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Cose dell'altro mondo

Dalle torte di compleanno ad Arcore agli esorcismi col demonio: l’ex modella racconta “Lucifero era lì”

Non era coinvolta nel bunga bunga, ma racconta di essere stata “posseduta” dopo aver frequentato le cene di Silvio Berlusconi – “Mi rivolsi a un esorcista: mi scagliai contro di lui con violenza, come nel film” – E non è l’unica a parlare di presenze oscure: anche Imane Fadil vide “Lucifero”

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    Una testa che ruota di 180 gradi, sei persone che cercano invano di fermarla, e lei che si scaglia con una forza “sovrumana” contro un prete. No, non è la trama del nuovo horror su Netflix, ma il racconto – vero o presunto – di Ania Goledzinowska, ex modella polacca, ex fidanzata del nipote di Silvio Berlusconi e presenza nota nei salotti del Cavaliere, ai tempi delle famigerate cene ad Arcore.

    La sua intervista a La Stampa ha riaperto un vaso di Pandora che molti avevano sigillato con cura. «Quando scoppiò lo scandalo, mi crollò il mondo addosso. Non ero indagata né testimone, ma vivevo nel terrore delle intercettazioni» confessa. E fin qui, il trauma mediatico. Ma poi arriva il colpo di scena degno di L’Esorcista: secondo Ania, dopo essersi ritirata a vita più sobria, iniziò a sentire dentro di sé qualcosa di oscuro.

    Si rivolse allora a padre Cipriano De Meo, decano degli esorcisti e uomo stimato da Padre Pio. All’inizio, il prete la indirizzò da uno psichiatra, ma poi – parole sue – cambiò tutto. «Mi impose le mani e successe il caos. C’era altra gente nella stanza, ma non riuscivano a trattenermi. La mia testa si girò, mi scagliai contro il sacerdote con una rabbia che non era mia».

    Non è la prima a raccontare esperienze “diaboliche” legate ad Arcore. Imane Fadil, modella marocchina coinvolta nel caso Ruby, aveva dichiarato: «Là dentro c’è il Male, io l’ho visto. C’è Lucifero». Frase che oggi, riletta alla luce delle parole di Ania, suona come un inquietante déjà vu.

    Ora, che si tratti di suggestione, crisi mistica o verità soprannaturale, la questione fa discutere. Una cosa è certa: le cene eleganti continuano a far tremare i polsi. Altro che torta e prosecco.

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      Alassio, la spiaggia più cara d’Italia: ombrellone a 345 euro e solo il 20% di arenile libero

      Altroconsumo incorona Alassio come località balneare più costosa d’Italia: 345 euro per la prima fila e appena il 20% di arenile libero, contro il 40% previsto. Adiconsum e Legambiente denunciano l’ennesima vittoria della lobby dei balneari a danno dei cittadini.

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        Dal “budello” di boutique e gelaterie al mare ci sono solo pochi metri, ma ad Alassio ogni passo verso la battigia pesa come oro. La città simbolo della riviera di Ponente, celebre per Miss Muretto e i suoi aperitivi sul muretto, oggi si distingue soprattutto per un primato poco invidiabile: la spiaggia privata più cara d’Italia. Secondo Altroconsumo, una settimana in prima fila con ombrellone e due lettini arriva a costare 345 euro, mentre le prime quattro file non scendono sotto i 340 euro. Un lusso che, in alcuni casi, include appena una sedia e, molto raramente, una cabina.

        Il problema non è solo il portafoglio. La legge regionale impone ai Comuni liguri di garantire almeno il 40% di arenile libero, ma ad Alassio la quota reale è la metà: appena il 20%, in gran parte frammentato in piccole lingue di sabbia. E spesso si tratta di “libere attrezzate”, una definizione che maschera vere e proprie privatizzazioni, come denuncia da anni Stefano Salvetti di Mare Libero e referente nazionale spiagge di Adiconsum: «In Liguria si è fatto di tutto per favorire la lobby dei balneari. Prima permettendo di trasformare le spiagge libere in simil-stabilimenti, poi con emendamenti regionali che consentono di aggirare il vincolo del 40%».

        Anche Legambiente punta il dito contro quella che definisce «la truffa della mappatura»: nel conteggio ufficiale delle spiagge libere, compaiono addirittura tratti di costa alle foci di fiumi e torrenti, come a Deiva e Finale Ligure, considerati formalmente fruibili ma di fatto inutilizzabili.

        La storia si ripete ogni estate. La mareggiata del 2018 ridusse molti stabilimenti a una sola fila di ombrelloni, ma con il ritorno del mare calmo i guadagni sono tornati a correre. Nel frattempo, il lungomare resta invisibile, nascosto da un muro continuo di cabine e palizzate di legno. E per i turisti, tra piemontesi e lombardi che affollano B&B e seconde case, il vero panorama resta la ricevuta del bancomat: la più salata d’Italia.

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          “Non vuoi più il tuo animale domestico? Lo daremo in pasto alle tigri”: lo choc dallo zoo di Aalborg

          La campagna, presentata come “naturale ed ecologica”, consente ai cittadini di disfarsi degli animali domestici non più desiderati, che vengono abbattuti e dati in pasto a tigri, leoni e linci. L’ombra della macabra strategia di marketing.

