Sic transit gloria mundi
Vannacci contro Papa Francesco: quando l’autostima diventa una battaglia politica
L’ex militare se la prende con il Pontefice, accusandolo di incoerenza e lanciando un attacco che sa di provocazione a vuoto. Quando l’autopromozione passa per il pulpito altrui.

Roberto Vannacci, noto più per le sue polemiche che per le sue imprese, ha deciso di alzare il tiro e colpire uno dei simboli più universali del dialogo e della speranza: Papa Francesco. In un’uscita sui social, Vannacci ha criticato le posizioni del Pontefice sull’accoglienza dei migranti, sottolineando con un tono sprezzante quella che lui definisce un’ipocrisia del Vaticano.
Secondo il generale, infatti, il Vaticano applica pene severe contro chi entra illegalmente nei suoi confini, in contrasto con i messaggi di apertura e accoglienza che Francesco continua a promuovere. Una “scoperta” che appare più come una strumentalizzazione piuttosto che una vera critica.
Non contento, Vannacci ha attaccato anche il messaggio che il Papa ha rivolto ai detenuti del carcere di Rebibbia durante l’apertura della Porta Santa. Con un tono di sdegno, ha insinuato che le vittime dei crimini siano ignorate dal Pontefice, come se fosse dovere del Papa stilare una lista di priorità secondo il gusto di un militare in cerca di visibilità.
È evidente che dietro a questi attacchi non ci sia altro che l’ennesimo tentativo di Vannacci di costruirsi una piattaforma politica su temi divisivi. Ma attaccare il Papa, figura riconosciuta in tutto il mondo per il suo messaggio di inclusione e speranza, non è solo fuori luogo: è una manovra cinica e destinata a fallire.
Papa Francesco, con il suo invito all’accoglienza e alla misericordia, rappresenta una voce che tenta di unire in un mondo sempre più frammentato. Vannacci, invece, con le sue uscite urlate e aggressive, sembra impegnato solo a scavare fossati, colpendo chi rappresenta valori che evidentemente non riesce a comprendere.
Un attacco al Papa è un atto che avrebbe richiesto almeno una riflessione, ma Vannacci sembra aver deciso di sacrificare la ragione sull’altare della provocazione. Un altare che, ironia della sorte, non troverà mai posto nel Vaticano che tanto si affanna a criticare.
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Sic transit gloria mundi
Il re Leone vota per la Lega Nord: Matteo Salvini trasforma un ruggito in propaganda e trova fan pronti a credere all’incredibile
Matteo Salvini, in piena crisi di consensi e con la Lega in caduta libera nei sondaggi, prova a risalire la china affidandosi a un’improbabile trovata: arruolare il Re Leone. Sentendo il suo nome nella colonna sonora del nuovo film Disney, il Capitano scatena i social tra sarcasmo, commenti increduli e qualche fedele pronto a credere davvero che Mufasa inneggi alla Lega.

Il Re Leone? Tifa per Matteo Salvini. È questa la nuova trovata del leader leghista per ravvivare i social e, forse, il morale un po’ a terra del suo partito. È il periodo delle Feste, ma invece di pensare ai buoni propositi, Salvini si è concentrato su un’assonanza decisamente creativa: ha colto l’occasione di una canzone del nuovo film Disney dedicato a Mufasa per far parlare di sé. Sempre in cerca di consenso, il leader leghista ha trasformato una frase in lingua xhosa – uno dei tanti dialetti dell’Africa – in un improbabile endorsement politico, suscitando reazioni tra lo sbigottito e l’ironico, lasciando molti con un sorriso incredulo. Soprattutto di fronte al fatto che, sorprendentemente, c’è anche chi tra i suoi fan sembra prendere la battuta per buona, dimostrando ancora una volta quanto il senso critico sia spesso messo da parte in favore di una devozione cieca al ‘Capitano’.
