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Cronaca Nera

Caso Garlasco, prelievo coatto del DNA per Andrea Sempio: “Indagine frutto di una macchinazione”

L’amico di Marco Poggi convocato dai carabinieri per un confronto genetico. È indagato per omicidio in concorso con “altri soggetti o con Alberto Stasi”

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    Puntuale alle 10 del mattino, Andrea Sempio è arrivato in via Vincenzo Monti a Milano. Un piumino grigio, il volto teso, scortato dai suoi avvocati Massimo Lovati e Angela Taccia, è entrato nella caserma “Montebello” dei carabinieri per sottoporsi al prelievo coatto del DNA. Il campione verrà analizzato e confrontato con le tracce genetiche rilevate sulle unghie di Chiara Poggi, uccisa a Garlasco il 13 agosto 2007. Un passo che segna una svolta nelle nuove indagini, dopo anni di battaglie giudiziarie e un colpevole già condannato in via definitiva: Alberto Stasi, l’ex fidanzato della vittima, che sta scontando 16 anni di carcere.

    Sempio, 37enne di Garlasco, è stato iscritto nel registro degli indagati lo scorso 21 febbraio, accusato di omicidio in concorso con altri soggetti o con Stasi stesso. Dopo un primo invito a sottoporsi spontaneamente al test del DNA, aveva accettato solo il prelievo delle impronte digitali. Il suo rifiuto ha spinto la Procura di Pavia a richiedere un prelievo forzato, eseguito questa mattina dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Milano.

    Una battaglia genetica lunga otto anni

    Il DNA trovato sotto le unghie di Chiara Poggi è “leggibilissimo”, secondo la nuova perizia presentata dai legali di Stasi, i quali da anni sostengono l’ipotesi di un errore giudiziario. Non è la prima volta che l’ipotesi di una pista alternativa viene presa in considerazione. Già nel 2016, gli avvocati di Stasi avevano proposto una rilettura del profilo genetico, ma all’epoca il procuratore Mario Venditti e il pm Giulia Pezzino avevano archiviato la richiesta, sostenendo che il DNA fosse inutilizzabile.

    Ora, però, la nuova gestione della Procura di Pavia ha deciso di riaprire il caso e approfondire elementi che, in passato, erano stati messi da parte. Oltre all’analisi genetica, gli inquirenti stanno riesaminando l’alibi fornito da Sempio, basato su uno scontrino di parcheggio a Vigevano in un orario compatibile con quello del delitto. Anche tre telefonate sospette effettuate da Sempio a casa Poggi tra il 7 e l’8 agosto 2007, quando Marco Poggi era già in vacanza e Chiara era sola in casa, sono finite sotto la lente degli investigatori.

    L’accusa di “macchinazione” e le nuove indagini

    All’uscita dalla caserma, l’avvocato Massimo Lovati ha lanciato pesanti accuse: “L’indagine del 2017 è stata frutto di una macchinazione. Non vorrei che lo sia ancora oggi. Gli investigatori privati dello studio legale di Stasi hanno prelevato clandestinamente il DNA di Sempio, creando una narrazione artificiale per scagionare il loro assistito”.

    Un’accusa che riaccende il dibattito tra colpevolisti e innocentisti, due fazioni contrapposte che per anni si sono divise sulle sorti di Stasi. Ora, con l’apertura di un nuovo filone investigativo, il rischio è quello di un processo mediatico parallelo, mentre il sistema giudiziario cerca di fare chiarezza.

    Gli investigatori della Procura di Pavia, guidati dal pm Valentina De Stefano e dal procuratore aggiunto Stefano Civardi, stanno conducendo le indagini con estrema riservatezza, cercando riscontri concreti prima di trarre conclusioni. Dalle poche informazioni trapelate, sembrerebbe che alcuni nuovi elementi raccolti rafforzino i sospetti su Sempio, anche se la prudenza resta d’obbligo.

    Un caso infinito: l’ombra della Cassazione

    Il delitto di Garlasco è uno dei casi più controversi della cronaca italiana. Dopo un lungo iter processuale, il 12 dicembre 2015 la Cassazione ha ribaltato le precedenti sentenze assolutorie, condannando in via definitiva Alberto Stasi. Un verdetto maturato al termine di una battaglia legale durata otto anni, tra perizie, contraddizioni e colpi di scena.

    Dalla prima archiviazione del caso Sempio nel 2017, fino alla recente riapertura nel 2024, il processo per la morte di Chiara Poggi continua a scrivere nuovi capitoli. Ora, con il DNA prelevato e nuove indagini in corso, il domani appare più incerto che mai.

    Il dilemma resta lo stesso: siamo di fronte a un clamoroso errore giudiziario o a un accanimento investigativo? La risposta, forse, potrebbe arrivare proprio da quel tampone salivare prelevato oggi nella caserma Montebello.

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      Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer

      Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

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        Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.

        Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.

        La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.

        Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.

        Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.

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          La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste

          Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

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            Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

            Testo
            «Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.

            La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.

            A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.

            Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.

            Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.

            Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.

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              Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

              Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

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                Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.

                “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

                “Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.

                Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.

                “C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.

                Un puzzle senza pezzi combacianti

                Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.

                E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.

                E Andrea Sempio?

                L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.

                Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.

                Sedici anni dopo, i dubbi restano

                Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.

                Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?

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