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Cronaca Nera

Caso Orlandi: il messaggio criptico della “cassetta delle sevizie” e il ricatto al Vaticano

Il messaggio contenuto nella «cassetta delle sevizie» non è solo un indizio del sequestro di Emanuela Orlandi, ma un tentativo di ricatto diretto al Papa. La voce identificata come quella di Marco Accetti aggiunge un ulteriore livello di complessità a questo oscuro capitolo della storia italiana.

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    Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi è uno dei misteri più intricati e inquietanti della storia recente italiana. Un’inchiesta del Corriere della Sera ha recentemente riportato alla luce nuove informazioni su uno degli elementi più enigmatici di questa vicenda: la cosiddetta «cassetta delle sevizie», un nastro consegnato anonimamente il 17 luglio 1983, contenente un messaggio che, ora decriptato, appare come un vero e proprio ricatto al Vaticano. La perizia fonica ha rivelato che la voce dietro il messaggio appartiene a Marco Accetti, una figura già nota per il suo coinvolgimento in altre vicende oscure.

    Un messaggio criptico e inquietante

    Il nastro, ritrovato vicino al Quirinale, conteneva due lati distinti. Sul lato A, una voce maschile, artefatta per sembrare straniera, recitava un lungo messaggio indirizzato direttamente al Vaticano. Questo messaggio, per anni considerato criptico e delirante, è stato ora parzialmente decriptato, rivelando richieste precise e minacce rivolte al Papa stesso.

    Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, il messaggio inizia con una dichiarazione di intenti volta a tenere alta l’attenzione mediatica sul caso: “Rendiamo noto alla pubblica opinione come gli inquirenti della Repubblica italiana […] non riportino la minima conoscenza dei nostri presunti movimenti nel quadro della malavita organizzata italiana […].” Questo linguaggio volutamente confuso serviva a disorientare l’opinione pubblica e a depistare le indagini, ma l’obiettivo era chiaro: ottenere la scarcerazione di Ali Mehmet Agca, l’attentatore di Giovanni Paolo II.

    La richiesta al Vaticano: liberare Agca

    Il messaggio prosegue con un accenno ai dettagli personali di Emanuela Orlandi e della sua famiglia, dettagli che non erano noti al pubblico all’epoca dei fatti. “La cittadina Emanuela Orlandi ha vissuto un anno della sua infanzia in territorio italiano,” afferma la voce, aggiungendo particolari come l’uso di occhiali da parte della sorella maggiore, Natalina, e la scelta di un sacerdote specifico per un matrimonio in famiglia, fissato per il 10 settembre 1983. Questi dettagli venivano utilizzati per dimostrare che chi parlava era effettivamente in possesso della ragazza e, quindi, in posizione di forza per avanzare richieste.

    Il cuore del messaggio era la richiesta di scarcerazione immediata di Ali Mehmet Agca. “Chiediamo la consegna di Agca indipendentemente dalla sua presa di posizione pubblica […]. Il detenuto Agca è fuori dal vincolo della magistratura italiana. La sua sentenza è inappellabile. Attendendo due anni la conferma del suo non ricorso in appello, siamo pervenuti al meccanismo della grazia.” Questo passaggio, apparentemente sconnesso, sottolinea la pressione esercitata sui vertici del Vaticano affinché intervenissero per ottenere la grazia presidenziale per Agca.

    Il ricatto al Papa: uno scenario di geopolitica

    L’obiettivo ultimo del messaggio era chiaro: costringere il Papa a premere sul Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, per ottenere la grazia per Agca, al di là della volontà del terrorista turco. Il messaggio concludeva con un appello diretto a Giovanni Paolo II: “Nell’ipotesi di rigetto della sottoscrizione da parte del detenuto Agca della scarcerazione e sua consegna ci indirizziamo nuovamente al capo di stato Giovanni Paolo II al fine che domandi alla espressione più alta dello Stato italiano ogni intervento la cui natura si pone esclusivamente sotto l’egida della considerazione umanitaria e che permetta la restituzione immediata della cittadina Orlandi Emanuela alla vita civile.”

    Questo passaggio lascia pochi dubbi: i rapitori volevano che il Papa utilizzasse tutta la sua influenza per ottenere la liberazione di Agca, promettendo in cambio il rilascio di Emanuela Orlandi.

    L’identificazione della voce: Marco Accetti

    La perizia fonica, come riportato dal Corriere della Sera, ha confermato che la voce che leggeva questo messaggio appartiene a Marco Accetti. L’ingegnere Marco Arcuri ha condotto un’analisi comparativa tra la voce del nastro e quella di Accetti, riscontrando una compatibilità del 78%, ben oltre la soglia minima del 55% considerata per una compatibilità fonica. Questo risultato avvalora l’ipotesi che Accetti fosse direttamente coinvolto nel rapimento di Emanuela Orlandi e nei successivi tentativi di ricatto.