Ma andiamo con ordine. In vista del capodanno il vicepremier ha condiviso sui social la locandina del nuovo film del Re Leone, accompagnata da un messaggio che trasuda orgoglio: «Ascoltate le prime parole della canzone di apertura del film». E, certo, le parole “Per Salvini” si sentirebbero chiaramente, o almeno così vorrebbe far credere il nostro protagonista. Mufasa è leghista, quindi? La Disney inneggia al Capitano? Nulla di tutto questo, in realtà. La verità è ovviamente ben diversa: il brano è in lingua africana e dice tutt’altro: «Xesha lifikile», ovvero «il momento è arrivato». Quella chiamata in ballo dal vice premier è solo un’assonanza. Tanto più che il momento di Salvini, almeno stando ai sondaggi, sembra essere passato da un pezzo.
Ora, si potrebbe pensare che questa operazione fosse un modo per strappare un sorriso ai supporter, magari distraendoli dalla crisi di consensi che attanaglia il suo partito. Ma i commenti sotto il post suggeriscono che l’obiettivo non sia stato centrato. A prenderla in ridere sono pochi. Anzi, la platea dei follower si divide tra coloro che sparano ad alzo zero sul leader leghista e chi non coglie l’evidenza e fantastica sull’endorsement dato dal Re Leone all’amato Matteo. «Quando si dice raschiare il fondo», scrive un utente, mentre qualcun altro aggiunge con un filo di rassegnazione: «Ridendo e scherzando, questo è un nostro ministro. Povera Italia». Ma spicca chi confessa: «Lo avevo notato anch’io». E chi è deciso: «Dice proprio Per Salvini!»
Insomma, se il piano era guadagnare terreno nel difficile mondo della satira politica, forse è il caso di tornare in riunione. Salvini, con la sua celebre strategia social chiamata «La Bestia», aveva abituato i suoi follower a contenuti polarizzanti e pungenti. Oggi, invece, sembra aver optato per un tono più leggero e giocoso. Che non sempre colpisce nel segno. Sarà un tentativo di rinnovarsi o un segno di debolezza? Difficile dirlo, ma certo è che, a giudicare dai numeri, la strada è tutta in salita.
Nel 2019, la Lega sfiorava il 34,2% alle elezioni europee, un risultato da capogiro. Oggi, secondo l’ultimo sondaggio SWG, si aggira sotto il 9%. E, come se non bastasse, l’alleata-rivale Giorgia Meloni scavalcato Salvini come numero di followers sui social, lasciando Salvini con un pugno di mosche e, evidentemente, la voglia di farsi notare a tutti i costi.
Ma torniamo al nostro Re Leone. Salvini è noto per la sua capacità di cavalcare l’onda dei meme e dei tormentoni social. Tuttavia, arrivare a suggerire che i versi cantati da un leone sudafricano in una pellicola americana cantino il suo nome sembrerebbe un po’ azzardato anche per lui. Soprattutto visto che si tratta di un film che affronta ideali di inclusione che con la Lega hanno davvero ben poco a che fare. Insomma, è come se, dopo aver provato ogni carta disponibile, il Capitano avesse deciso di affidarsi alla magia Disney per risalire nei sondaggi.
D’altronde, Matteo Salvini ci ha abituati a momenti di creatività assoluta. Ricordiamo tutti le sue dirette Facebook dalla cucina o dal terrazzo, tra panini con la Nutella e improbabili invettive contro Bruxelles. E le stories a base di salciccia, polenta e ogni ghiottoneria possibile in cui mischiava sagre di paese con editti politici contro immigrati e centri sociali. Forse stavolta, però, ha superato sé stesso, portando la narrazione politica al livello del cinema d’animazione. Chi può dirlo, magari nei prossimi giorni vedremo un post in cui si attribuirà il sostegno del cast di Frozen. O dei Fantastici Quattro.
In tutto ciò resta una domanda: cosa pensano i suoi elettori di questo approccio sempre più distante dai temi concreti? Una parte di loro potrebbe apprezzare la leggerezza e l’ironia. Un’altra credere davvero che il Re Leone voti per la Lega. Ma c’è anche chi, guardando al calo verticale dei consensi, si aspetterebbe meno social e più soluzioni concrete. Salvini, d’altra parte, è maestro nel gestire la narrazione: se la realtà non lo favorisce, può sempre modellarla a suo piacimento. Anche se significa arruolare un leone animato come improbabile alleato.