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            Chi non vuole più il proprio animale domestico può portarlo allo zoo di Aalborg, nel nord della Danimarca. Qui non verrà affidato a un rifugio né proposto per l’adozione: sarà abbattuto e dato in pasto ai predatori. È il messaggio choc della campagna lanciata sui social dallo zoo. Accompagnata da foto e inviti dal tono freddo e burocratico, che hanno scatenato un’ondata di polemiche in tutta Europa.

            Il regolamento della struttura è chiaro – e spietato: si accettano conigli, galline, porcellini d’India, e persino cavalli. Purché al di sotto dei 147 centimetri al garrese, in buona salute e accompagnati dai documenti previsti. Gli animali devono essere consegnati vivi, per poi essere soppressi dal personale veterinario e trasformati in pasti “naturali” per tigri, leoni, linci e orsi polari.

            La campagna parla di “imitazione della catena alimentare naturale” e di rispetto del benessere dei predatori, che in cattività ricevono di solito carne già porzionata. Per i grandi carnivori, spiegano i responsabili, le carcasse intere – con pelo, ossa e organi – stimolano comportamenti più vicini alla vita selvatica. Ma dietro la facciata ecologica, emergono dubbi etici ed economici. Ogni predatore consuma circa 20 chili di carne a settimana, e la riduzione dei costi alimentari è evidente.

            I numeri del 2025 parlano da soli: 137 conigli, 53 galline, 22 cavalli, 18 porcellini d’India e persino 12 merluzzi sono già finiti nei recinti dei carnivori. L’anno precedente, il 25% del budget alimentare dello zoo era stato speso per mantenere le due elefantesse Tanja e Mai. La prima è stata soppressa per malattia, la seconda “per evitare il trauma di un trasferimento”. Con la loro scomparsa, ha ammesso il direttore Henrik Vesterskov Johansen, il bilancio si alleggerisce di 670.000 corone, circa 80 mila euro.

            Sui social, la reazione è stata immediata e feroce. Molti parlano di campagna “macabra e disumana”, accusando lo zoo di trasformare gli animali domestici in “materiale organico per foraggiare le tigri”. Altri, minoritari, apprezzano l’idea come “riciclo utile”, sostenendo che il corpo di un animale possa almeno servire dopo la morte.

            A far discutere è anche il linguaggio volutamente vago della campagna: non si citano mai cani e gatti, ma nemmeno si esclude apertamente la possibilità di accettarli. In un periodo come quello estivo, in cui gli abbandoni di animali raggiungono il picco, il messaggio suona come un invito implicito a liberarsene senza rischiare sanzioni.

            Oltre al clamore etico, resta aperta la questione di fondo: fino a che punto la necessità di gestire i costi e il benessere dei predatori giustifica una simile pratica? E, soprattutto, quanto siamo disposti a separare affetto e utilità, trasformando in un attimo il nostro animale da compagnia in carne da macello davanti agli occhi di una tigre in cattività.

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              Toglieteci tutto tranne la vacanza: coppia lascia il figlio di 10 anni all’aeroporto di Barcellona

              I genitori, pronti per il volo, hanno preferito non rinunciare alle ferie e hanno mollato il figlio al terminal. La polizia li ha fermati poco dopo, prima del decollo, tra l’incredulità dei passeggeri e dello staff aeroportuale.

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                Per loro la vacanza era sacra. Così, quando al check-in dell’aeroporto di Barcellona El Prat hanno scoperto che il passaporto del figlio di dieci anni era scaduto, non si sono fatti troppi scrupoli: valigia in mano e imbarco confermato, lasciando il piccolo da solo al terminal. Al bambino, spaesato ma obbediente, è stato promesso che un parente sarebbe arrivato a prenderlo a breve.

                Il “piano”, però, è durato lo spazio di pochi minuti. Il personale aeroportuale, insospettito dalla presenza del minore senza adulti, ha subito allertato la polizia. Quando gli agenti hanno ascoltato il racconto del bambino — «i miei genitori sono partiti, arriverà uno zio» — hanno immediatamente avviato le ricerche dei due turisti senza scrupoli.

                I genitori, già seduti a bordo del loro volo pronto al decollo, sono stati fatti scendere dall’aereo tra lo sguardo basito degli altri passeggeri. Condotti in centrale, hanno dovuto spiegare perché avessero deciso di abbandonare il figlio pur di non perdere la vacanza.

                Il caso ha fatto il giro dei social spagnoli dopo che la coordinatrice dei controllori di volo, Lilian, ha raccontato l’episodio su TikTok. Nei commenti, indignazione e ironia si sono mescolate: c’è chi parla di “genitori irresponsabili” e chi, con sarcasmo, li definisce “turisti modello che non rinunciano mai al viaggio”.

                Ora per la coppia, oltre alla figuraccia internazionale, potrebbe arrivare anche un’inchiesta per abbandono di minore. Una cosa è certa: la loro vacanza da sogno è finita prima ancora di cominciare.

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