    Un personaggio ambiguo al centro del mistero

    Marco Accetti, che si era già autoaccusato di aver partecipato al sequestro di Emanuela Orlandi nel 2013, sostenendo di aver agito per conto di un gruppo con interessi politici ed ecclesiastici, emerge ora come una figura chiave in questa oscura vicenda. Accetti, già noto per le sue connessioni con ambienti ambigui e per il suo ruolo in altri episodi criminali mai chiariti, sembra aver giocato un ruolo centrale nel tentativo di ricatto al Papa.

    Un enigma ancora irrisolto

    Nonostante queste nuove rivelazioni, il caso di Emanuela Orlandi rimane uno dei più grandi misteri irrisolti della storia italiana. La decriptazione del messaggio contenuto nella «cassetta delle sevizie» getta nuova luce su un tentativo di ricatto al Vaticano che coinvolgeva figure potenti e una rete complessa di interessi politici e religiosi. Tuttavia, la verità completa su questo caso sembra ancora lontana, e le ombre che circondano la scomparsa di Emanuela continuano a farsi sempre più fitte.

    La commissione parlamentare e la Procura di Roma hanno ora il compito di approfondire queste nuove prove e di tentare di svelare finalmente il mistero di Emanuela Orlandi, che da oltre 40 anni tiene l’Italia con il fiato sospeso.

      Cronaca Nera

      Caso Yara, Bossetti perde ancora: archiviata la denuncia contro la pm Ruggeri

      La denuncia di frode processuale presentata da Massimo Bossetti contro la pm Letizia Ruggeri, per la gestione dei reperti nel caso Yara, è stata archiviata. Il giudice veneziano ha stabilito che non vi è stata alcuna anomalia o intento illecito nello spostamento delle provette con il Dna. Gli avvocati del condannato all’ergastolo non escludono una futura richiesta di revisione del processo.

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        Archiviato il procedimento per frode processuale che vedeva indagata la pm Letizia Ruggeri, la magistrata che ha condotto le indagini sul caso dell’omicidio di Yara Gambirasio. La decisione è stata presa dal gip di Venezia, Alberto Scaramuzza, che ha accolto la richiesta di archiviazione, ritenendo infondati i sospetti di illeciti nella gestione dei reperti del caso.

        La denuncia contro la pm Ruggeri era stata presentata da Massimo Bossetti, il muratore condannato all’ergastolo per l’omicidio della tredicenne scomparsa nel novembre del 2010 e trovata morta tre mesi dopo. La vicenda riguardava il trasferimento di 54 provette contenenti il Dna dal frigorifero dell’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio Corpo di reati del tribunale di Bergamo. Secondo la difesa di Bossetti, lo spostamento avrebbe compromesso l’integrità dei campioni, rendendo impossibili ulteriori analisi sul Dna mitocondriale.

        Nessun comportamento illecito

        Il giudice Scaramuzza ha sottolineato che lo spostamento delle provette non rappresenta un comportamento anomalo o illegittimo da parte della pm Ruggeri. La decisione di trasferire i reperti non sarebbe stata motivata da intenti illeciti, ma piuttosto dal convincimento, fondato sulle sentenze di merito confermate in Cassazione, che ulteriori analisi sul Dna mitocondriale non avrebbero modificato l’esito delle indagini basato sul Dna nucleare.

        “L’indagata aveva pieno diritto di ritenere che le analisi condotte sul Dna nucleare fossero sufficienti a provare con certezza la colpevolezza di Bossetti, e che eventuali ulteriori verifiche non avrebbero potuto metterne in discussione l’identificazione,” ha spiegato il gip nel provvedimento di archiviazione.

        La reazione della difesa di Bossetti

        Gli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, pur accettando la decisione del giudice, hanno ribadito che la destinazione dei reperti a un luogo non refrigerato rimane un fatto concreto, anche se non c’è stata frode processuale. “L’archiviazione esclude il dolo, ma conferma quanto accaduto,” hanno dichiarato i legali, lasciando intendere che il caso potrebbe ancora avere sviluppi.

        Secondo la difesa, la posizione del pm Ruggeri non influirebbe su un’eventuale richiesta di revisione della sentenza di condanna, che Bossetti potrebbe avanzare in futuro. Una strada che gli avvocati non escludono di percorrere, nella speranza di ottenere nuovi esami sui reperti.

        Il caso Yara e la battaglia legale

        Il caso Yara Gambirasio, con la sua drammaticità e complessità, continua a suscitare attenzione e dibattito. L’omicidio della giovane ginnasta ha segnato profondamente l’opinione pubblica italiana e il lungo processo a carico di Massimo Bossetti, conclusosi con la condanna all’ergastolo, è stato caratterizzato da numerose polemiche e controversie.

        Nonostante la definitiva sentenza di colpevolezza, il muratore bergamasco e la sua difesa non hanno mai smesso di lottare per una revisione del processo, contestando la gestione dei reperti e la metodologia delle analisi genetiche. La recente archiviazione del procedimento contro la pm Ruggeri rappresenta un ulteriore capitolo di questa intricata vicenda giudiziaria.