Sic transit gloria mundi
Trump e il delirio coloniale: “Gli USA prenderanno il controllo di Gaza e deporteranno 1,7 milioni di palestinesi”
Nel corso di una conferenza stampa con Benjamin Netanyahu, Donald Trump ha annunciato un piano che sembra uscito da un manuale di pulizia etnica: l’esilio forzato di 1,7 milioni di abitanti di Gaza e il controllo statunitense sulla Striscia. Nessun dettaglio su come intenda farlo, nessuna considerazione per i palestinesi. Solo un’idea pericolosa che rischia di incendiare il Medio Oriente.

C’è qualcosa di profondamente delirante nel piano di Donald Trump per Gaza, annunciato con la solita nonchalance nella East Room della Casa Bianca, accanto a un compiaciuto Benjamin Netanyahu. L’ex presidente USA ha proposto, con una leggerezza inquietante, di prendere il controllo della Striscia e “spostare” 1,7 milioni di palestinesi in un “buono, fresco e bello pezzo di terra” altrove.
Come se fosse un trasloco. Come se non stessimo parlando di persone che vivono sulla loro terra, da generazioni, e che non hanno alcuna intenzione di lasciarla.
Un piano senza precedenti: l’arroganza di un colonialismo moderno
La proposta di Trump, se mai dovesse essere presa sul serio, rappresenterebbe una delle più grandi violazioni del diritto internazionale degli ultimi decenni. Un trasferimento forzato di popolazione, un’espropriazione di massa, un’occupazione di fatto da parte degli Stati Uniti, con la promessa – nemmeno tanto chiara – di “sviluppare” Gaza.
Svilupparla per chi? Per gli sfollati che non ci saranno più? Per una popolazione sostituita? O forse per una gestione diretta che favorisca altri interessi?
Gaza, i palestinesi e l’opposizione del mondo arabo
C’è un dettaglio che Trump si ostina a ignorare: i palestinesi non vogliono andarsene. Gli abitanti di Gaza hanno ripetuto in ogni modo possibile che la loro terra è la loro casa, e nessuna potenza straniera ha il diritto di esiliarli. Anche le nazioni arabe vicine, da sempre contrarie alla deportazione dei palestinesi, hanno ribadito la loro opposizione. Eppure Trump va avanti, dichiarando con assoluta convinzione che Egitto e Giordania sarebbero dalla sua parte.
In che modo, esattamente? Nessun leader arabo ha mai detto di essere disposto ad accogliere una massa di rifugiati forzati. Eppure, nella sua narrativa semplificata, Trump racconta una realtà alternativa, dove gli arabi accettano senza fiatare e i palestinesi partono volentieri.
Il nulla dietro l’annuncio: occupazione con che mezzi?
C’è un altro enorme buco nel discorso di Trump: in che modo gli Stati Uniti intendono “prendere il controllo” di Gaza? Con truppe sul campo? Con una presenza militare permanente? Oppure immagina una gestione da remoto, come una colonia amministrata a distanza?
Trump non lo dice, perché probabilmente non lo sa nemmeno lui. “Faremo ciò che è necessario”, ha dichiarato, lasciando tutto nel vago, senza affrontare minimamente la realtà geopolitica di un’occupazione americana in uno dei territori più instabili del pianeta.
Una proposta incendiaria e pericolosa
Ciò che è chiaro è che questo piano, se mai dovesse essere considerato seriamente, sarebbe una miccia pronta a esplodere nel Medio Oriente. Già adesso la tensione nella regione è alle stelle, e la sola idea di un’occupazione USA e di una deportazione di massa rischia di provocare conseguenze gravissime.
Trump, come sempre, parla senza pensare, senza calcolare le reazioni, senza nemmeno preoccuparsi di chi dovrebbe subire le sue idee folli. Ma questa volta il livello di irresponsabilità è da record. Non solo perché la sua proposta è eticamente e storicamente aberrante, ma perché accende un fuoco che potrebbe bruciare molto più di quanto lui stesso immagini.
Sic transit gloria mundi
Anda e rianda, tornano i taxi del mare con le navi militari italiane impiegate (a spese dei contribuenti) a portare avanti e indietro migranti tra Italia e Albania
Per la terza volta, la magistratura smonta l’esperimento dell’esecutivo: il trasferimento forzato nei centri albanesi è illegale. I migranti verranno riportati domani su navi della Guardia Costiera, mentre la Corte di Giustizia UE valuterà la compatibilità del piano con le norme europee.

