Connect with us

Cronaca

A quarantadue anni dalla scomparsa di Mirella Gregori, il mistero si infittisce: spunta un nuovo memoriale

Nel documento depositato alla Commissione parlamentare, il reo confesso torna a parlare del caso Gregori. Otto nuovi capitoli tra ricordi, accuse e conferme. Spuntano nomi mai emersi, dettagli intimi, pedinamenti e persino una “corresponsabile”. È il punto più avanzato di una verità ancora negata.

Avatar photo

Pubblicato

il

    Il 7 maggio 1983 è una data scolpita nella memoria di chi ha vissuto quegli anni. Non per una strage, né per un attentato, ma per un’assenza. Quella di Mirella Gregori, quindicenne romana, figlia di un barista di via Montebello, sparita nel nulla dopo aver detto alla madre: “È Alessandro, il mio compagno delle medie. Vado a Porta Pia, torno subito.” Non tornò mai. Quarantadue anni dopo, quella frase è ancora un enigma. E il suo caso, da sempre legato a quello – più noto, più esposto – di Emanuela Orlandi, torna a farsi sentire con forza grazie a un nuovo memoriale firmato da Marco Accetti, il fotografo che nel 2013 si è autoaccusato dei due rapimenti.

    Il documento, depositato presso la Commissione parlamentare d’inchiesta che sta indagando ufficialmente sui casi Orlandi-Gregori, è lungo, denso, a tratti disturbante. Otto sezioni, nuovi particolari, nomi mai ascoltati, e soprattutto una narrazione precisa, come se il tempo si fosse fermato e quei giorni del 1983 si potessero rivivere in ogni dettaglio. L’incipit è già di per sé inquietante: «Ecco i vestiti di Mirella», dice l’uomo che si firmava “l’Americano” e che, secondo tre perizie, sarebbe proprio Accetti. Elenca maglia, maglietta, scarpe, colori e marche. Dettagli talmente precisi da risultare, secondo gli investigatori, autentici. Come li avrebbe conosciuti se non l’avesse davvero incontrata?

    Il memoriale prosegue con riferimenti a telefonate registrate, intercettazioni inedite, perfino pedinamenti a due ragazze che, secondo l’autore, erano state “attenzionate” prima della scelta definitiva caduta su Mirella. Una di queste, Antonella Fini, oggi adulta, è stata ascoltata dalla Squadra Mobile e avrebbe confermato di essere stata contattata, spiata, perfino derubata del diario scolastico. L’obiettivo? Capire chi fosse, come pensava, quanto fosse fragile. Una profilazione da brividi, fatta a scopo di selezione. Altro che mitomania.

    In questo nuovo memoriale, Accetti parla anche di una “corresponsabile”, Patrizia De Benedetti, sua ex compagna all’epoca dei fatti, che avrebbe avuto un ruolo attivo nella strategia di avvicinamento alle ragazze. La accusa apertamente, per la prima volta, di aver coperto, sviato, giustificato. Una mossa che riapre il vaso di Pandora dei possibili complici, delle connivenze, dei silenzi.

    Ma non finisce qui. Tra le righe emerge anche il nome di Patrizia Iaccarino, altra ragazza mai citata prima, che sarebbe stata avvicinata nel 1980-83 con modalità analoghe. E ancora: il citofono quel pomeriggio del 7 maggio, la voce che si fingeva quella dell’amico Alessandro De Luca, la presunta presenza di due “collaboratori” nella festa d’inaugurazione del bar, un litigio con il fidanzato, perfino l’annotazione che Mirella – avrebbe detto lui – era vergine. Tutto questo raccontato con freddezza e una minuziosità che non si inventa.

    La domanda sorge spontanea: perché nessuno ha ancora voluto processare questo uomo? L’ex pm Capaldo ci aveva provato, nel 2015, ma il fascicolo fu archiviato. Oggi, dopo decenni di depistaggi e negligenze, il memoriale-bis potrebbe essere il tassello mancante. Se non altro per smontarlo, o per dimostrarne la verità. Certo è che mai, in questi quarantadue anni, si era arrivati a un tale livello di precisione. Le parole di Accetti, che continua a chiedere un processo per spiegare tutto, sono le stesse: “Non voglio passare per mitomane. Voglio essere giudicato.”

    Maria Antonietta, sorella maggiore di Mirella, lo ripete da anni: “Mia sorella è stata una sequestrata di serie B”. E forse ha ragione. I riflettori, le fiction, l’eco mediatica si sono concentrati su Emanuela Orlandi. Mirella, invece, è rimasta il volto su una foto ingiallita. Una ragazzina dai capelli ricci e il sorriso aperto, andata incontro a qualcosa di indicibile e mai più ritrovata. Il 9 maggio, l’Europa festeggia la pace. Ma in una casa romana, c’è chi aspetta ancora giustizia. E chi ha solo bisogno di sapere, finalmente, la verità.