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          Cronaca Nera

          Omicidio Giulia Cecchettin: Filippo Turetta non sarà presente alla prima udienza del processo

          Filippo Turetta, accusato di aver ucciso l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, non comparirà in aula durante la prima udienza. La difesa non richiederà la perizia psichiatrica, mentre il processo, presieduto dal giudice Stefano Manduzio, si preannuncia breve e intenso

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            Filippo Turetta, attualmente in carcere con l’accusa di aver brutalmente ucciso l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, non sarà presente in aula per la prima udienza del processo, fissata per lunedì 23 settembre davanti alla Corte d’Assise di Venezia. La notizia è stata confermata dal suo legale, l’avvocato Giovanni Caruso, che ha ribadito l’intenzione della difesa di non richiedere una perizia psichiatrica per Turetta, nonostante le gravi accuse che pendono su di lui.

            Turetta, 22 anni, sembra voler mantenere un profilo discreto, lontano dai riflettori mediatici, seguendo quello che il suo avvocato ha descritto come un “percorso di maturazione personale” rispetto al terribile crimine di cui è accusato. Il processo, che si terrà nella piccola aula della Corte d’Assise presieduta dal giudice Stefano Manduzio, sarà seguito da venti giornalisti accreditati e dalle sole telecamere della Rai, che trasmetteranno le immagini alle altre emittenti.

            La lista dei testimoni del pubblico ministero di Venezia, Andrea Petroni, include una trentina di persone, tra cui i familiari di Giulia Cecchettin, come il padre Gino e la sorella Elena. La difesa di Turetta, invece, ha indicato solo il medico legale come testimone. Questo approccio ristretto richiama in qualche modo il rito abbreviato, al quale Turetta non può accedere a causa della gravità delle accuse: omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dall’occultamento di cadavere.

            Giulia Cecchettin è stata uccisa la notte dell’11 novembre scorso, e le circostanze del delitto, comprese le 75 ferite riscontrate sul corpo della vittima, hanno scosso profondamente l’opinione pubblica. Ora, con l’apertura del processo, si spera che venga fatta giustizia per Giulia, mentre Filippo Turetta si prepara ad affrontare il verdetto che potrebbe portarlo a una condanna all’ergastolo.

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              Giallo sulla morte di Amedeo Matacena: disposta la riesumazione delle salme. La moglie indagata.

              L’inchiesta, che vede indagata Maria Pia Tropepi, moglie dell’ex parlamentare di Forza Italia, indaga sulle circostanze delle morti di Matacena e della madre, con l’ipotesi di un possibile duplice omicidio.

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                La Procura di Reggio Calabria ha disposto la riesumazione delle salme di Amedeo Matacena e della madre Raffaella De Carolis, deceduti a distanza di pochi mesi nel 2022 a Dubai. L’ex deputato di Forza Italia, latitante a Dubai per sfuggire a una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, era morto ufficialmente per un infarto del miocardio il 16 settembre 2022. Tuttavia, le autorità giudiziarie sembrano non essere convinte della causa dichiarata del decesso e hanno aperto un’indagine per accertare eventuali responsabilità penali.

                L’inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Sara Parezzan, riguarda anche la morte della madre di Matacena, Raffaella De Carolis, avvenuta tre mesi prima, il 18 giugno 2022. Secondo quanto riportato dalla Gazzetta del Sud, la Procura ha iscritto nel registro degli indagati Maria Pia Tropepi, ultima moglie dell’ex parlamentare, con l’accusa di duplice omicidio.

                Le indagini e le riesumazioni
                Le circostanze delle morti di Amedeo Matacena e della madre hanno sollevato numerosi interrogativi, portando la Procura a ordinare la riesumazione delle salme per eseguire autopsie approfondite. Mentre il corpo di Raffaella De Carolis si trova a Reggio Calabria, quello di Matacena è sepolto al cimitero di Formia. Le autopsie saranno condotte dal medico legale Aniello Maiese e dalla tossicologa Chiara David, con le operazioni previste per il primo ottobre.

                L’indagine mira a verificare se le morti siano collegate e se vi siano responsabilità penali, come suggerito dall’ipotesi di reato di duplice omicidio avanzata nei confronti di Maria Pia Tropepi. La donna, originaria di Lamezia Terme, ha nominato un consulente di parte per seguire le operazioni autoptiche.

                Il contesto e le dichiarazioni
                Amedeo Matacena, noto armatore e politico, era fuggito a Dubai per evitare una condanna definitiva nel processo “Olimpia” e, fino alla sua morte, era rimasto latitante. Nei mesi successivi alla sua scomparsa, erano emerse voci di un possibile coinvolgimento della Procura di Reggio Calabria e degli uffici inquirenti romani per accertare la veridicità della causa naturale della morte. Queste speculazioni erano state prontamente smentite dalla moglie, Maria Pia Tropepi, che attraverso il suo legale aveva ribadito che Matacena desiderava essere cremato, decisione alla quale si era opposta la famiglia, che ha poi seppellito l’ex parlamentare a Formia.

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