E alla fine, anche stavolta, il castello di carte del governo Meloni è crollato con fragore. Il fantasmagorico esperimento delle deportazioni mascherate da “centri per migranti in Albania” ha collezionato l’ennesima bocciatura. Terza. Su tre tentativi. Insomma, una performance impeccabile nella categoria “fiaschi annunciati”. Complimenti vivissimi!
L’ultimo schiaffo arriva dalla Corte di Appello di Roma, che ha deciso di non convalidare il trattenimento dei 43 migranti imprigionati nel centro di Gjader. Decisione che suona più come una sentenza di condanna politica per un governo che, dopo aver incassato due stop e una sentenza della Cassazione che ribadiva il diritto dei giudici di verificare la “sicurezza” dei paesi indicati nel listone di quelli sicuri, ha pensato bene di sfidare la sorte. Risultato? Terzo round, terza sberla. Giù il sipario.
E così, dopo l’ennesima batosta, ecco che domani alle 12 i 43 migranti verranno riportati in Italia su mezzi della Guardia Costiera. La sceneggiatura è sempre la stessa: il governo manda i suoi pattugliatori in Albania carichi di migranti, la magistratura stronca il tentativo, i migranti vengono rispediti indietro. Un traffico navale che ormai ha la regolarità di una linea di traghetti. O meglio, di un costosissimo taxi del mare pagato, ovviamente, dai contribuenti italiani.
La decisione dei giudici non lascia spazio a interpretazioni. “Il giudizio va sospeso nelle more della decisione della Corte di Giustizia. Poiché per effetto della sospensione è impossibile osservare il termine di quarantotto ore previsto per la convalida, deve necessariamente essere disposta la liberazione del trattenuto”, recita il provvedimento. Traduzione per i meno avvezzi al linguaggio giuridico: il trattenimento è illegale, i migranti vanno liberati, il giochetto è finito.
Ma andiamo con ordine. I 49 migranti sbarcati a Gjader martedì scorso erano già stati decimati dalle smagliature legali del provvedimento: sei erano stati rispediti in Italia perché minorenni o vulnerabili (eh già, qualcuno nel governo si è dimenticato di leggere le direttive europee). I restanti 43 sono stati processati oggi, in videoconferenza, davanti a una Corte d’Appello di Roma che ha raccolto il testimone lasciato dai colleghi della sezione immigrazione, precedentemente “esautorata” dal governo. Un bell’esempio di indipendenza della magistratura!
I giudici, senza farsi intimidire, hanno applicato il diritto. E il diritto dice che i migranti hanno il sacrosanto diritto di fare ricorso entro sette giorni contro il rigetto della loro domanda d’asilo. Tempistica che, secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, rende “concretamente impossibile l’esercizio del diritto di difesa”, violando Costituzione, CEDU e direttive europee. Dettagli, vero?
Ma questo è solo l’ultimo atto di un copione già scritto. Lo spettacolo è andato in scena a ottobre, quando il primo tentativo di trattenere 12 migranti bengalesi ed egiziani si è schiantato contro la realtà: i giudici hanno stabilito che i loro paesi d’origine non erano sicuri e, di conseguenza, non si poteva applicare la procedura di frontiera. Tradotto: erano stati deportati illegalmente. Secondo tentativo a novembre, altra figuraccia: il governo si è inventato un decreto per aggiornare la lista dei Paesi sicuri, ma i giudici hanno sospeso il trattenimento e rimesso tutto alla Corte di Giustizia europea. Morale: migranti liberati, governo sconfessato, Marina militare impegnata nel ruolo di Uber del mare.
Il 25 febbraio si attende la pronuncia della Corte di Lussemburgo su tutta la vicenda. Nel frattempo, il governo potrebbe considerare un’idea rivoluzionaria: studiare le leggi prima di provarci ancora. Oppure, se proprio ci tiene al brivido della disfatta, che almeno ci avverta in anticipo: popcorn e birra sono a carico nostro, il biglietto per il circo lo paghiamo già con le tasse.
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