      SEGUICI SU INSTAGRAM
      INSTAGRAM.COM/LACITYMAG

      Cronaca Nera

      La madre di Marco Pantani non si arrende

      Tonina Pantani lancia pesanti accuse sulla morte del figlio: “Non è stato un incidente, è stato ucciso”. Rabbia e dolore contro le istituzioni del ciclismo e il Tour de France.

      Avatar photo

      Pubblicato

      il

      Autore

        Tonina Pantani, madre del leggendario ciclista Marco Pantani, ha rilasciato dichiarazioni forti e scioccanti sulla morte del figlio. Secondo lei, Marco non è morto per un tragico incidente, ma è stato ucciso. In un’intervista straziante, Tonina ha espresso una rabbia profonda verso le istituzioni del ciclismo, puntando il dito in particolare contro il Tour de France, accusato di aver avuto un ruolo nella tragica fine del “Pirata”. Le sue parole hanno riaperto ferite mai guarite e alimentato nuove discussioni sulle circostanze della morte di Marco Pantani.

        Accuse e dolore di una madre

        Tonina Pantani non ha mai accettato la versione ufficiale sulla morte del figlio, trovandosi spesso sola nella sua battaglia per la verità. Nel corso degli anni, ha raccolto documenti, testimonianze e prove che, secondo lei, dimostrano come Marco sia stato vittima di un complotto. “Non perdonerò mai chi ha distrutto mio figlio”, ha dichiarato, accusando esplicitamente il mondo del ciclismo e le sue istituzioni di aver voltato le spalle a Marco quando più aveva bisogno di supporto.

        Il ruolo del Tour de France

        Particolarmente dure sono le parole di Tonina Pantani contro il Tour de France. Secondo la madre del campione, il prestigioso evento ciclistico avrebbe contribuito a creare un ambiente ostile e pericoloso per Marco, culminato poi nella sua tragica morte. “Il Tour de France ha una parte di colpa in tutto questo”, ha affermato Tonina, sottolineando come le pressioni e le accuse infondate abbiano devastato suo figlio sia mentalmente che fisicamente.

        Una verità ancora da scoprire

        Le accuse di Tonina Pantani riaccendono un dibattito mai realmente chiuso sulla morte del “Pirata”. Nonostante le inchieste ufficiali abbiano concluso che si trattò di un incidente, molti, inclusa la famiglia Pantani, continuano a chiedere giustizia e verità. La determinazione di Tonina a far luce su quanto accaduto a Marco riflette la sua convinzione che vi siano ancora molte zone d’ombra e domande senza risposta.

        L’eredità di Marco Pantani

        Indipendentemente dalle controversie sulla sua morte, Marco Pantani rimane una delle figure più iconiche del ciclismo. Le sue vittorie al Giro d’Italia e al Tour de France, il suo stile unico e la sua personalità carismatica hanno lasciato un’impronta indelebile nello sport. La lotta di Tonina Pantani per la verità non è solo una questione personale, ma anche un tentativo di preservare l’eredità e l’onore di suo figlio.

        La battaglia di Tonina Pantani continua, alimentata dal dolore e dalla determinazione di una madre che non si arrenderà mai finché non avrà ottenuto giustizia per Marco.

          Continua a leggere

          Italia

          Caro svegliati c’è da andare in guerra. Ecco chi partirebbe in caso di conflitto

          Dalle forze armate ai riservisti, fino ai civili: ecco chi potrebbe essere chiamato alle armi se l’Italia entrasse in un conflitto.

          Avatar photo

          Pubblicato

          il

            In un mondo sempre più instabile, con tensioni tra Stati Uniti e Iran che sfiorano la linea rossa e scenari da terza guerra mondiale che sembrano meno fantascientifici, molti si chiedono: se l’Italia entrasse in guerra, chi verrebbe chiamato a combattere?

            Alzarsi e partire?

            La risposta è meno semplice di quanto sembri. In base all’articolo 5 del Trattato NATO, l’Italia è obbligata a intervenire in difesa di un alleato attaccato. Ma prima che scattino le sirene, serve una decisione formale del Parlamento e un decreto del Presidente della Repubblica per dichiarare lo stato di guerra. In caso di coinvolgimento diretto, i primi a essere mobilitati sarebbero i militari di carriera: esercito, marina, aeronautica, carabinieri e guardia di finanza. Restano invece esclusi i corpi civili come vigili del fuoco, polizia locale e penitenziaria.

