una realtà alternativa, dove gli arabi accettano senza fiatare e i palestinesi partono volentieri.

            Il nulla dietro l’annuncio: occupazione con che mezzi?

            C’è un altro enorme buco nel discorso di Trump: in che modo gli Stati Uniti intendono “prendere il controllo” di Gaza? Con truppe sul campo? Con una presenza militare permanente? Oppure immagina una gestione da remoto, come una colonia amministrata a distanza?

            Trump non lo dice, perché probabilmente non lo sa nemmeno lui. “Faremo ciò che è necessario”, ha dichiarato, lasciando tutto nel vago, senza affrontare minimamente la realtà geopolitica di un’occupazione americana in uno dei territori più instabili del pianeta.

            Una proposta incendiaria e pericolosa

            Ciò che è chiaro è che questo piano, se mai dovesse essere considerato seriamente, sarebbe una miccia pronta a esplodere nel Medio Oriente. Già adesso la tensione nella regione è alle stelle, e la sola idea di un’occupazione USA e di una deportazione di massa rischia di provocare conseguenze gravissime.

            Trump, come sempre, parla senza pensare, senza calcolare le reazioni, senza nemmeno preoccuparsi di chi dovrebbe subire le sue idee folli. Ma questa volta il livello di irresponsabilità è da record. Non solo perché la sua proposta è eticamente e storicamente aberrante, ma perché accende un fuoco che potrebbe bruciare molto più di quanto lui stesso immagini.

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              Anda e rianda, tornano i taxi del mare con le navi militari italiane impiegate (a spese dei contribuenti) a portare avanti e indietro migranti tra Italia e Albania

              Per la terza volta, la magistratura smonta l’esperimento dell’esecutivo: il trasferimento forzato nei centri albanesi è illegale. I migranti verranno riportati domani su navi della Guardia Costiera, mentre la Corte di Giustizia UE valuterà la compatibilità del piano con le norme europee.

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                E alla fine, anche stavolta, il castello di carte del governo Meloni è crollato con fragore. Il fantasmagorico esperimento delle deportazioni mascherate da “centri per migranti in Albania” ha collezionato l’ennesima bocciatura. Terza. Su tre tentativi. Insomma, una performance impeccabile nella categoria “fiaschi annunciati”. Complimenti vivissimi!

                L’ultimo schiaffo arriva dalla Corte di Appello di Roma, che ha deciso di non convalidare il trattenimento dei 43 migranti imprigionati nel centro di Gjader. Decisione che suona più come una sentenza di condanna politica per un governo che, dopo aver incassato due stop e una sentenza della Cassazione che ribadiva il diritto dei giudici di verificare la “sicurezza” dei paesi indicati nel listone di quelli sicuri, ha pensato bene di sfidare la sorte. Risultato? Terzo round, terza sberla. Giù il sipario.

                E così, dopo l’ennesima batosta, ecco che domani alle 12 i 43 migranti verranno riportati in Italia su mezzi della Guardia Costiera. La sceneggiatura è sempre la stessa: il governo manda i suoi pattugliatori in Albania carichi di migranti, la magistratura stronca il tentativo, i migranti vengono rispediti indietro. Un traffico navale che ormai ha la regolarità di una linea di traghetti. O meglio, di un costosissimo taxi del mare pagato, ovviamente, dai contribuenti italiani.

                La decisione dei giudici non lascia spazio a interpretazioni. “Il giudizio va sospeso nelle more della decisione della Corte di Giustizia. Poiché per effetto della sospensione è impossibile osservare il termine di quarantotto ore previsto per la convalida, deve necessariamente essere disposta la liberazione del trattenuto”, recita il provvedimento. Traduzione per i meno avvezzi al linguaggio giuridico: il trattenimento è illegale, i migranti vanno liberati, il giochetto è finito.

                Ma andiamo con ordine. I 49 migranti sbarcati a Gjader martedì scorso erano già stati decimati dalle smagliature legali del provvedimento: sei erano stati rispediti in Italia perché minorenni o vulnerabili (eh già, qualcuno nel governo si è dimenticato di leggere le direttive europee). I restanti 43 sono stati processati oggi, in videoconferenza, davanti a una Corte d’Appello di Roma che ha raccolto il testimone lasciato dai colleghi della sezione immigrazione, precedentemente “esautorata” dal governo. Un bell’esempio di indipendenza della magistratura!

                I giudici, senza farsi intimidire, hanno applicato il diritto. E il diritto dice che i migranti hanno il sacrosanto diritto di fare ricorso entro sette giorni contro il rigetto della loro domanda d’asilo. Tempistica che, secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, rende “concretamente impossibile l’esercizio del diritto di difesa”, violando Costituzione, CEDU e direttive europee. Dettagli, vero?

                Ma questo è solo l’ultimo atto di un copione già scritto. Lo spettacolo è andato in scena a ottobre, quando il primo tentativo di trattenere 12 migranti bengalesi ed egiziani si è schiantato contro la realtà: i giudici hanno stabilito che i loro paesi d’origine non erano sicuri e, di conseguenza, non si poteva applicare la procedura di frontiera. Tradotto: erano stati deportati illegalmente. Secondo tentativo a novembre, altra figuraccia: il governo si è inventato un decreto per aggiornare la lista dei Paesi sicuri, ma i giudici hanno sospeso il trattenimento e rimesso tutto alla Corte di Giustizia europea. Morale: migranti liberati, governo sconfessato, Marina militare impegnata nel ruolo di Uber del mare.

                Il 25 febbraio si attende la pronuncia della Corte di Lussemburgo su tutta la vicenda. Nel frattempo, il governo potrebbe considerare un’idea rivoluzionaria: studiare le leggi prima di provarci ancora. Oppure, se proprio ci tiene al brivido della disfatta, che almeno ci avverta in anticipo: popcorn e birra sono a carico nostro, il biglietto per il circo lo paghiamo già con le tasse.

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