            In caso di guerra tutti in trincea dai 18 ai 45 anni donne incluse

            Se le forze armate non bastassero, toccherebbe ai riservisti, ovvero ex militari congedati da meno di cinque anni. Il governo sta anche lavorando a una legge per creare una riserva ausiliaria di 10.000 ex militari volontari sotto i 40 anni, pronti a essere richiamati in caso di emergenza. E i civili? Entrerebbero in gioco solo in caso di estrema necessità, come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale. In quel caso, potrebbero essere arruolati uomini e donne tra i 18 e i 45 anni, previa visita medica. Le donne in gravidanza sarebbero esentate, così come chi risulta non idoneo. La leva obbligatoria, sospesa nel 2004, potrebbe essere riattivata con un decreto del Presidente della Repubblica.

            Non ti puoi rifiutare

            E no, non ci si può rifiutare. L’articolo 52 della Costituzione è chiaro: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Rifiutare la chiamata, salvo gravi motivi di salute, è considerato un reato.

              Continua a leggere

              Cronaca Nera

              Premeditato? Macché, solo 37 coltellate ‘di impulso’ – Ergastolo a Impagnatiello confermato, ma senza aggravante

              Alessandro Impagnatiello condannato all’ergastolo anche in appello per l’omicidio di Giulia Tramontano e del figlio Thiago. Esclusa la premeditazione, confermate crudeltà e vincolo affettivo. Ecco cosa ha deciso el dettaglio la Corte d’Assise d’Appello di Milano pochi minuti fa.

              Avatar photo

              Pubblicato

              il

              Autore

                La Corte d’Assise d’Appello di Milano ha confermato la condanna all’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, ma ha escluso l’aggravante della premeditazione. Una decisione che, pur mantenendo la pena massima, lascia l’amaro in bocca per la sua portata simbolica. Per la giustizia, Impagnatiello ha agito con crudeltà, ha ucciso la compagna Giulia Tramontano, incinta al settimo mese, ma senza pianificare tutto con anticipo. Una sottigliezza giuridica difficile da comprendere per chi osserva dall’esterno la vicenda.

                Una morte orribile: 37 coltellate e il tentativo di farla abortire con il topicida

                ùGiulia, 29 anni, originaria di Sant’Antimo, è stata massacrata con 37 coltellate, alcune al volto, inferte – secondo l’accusa – per sfigurarla. Come tutti ricordano con orrore, portava in grembo Thiago, il bimbo che non ha mai visto la luce. Prima dell’omicidio, Impagnatiello aveva tentato più volte di farla abortire somministrandole topicida. Una crudeltà prolungata nel tempo, culminata in un gesto estremo la sera del 27 maggio 2023, nella loro casa di Senago, nel Milanese.

                Dopo il delitto, un macabro teatrino

                Dopo l’omicidio, Impagnatiello ha tentato di bruciare il corpo nella vasca da bagno e nel box auto, utilizzando alcol e benzina. Poi ha simulato la scomparsa della compagna, presentando denuncia e continuando a scriverle messaggi, come se fosse viva. Il corpo è stato ritrovato avvolto in teli di plastica, in un’intercapedine vicino a casa, solo dopo giorni.

                La difesa: nessuna premeditazione, anzi giustizia riparativa

                L’avvocata difensore Giulia Geradini ha ottenuto l’esclusione dell’aggravante della premeditazione. Ha anche chiesto l’accesso alla giustizia riparativa, prevista dalla riforma Cartabia, anche senza il consenso della famiglia della vittima. Una proposta respinta con forza dalla Procura generale e dai familiari di Giulia

                La sentenza: ergastolo sì, ma “solo” per crudeltà

                Il processo d’appello si è chiuso in appena mezza giornata. I giudici, presieduti da Ivana Caputo con a latere la giudice Franca Anelli, hanno confermato l’ergastolo, ma senza premeditazione. Le aggravanti riconosciute restano la crudeltà e il legame affettivo. Le attenuanti generiche – chieste dalla difesa per la confessione e l’aiuto nel ritrovare il corpo – sono state rigettate.

                Un caso simbolo dei femminicidi in Italia

                Il caso di Giulia Tramontano è diventato simbolo dell’emergenza femminicidi in Italia. Una giovane donna, in dolce attesa, uccisa dal compagno che aveva costruito un “castello di bugie”, come lo ha definito la Procura. E che ha agito con violenza spietata, nel tentativo disperato di salvare solo sé stesso. Ora tutti attendono, con ulteriore curiosità, la lettura tra qualche mese delle motivazioni. Soprattutto per capire come sia stata messo da parte l’aspetto della premeditazione.

                  Continua a leggere
                  Advertisement

                  Ultime notizie

                  Lacitymag.it - Tutti i colori della cronaca | DIEMMECOM® Società Editoriale Srl P. IVA 01737800795 R.O.C. 4049 – Reg. Trib MI n.61 del 17.04.2024 | Direttore responsabile: Luca Arnaù